Particolare dell’immagine di copertina

 

“Per correr migliori acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di risalire al ciel diventa degno” .

La possibilità di avviare o riavviare un dialogo lungo settecento anni tra il Sommo Poeta e i poeti di oggi, è stata la suggestione che ha avviato il progetto dell’antologia Miglior acque, curata da Marco Sonzogni e Matteo Bianchi per l’edizione contenente le traduzioni in italiano (Samuele Editore 2022), e dallo stesso Sonzogni con Timothy Smith per la versione in inglese, edita a Wellington per il Dante Day 2021 (More Favourable Waters, The Cuba Press). A 33 poeti neozelandesi è stata assegnata una terzina di uno dei Canti del Purgatorio, affinché si potessero ispirare per la stesura di versi capaci di trasportare la parola poetica attraverso i secoli e oltre la complessa cesura – etica ed estetica – operata dalla modernità. I curatori della collana Leda della Samuele Editore hanno selezionato trentatré autori italiani per la traduzione dei testi dei colleghi d’oltreoceano, mettendo in relazione l’uso della lingua inglese, nella peculiare e talvolta oscura declinazione in versi, con quello della lingua italiana che, nonostante presunti e più o meno realistici appiattimenti, continua a rivelare il suo altissimo potenziale formalistico-concettuale. “Il Purgatorio è il frangente kierkegaardiano delle possibilità” scrive Matteo Bianchi nella prefazione all’antologia: così il curatore spiega il motivo per il quale è stata scelta proprio questa Cantica per avviare il dialogo poetico con gli autori contemporanei. È sull’horror vacui di questa possibilità – un abisso, una “sospensione tra cielo e terra”, un’immediata propensione al possibilismo antropologico ed ermeneutico – che si accende la fiamma dirompente della poesia.

“Ma è difficile staccarsi dalle nostre imperfette abitudini,
dai nostri affetti miseri e deludenti. Noi uomini
ci affezioniamo anche a chi ci fa del male”.

Bianca Garavelli, a cui è dedicata l’antologia, nella sua riflessione sull’Inferno e sul Purgatorio , ha tenuto sempre a mente la centralità del lettore nella comprensione e nella riproposizione di un’opera, proprio come è stato per Dante. Inizia così un percorso di conoscenza e di riconoscimento che parte dalle terzine dantesche per condurre il lettore in quel luogo psicolinguistico – la poesia – che si erge tra l’oscura selva dell’ignoto e una presunta salvezza che, forse, oggi, interessa a pochi.

I testi degli autori neozelandesi e le loro traduzioni sembrano mostrare, con stanco orgoglio, una pervasiva assenza di speranza come sostrato emotivo degli accadimenti quotidiani: “il genere di cose che allietava i semplici/prima che il morbo ci isolasse” (Steven Toussaint tradotto da Leonardo Guzzo). La terra, come simbolo e come segno, appare instabile, infeconda, sconosciuta e inconoscibile come la parola (“Non ruberai la terra disseccata/né disosserai l’argilla dei creatori; le vecchie dita/del paesaggio levano i non-morti al tuo servizio”), e il paesaggio, nel suo mostrarsi all’interno del verso, denuda il corpo etico dell’uomo: “arterie di case minuscole festonate come piccoli/sarcofagi, diffuse in linee, whakapapa/- non più il viaggio dell’eroe,/non più la disgregazione del mondo/per rivedere i genitali dei tuoi genitori” (Anahera Gildea tradotta da Antonella Anedda e Marco Sonzogni). Emergono numerosissimi temi riguardanti l’attualità e la quotidianità, la cronaca sociopolitica e la dimensione interiore: la questione ambientale, sociale, etnica, di genere, di violenza di genere, di conflitto, di identità, di specie e di specismo, della dicotomia spirituale tra l’al di qua e l’al di là. La questione sentimentale, poi, rimane fra le più ricorrenti all’interno di un’urgenza intimista, politicamente confessionale: “Il magico numero tre. La Trinità. La mia Beatrice, Virgilio ed io; il mio bizzarro triangolo amoroso” (Helen Rickerby tradotta da Viola Di Grado) e, ancora “Tutti i miei pensieri parlano d’amore./E chi vorrebbe tacere ogni canto./si chiama santità dell’attenzione” (Michael Harlow tradotto da Claudio Pasi).
Il mito dell’origine si affianca all’ossessione della fine che non è (solo) la morte ma è quello stare in mezzo alla vita in modo inconcludente, annoiato, rabbioso e, infine, desacralizzato: “No. Penso che questi mondi collidano./Madre, Figlia, Spirito Santo – / chi era? Una guida creata da Dio/per offrire al vecchio Dante un pretesto per vantarsi/di aver scorto, grazie a lei, una strada/tra il fuoco dell’inferno e del purgatorio -/come se un mesto randagio d’uomo/meritasse la salvezza attraverso il desiderio”. D’altronde, in un presente radicale, Beatrice può riscrivere la storia dell’archetipo a cui era stata condannata: “è la montagna, mentre dice no” (Robin Peace tradotto da Mariangela Maio).
I linguaggi stranieri non tradotti si calano nella sostanza plastica di un dettato comune, quotidiano: “Una stanza vuota, la mia ventiquattrore con niente dentro: Etel, che ne fanno le tue lingue del mio desiderio di mappe in meno? Si tratta di trasferirsi con una tavolozza di abbastanza ة أشكال سلبية للسعادة ث” (Vana Manasiadis tradotta da Flaminia Cruciani).
Un profondo, irrisolvibile senso di estraneità sancisce lo straniamento dalla vita, si compie in un cinismo macabro, quasi violento: “Ora c’è solo seta dove dovevano esserci denti/Questo mondo è finzione, e noi bambole, sorte/alla vita, clap, applauso – stupidi pazzi con scarsa ironia” (Reihana Robinson tradotta da Mariadonata Villa).
La montagna si presenta come topos multiforme, come significante eclettico, simbolo arcano e arcaico di una verticalità che ritorna prepotentemente nel presente, monumento storico al cui cospetto ci si sente soffocare in una orizzontalità confusa e compulsiva.
L’io si spezza nel liberoversismo, nelle strofe non sempre omogenee, nel flusso di una lacerante prosa poetica. L’individualità si sdoppia, è multiforme e camaleontica, disperde in una pluralità rarefatta la sua singolarità formante: “rimasta sola/dietro la mia guida, proseguo oltre la lunga fila/di coloro che piangono alla loro stessa canzone, piangono/a tutto ciò che si è dissolto nell’oggi con noi qui” (Kay McKenzie Cooke tradotta da Renata Morresi).
La poietica soggettivista e, forse, solipsista di oggi riconduce le faccende personali alle categorie collettive come se non ci fosse differenza alcuna. L’epica della speculazione sui grandi sistemi diventa essa stessa il sistema a cui accedere attraverso il minimalismo di ciascuna vita, di ciascuna specie, di ciascun destino irrisolto e, per questo, sempre più prossimo al presagio dell’intera stirpe, nonché alla mitologia dell’intera genesi antropologica: “Non fare sprechi. Ti mostro io. Mia nonna/separa i semi della zucca e gratta via/scaglie di polpa arancione dai gusci.//Sparsi in una padella rovente alcune fibre si attaccano./Non temere, aggiungerà carattere” (Marisa Cappetta tradotta da Laura Accerboni).
Il dramma esistenziale trapela dalle brevi storie narrate o alluse nei testi, sembra il perpetuarsi di una storia senza sacralità e senza retorica, senza la necessità di mostrare un solido filo conduttore. È una narrazione che tratta dell’esperienza della gente con i suoi oggetti quotidiani, e che accenna a una dimensione mistica ma senza verificarla, senza mai farne esperienza.
C’è un realismo ossimoricamente visionario che viene proposto in una chiave di evanescenza gnoseologica e manifesta simbologie inattese. Tali simbologie non necessariamente superano il dettato ma lo completano attraverso le parole non dette e la percezione di un bagaglio etico comune che non abbisogna di descrizioni.
Emerge la rabbia come soggetto terzo tra l’uomo e la sua esistenza. Ogni cambiamento sembra mosso da un sostrato di rabbia fluida, capace di trasformare la vendetta in creazione: “Le spine e le viti tagliate con rabbia/crebbero di nuovo e con più rabbia/ingoiando tutto sul loro cammino//squarciando la casa con rabbia/Dove una pianta veniva tagliata/altre due vi sarebbero cresciute” (Airini Beautrais tradotto da Bianca Battilocchi).
Se “il futuro era così lontano/che viverlo adesso sarebbe stato sbagliato” (Anna Jackson tradotta da Maria Borio), la storia coloniale continua a segnare la percezione della vita e la variazione di linguaggio di questi 33 poeti neozelandesi, così come si ripercuote nelle traduzioni dei colleghi italiani, anch’essi mossi all’interno di una koinè contaminata da secoli di dominazioni straniere e traumi identitari.
Tra soggetti poetanti che viaggiano, che traslocano di casa, che si innamorano, che vengono lasciati, che subiscono violenza o discriminazioni, che vivono nel ricordo dei defunti, si percepisce la modalità contemporanea in cui le persone si sentono penitenti ma, forse, non è a una dimensione superiore e trascendente che chiedono salvezza: c’è una memoria del dolore che ha responsabilizzato all’autoanalisi e alla possibilità di imprimere un verso alle proprie energie etiche, forse proprio nel verso della parola poetica.
D’altronde, come scrive ancora Airini Beautrais, “Il mondo è cieco e noi venivamo al mondo./Dipendeva da noi, non dalle stelle./Intanto scioglievamo il nodo della rabbia”.

Ecco che, adesso, appare “facile intuire come il vecchio zio Virgilio/non sapesse un’acca dell’ora di punta, aveva/un testone per i miti e per la/filosofia, zero sui pendolari” (Jeffrey Paparoa Holman tradotto da Tommaso Di Dio). Lo status esistenziale di questo nuovo pendolarismo, probabilmente libero da epigonismi storici e da eccessive nostalgie per il passato, è, forse, una delle risorse più interessanti della vita (e della letteratura) di oggi, nonché uno dei maggiori bagagli etico-culturali di quella Commedia che non ha mai smesso di parlarci.

da Miglior acque. 33 poeti neozelandesi e italiani rispondono al Purgatorio di Dante (Samuele Editore 2022) a cura di Marco Sonzogni e Matteo Bianchi

Hillside

Recall the first day of our tenancy.
It rained that morning. We taxied up in cool
September steam. Our neighbours brokered tea
And fatal gossip and a fishy towel
While we waited for an agent with the key,
The kind of easy dealing people loved
Before disease shied us.
Behind the parcelled garden, muntjacs hoofed
The scarp where Roman settlers once made midden,
A public kitchen tiled with rescued shards
Of early leaves, the chestnuts first to redden
Here and fall, then as now. Coughing hard
Into their hands with pleasure and in synchrony
The sculling crew across the terrace toked.
A student flat. We would succeed a family.
And three yards down, whose manicure evoked
My Yank imaginings of English hedge,
A poet lived, dying, we later learned.
The muntjacs caught our eyes and wouldn’t budge.
The rowers since moved on. The poet mourned
The crowded island he had not believed
‘Accessible’. We trade antipodes
Perpetually, it seems. Then we arrived
On a deserted shore that never sees
A man who sails its waters and yet knows
How to return. We tabulate the risks,
Step out into the autumn leaves we chose
And kiss our daughter through our cotton masks.
Cyclists pass with slow morality,
Conscience lately consciousness of farce.
Double-parked,
Removal vans have locked a classic hearse
Against the curb, retired and unmarked.

Steven Toussaint

Collina

Ricordati il nostro primo giorno in affitto.
Pioveva, quel mattino. Venimmo in taxi nell’umida
frescura di settembre. I vicini ci fornirono di tè,
chiacchiere fatali e una salvietta coi pesci,
in attesa dell’agente con la chiave,
il genere di cose che allietava i semplici
prima che il morbo ci isolasse.
Dietro i lotti di giardino i cervuli pestavano
il pendio dove un tempo i coloni romani impilavano rifiuti,
il pub era ammantato dei resti raccolti
di foglie precoci, che i castagni rosseggiano per primi
qui e si spogliano, adesso come allora. Tossendo
forte dentro i pugni, ebbra di piacere e in sincrono,
la ciurma ondeggiante sul terrazzo fumava spinelli.
Una casa di studenti. Facevamo famiglia.
E tre metri più in basso, la manicure come fosse
l’idea di una siepe all’inglese nel mio cervello yankee,
viveva un poeta, morente, scoprimmo dopo.
I cervi ci incantavano senza battere ciglio.
S’erano intanto mossi i marinai, piangeva il poeta
l’isola brulicante che non aveva creduto
“accessibile”. Scambiamo, sembra,
ininterrottamente antipodi. Poi arrivammo
a una deserta proda che mai
vide uomo solcare le sue acque e sapere
la via del ritorno. Studiamo i rischi,
mischiarci alle foglie d’autunno la scelta, baciare
nostra figlia oltre le maschere di cotone.
Ciclisti scorrono con lenta dignità,
coscienza recente cognizione di farsa.
I camion del trasloco
lasciati in doppia fila hanno bloccato
un vecchio carro funebre. Dismesso, senza insegne.

Leonardo Guzzo

In answer to the question of scale

Thou shalt not steal the parched earth,
nor till the clay of our makers; landscape’s
ancient fingers raise the undead to your service.

Resist the reaping of tikanga that masquerades
as story-your-own, to hoard
is to forfeit your life in stealth.

Thou shalt not squat on the braided spine
of your ancestor, scavenging the urgent
salt-ruined territory of her skin.

The rude of your monstrous story
is the commerce of identity. Relinquish
titles, the deeds of your culture-mendicant

slogans from tūpuna not your own;
words the survey pegs
that parcel the vacant slopes of her

geomythology. The pelt of the land, reduced
to nostalgic fumes that fertilise the wreath of your hunger
giant, invader-Mother-settler-Self.

On both flanks now, she casts shadow.
Her shoulders cloaked in purple weeds, wild with moth,
garlands for time’s metropolis;

arteries of tiny houses festooned like small
sarcophagi, spread in lines, whakapapa
– no longer the hero’s journey,
no longer the wrenching apart of the world
to see anew the genitals of your parents.
Nothing has been enough –

you have polluted the epic –
hokia ki tōu maunga, kia purea koe
e ngā hau a Tāwhirimātea.

Run to the mountain, for your slough prevents
God’s being clear to you. It must be stripped
from you. Yes, you are here to be made clean.

Anahera Gildea

In risposta alla questione delle dimensioni

Non ruberai la terra disseccata
né dissoderai l’argilla dei creatori; le vecchie dita
del paesaggio levano i non-morti al tuo servizio.

Resisti al raccolto del tikanga che si spaccia
come storia-tutta-tua. Accumulare
è perdere la vita di nascosto.

Non ti accuccerai sulla rachide intrecciata
della tua antenata, rovistando l’urgente
superficie sua della pelle, arsa di sale.

Il brutto della tua storia mostruosa
è il commercio d’identità. Rinuncia
ai titoli, agli atti della tua cultura-slogan

mendicanti di una tūpuna, non tuoi;
parole i paletti dei rilievi
che spartiscono i pendii vacanti della sua

geo-mitologia. Il manto della terra, ridotto
a fumi di nostalgia che fecondano il serto di fiori della tua fame
gigante, chi invade-Madre-chi s’assesta-Te stessa.

Proietta ombra su entrambi i fianchi,
le sue spalle ammantate di malerbe viola, selvagge di falene,
ghirlande per la metropoli del tempo;

arterie di case minuscole festonate come piccoli
sarcofagi, diffuse in linee, whakapapa
– non più il viaggio dell’eroe,
non più la disgregazione del mondo
per rivedere i genitali dei tuoi genitori.
Nulla è bastato –

hai inquinato l’epica –
hokia ki tōu maunga, kia purea koe
e ngā hau a Tāwhirimātea.

Corri alla montagna e lascia la tua vecchia pelle
sulla terra. Impedisce a Dio di esserti chiaro.
Bisogna levartela. Sì, sei qui per essere sanata.

Antonella Anedda, Marco Sonzogni

Rock

I
Corbels etched and gargoyles carved in corners,
Dante’s purging prideful, backs bent by stones.
And one that looked resigned to his distress
seemed also, by his weeping, to despair,
saying ‘I’m finished’ with his will still there.

II
It’s haughtiness perhaps or arrogance,
self-centredness the greater sin than pride,
superciliousness that bends them down.
But pride? Why pride? Why should that be a sin?
There’s nothing wrong with satisfaction earned.

III
Who’d begrudge the child who wins their races?
Courageous marchers with their hard-won flags?
And what makes you proud? Family? Garden?
The deck you built? The language that you learned?
Pride may be your bonus not your burden.

IV
And as for ancient images in stone,
give me a Sheela na gig any day,
divine hag in the castle’s corner quoin,
hands holding open heaven’s other gate,
portal to this world, the way we entered.

V
There is a rock I love called Marsden Rock,
lathered in guillemots and kittiwakes.
I thought it was a constant in my life
until the centre of its arch came down.
Still, most of it remains, feet in the waves.

VI
I have a loving man who is my rock
and yes, I’m proud of eighteen happy years.
You’ll find your rocks whenever you have need.
A rock should lift you, never weigh you down.
A rock should be your comfort and you theirs.

VII
Let go the boulders, do not bend your back.
Look to the skyline, raise your arms and smile.
Watch all your stones roll down and disappear.

Janis Freegard

Pietra

I
Mensole incise e gargoyle scolpiti negli angoli,
i superbi di Dante che espiano, schiene piegate dalle pietre.
E uno che sembrava rassegnato al suo tormento
sembrava anche, dal suo pianto, disperare
dicendo ‘Sono finito’ con la sua volontà ancora lì.

II
È la superbia forse o l’arroganza,
l’egocentrismo il peccato più grande dell’orgoglio,
l’alterigia che li piega.
Ma l’orgoglio? Perché orgoglio? Perché dovrebbe essere un peccato?
Non c’è niente di male nella soddisfazione meritata.

III
Chi invidierebbe il bambino che vince le loro gare?
Coraggiosi marciatori con le loro bandiere conquistate a fatica?
E cosa ti rende orgoglioso? La famiglia? Il giardino?
La terrazza che hai costruito? La lingua che hai imparato?
L’orgoglio può essere il tuo premio, non il tuo fardello.

IV
E quanto alle antiche immagini nella pietra
dammi sempre una Sheela na Gig,
divina strega nel concio d’angolo del castello
mani che tengono aperta l’altra porta del paradiso
portale di questo mondo, la via da cui siamo entrati.

V
C’è una roccia che amo chiamata Marsden Rock,
insaponata di urie e gabbiani.
Pensavo fosse una costante della mia vita
finché il centro del suo arco non cadde.
Eppure, la maggior parte rimane, i piedi nelle onde.

VI
Ho un uomo amorevole che è la mia roccia
e sì, sono orgogliosa di diciotto anni felici.
Troverai le tue rocce ogni volta che ne avrai bisogno.
Una roccia dovrebbe sollevarti, mai opprimerti.
Una roccia dovrebbe essere il tuo conforto e tu il loro.

VII
Lascia andare i macigni, non piegare la schiena.
Guarda l’orizzonte, alza le braccia e sorridi.
Guarda tutte le tue pietre rotolare giù e scomparire.

Franca Mancinelli

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