Fotografia di Giandomenico Papa

 

Nella prefazione a Delle nostre immagini (poesie 2004-2018), raccolta d’esordio di Costantino Turchi edita da Arcipelago itaca (2020), Umberto Piersanti scrive che l’autore «sembra muoversi, sia per quello che riguarda la lingua e lo stile, sia per le tematiche, in un modo tutto suo». La poesia di Turchi si presenta infatti come un denso impasto linguistico insieme classicheggiante e moderno, la cui carica espressiva risulta dosata mediante un accurato lavoro di cesellatura. Pertanto Piersanti specifica: «Quello di Costantino Turchi è un linguaggio complesso ed elaborato dove le metafore si intrecciano fino quasi a rasentare formule criptiche: dico “quasi” perché questa poesia mantiene sempre una carica semantica e non si avventura mai nel campo minato della destrutturazione del senso. Altrove dominano immagini limpide e precise quasi da cartografo o incisore». Turchi controlla la musicalità della versificazione ricorrendo all’enjambement, all’iperbato e a rimandi fonici sparsi, ma soprattutto alla rima e all’endecasillabo (in misura minore all’alessandrino, al novenario e a soluzioni più contratte), che si dispongono liberamente o ammiccano a forme testuali tradizionali come il distico, la quartina, la canzone, la ballata, l’ottava e la terza rima.
Per quanto riguarda la rielaborazione tematica, Piersanti nota: «La Weltanschauung dell’autore è sostanzialmente questa: deserto e desolazione appena rischiarata da incontri e sguardi». Si tratta di immagini appartenenti a un patrimonio personale che diventa collettivo, come è possibile intuire già dal titolo dell’opera. Esse si articolano quasi fino a strabordare dalla pagina, ma Turchi si serve, per l’appunto, di strumenti metrici e retorici, nonché di una scrupolosa osservazione, per contenerle e amalgamarle.
La messa a fuoco di queste immagini è favorita da un’ampia scelta lessicale attraverso cui è possibile individuare i nuclei fondamentali del libro. A prevalere è senza dubbio il dato biologico, ispezionato con piglio scientifico («neurotossine»), e declinato in situazioni bucoliche dove i dettagli naturali vengono descritti minuziosamente. Tra i più curiosi termini appartenenti al linguaggio tecnico botanico ad esempio si trovano:  «leguminosa», «polloni», «talea», «pistilli», «siliquastro», solo per citarne alcuni. In tale ambito Piersanti evidenzia il richiamo al manifesto poetico montaliano de I limoni, basato sul confronto tra «l’aristocratica palma e i pioppi». Tralasciando poi altri riferimenti tipici dell’ambientazione rurale, il mare non può essere certamente escluso dal dizionario enciclopedico di un civitanovese. All’interno di questi scenari si muovono diversi animali («cavallo», «passeri», «volpe», «zecca», «cani», «zanzare», «paguro», «insetti», «api», «pantere», «bisce», «pesci», «pellicano», «coccodrillo», «lucertola», «mosche») che compongono una sorta di bestiario di figure, secondo la definizione di Auerbach: «L’interpretazione figurale, dunque, stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto sé stesso, ma significa anche l’altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali» (Studi su Dante, Feltrinelli, 2005, p. 209). A ciò si aggiungono inoltre mostri leggendari come le «chimere», i «tifoni» e la «Sfinge», che non sono gli unici rimandi alla mitologia classica e medievale, e a un mondo pagano e tribale («Ofelia», «titani», «auriga», «nano», «gigante», «babelica», «idra di Lerna», «totem», «canopi», «Stige» «carri di Plutone», «golem»).
L’impressione è che Turchi tenti di ricreare una dimensione mitologica e rituale del contemporaneo senza dunque uscire dal tempo. Lo testimoniano i correlativi oggettivi («orologio assonnato»), gli oggetti («lampadario», «TV»), i grandi edifici («stazione», «palazzo», «condominio») con i relativi elementi («schermo», «monitor», «cavi», «tralicci», «impalcature», «pilasti», «fondazioni») e materiali («calcinacci», «cemento», «plastica», «gomma»), spesso ricondotti all’intimo quotidiano dello spazio privato («coperta», «vestaglia», «scrivania», «quadri») e alla loro elementare costituzione («materia», «atomi», «particelle»). Sono i resti del paesaggio, i segni del passaggio, le tracce di una memoria («sonar / dei ricordi») costretta a confrontarsi, con cura filologica, con la stratificazione temporale («paleo-informatico»), non senza amara ironia e salacità: «Anch’io / (penso) dovrei defecare davanti l’ex sede dell’ex società di luce e gas». Antiche consuetudini come il lavarsi con l’acqua di San Giovanni e incontri amorosi vengono così riprodotti, come nella «sciadografia» di Talbot, e attualizzate in una critica sociale a falsi idoli consumistici (altra interessante invenzione è la parola «lucordecori» riferita al natale), dalla quale emerge un fagocitante contesto metropolitano frequentato da numerosi personaggi.
Infine al poeta, immerso in questo ingorgo («E io tra loro»), non resta che ridurre la sua riflessione ai campi semantici di vita e morte nella perentoria chiusa: «Ci sarà / lo squarcio nero di una tela bianca».

 

Da Delle nostre immagini (Arcipelago itaca 2020)

Giunge da terra l’odore di questo fermentare
stratificato e alcolico, zuccherino e impolverato.
Erano di vari ceppi i vitigni che ora indistinti
sommergono d’intorno il prato e dove si passava
con l’irroratrice meccanica l’acqua ramata
o con le cesoie a molla la raccolta dell’uva.
Giù vanno i rami (una volta scavalcati i cavi,
sopraffatto l’ordine dei tralicci) e si conciliano,
rasi al suolo, con le riemerse radici. Rari
si vedono gli acini piccoli, quasi acerbi, covati
dai pampini e le loro pieghe sotto cui cola la polpa
appassita: se ne nutrono solo i passeri o una volpe
mentre non vediamo. Noi, che siamo abituati
a passare solo dove è segnato un passaggio,
rimaniamo ai margini oppure graffiamoci
i polpacci di sangue, il volto con sporco e saliva.

 

L’edera

Cresce l’edera che mi portasti
in un cespuglio dal davanzale.
Non sono i fiori dei giardini
chiusi nei recinti di chiostri mesti

a coprire le pietre dure e i mattoni
né il gelso o l’acacia dei greppi
coi grappoli di miele sulle vie;
stelle verdi rampicano l’aria

senza alcun peso sui ramoscelli,
cercano luce: si aprono vie
imprevedibili nelle correnti:
ogni nodo declina i suoi eventi.

Frutta il limite umano la caduta
libera dai terrazzi aperti
lungo le pareti dei vicoli
pesti da mortali passi.

L’edera che mi hai portato ramifica,
ha messo radici nel terriccio,
da sola si sdoppia e moltiplica
geometrica nel tempo spiccio.

 

*

Visti dalla superstrada
i palazzoni in faccia al mare

(primissima porta deviata
d’accesso alla città)

sono torri tra brulli campi,
sono multicolori titani,

ammassi di materia giganti.
La vertigine tra cielo e umani

si colma di questi megaliti
come una cicatrice artificiale:

un’isola dimenticata,
ventre petroso dei suoi abitanti.

 

Costantino Turchi (1993) vive a Civitanova Marche. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Scienze umanistiche all’Università di Urbino “Carlo Bo”, ha compiuto gli studi magistrali laureandosi in Filologia moderna presso l’Università di Roma “La Sapienza” con la tesi La ripresa del sonetto. È tra i fondatori e nel comitato scientifico di Polisemie – rivista di poesia iper-contemporanea. Sue poesie sono apparse su riviste online e cartacee, tra cui Pelagos letteratura, La Resistenza della Poesia e t-mag di Tatiana Tardio, e antologie quali Intorno a SibillA (Affinità Elettive 2015). Alla musa lirica affianca quella critica e una encefalica passione per l’arte: mentre alcuni suoi articoli a proposito di letteratura recente sono presenti online, un breve contributo è in Burri – la ferita della bellezza (Magonza 2019) a cura di Massimo Recalcati. Delle nostre immagini (Arcipelago Itaca 2020) è la sua opera prima.

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