L’immaginazione materiale di Rosa Gallitelli – Nota critica di Gualtiero De Santi

L’anima interna della natura e insieme – nell’esempio della prima sorprendente raccolta di Rosa Gallitelli – lo spirito di una grande foresta, determinano in chi ne avverta, sensorialmente e immaginificamente, la presenza uno stato d’animo avvicinabile a pensieri e a simboli della vita e dell’esperienza quotidiana. Un tale tessuto di impressioni si lascia connotare e ancor più marcare da un segno forte e impetuoso, allora che la natura appaia in piena fecondità, in un brulicare che è intenso e vivido come ugualmente sovrastante e misterioso.

Da ciò ancora, il fatto che quelle impronte traducano possibilmente in campo una cosmogonia ma ugualmente (operiamo in tempi nei quali pur conta la soggettività) una sorta di personale simbologia. Quanto per altro sembrerebbero veicolare i versi della lirica introduttiva di Selva creatura leggera (Passigli, Bagno a Ripoli 2015: in una collana fondata da Mario Luzi). Versi che così recitano nell’incipit: “ Ma gli anni nella Selva: infoltimmo, / spopolati fino all’inconsistenza, / all’essere cui nulla è necessario / se non l’incoscienza nutrice, / basilica dei soli diluvi” (Dipinture nel fisso scroscio).

Sin dal tratteggio dei titoli (ne menzioniamo alcuni, Biografia delle piogge abnormi, Cavigliera di fiumi verdi, oppure Sotto la inzuppata stella di Guanacaste, o Corpo aldilà delle piogge), il libro risente dell’energismo prorompente delle foreste centroamericane del Costa Rica, vibranti di una inesausta vigoria ma anche in ragione di ciò traslate in un metamorfosamento creaturale che affina e  alleggerisce la materia. L’intensa selva diviene infatti, sin nel titolo, leggera creatura.

Ma accanto a ciò deve essere sottolineata una specifica collocazione geografica: un dato oggettivamente rilevante – considerato oggi importante dalla nuova critica dei Cultural Studies – che contemporaneamente si salda con le culture e la lirica della regione (tra parentesi, ricordiamo per Gallitelli il lavoro di traduzione dei versi di Eunice Odio fatto a quattro mani con il suo compagno Tomaso Pieragnolo, anch’egli valido poeta) e forse anche con le culture contigue almeno sul piano linguistico. Così, per estensione in rapporto ai fiumi verdognoli e alle travolgenti piogge di Selva creatura leggera, potrebbe venir fatto di pensare ai “poemas-incendios” di Vicente Huidobro e alla suggestività di una poesia che si propaga in ogni dove, e anche di avanzare riferimenti a una semantica e a una teoria, quella del “Creacionismo”, le cui materie vanno e vengono talquali “vientos contrarios” (così Jaime Quezada nel suo Prologo Altazor, l’esteso poema in sette canti appunto di Huidobro).

Anche in Rosa Gallitelli, l’impetuosità degli eventi si trasfonde auroralmente in scrittura: “ La Selva, millenaria appesa, / al pendolo d’Oceano lungamente; / straripa dita che non so attendere, / quasi foglio un gesto confonde cuna d’un cielo / tardi covato in un ventaglio basso, / albo di un sale buio fino al cavo / frusto di costa in piogge o madre sparsa” (Interludi e diluvi).

In Costa Rica l’autrice, per altro originaria di Pisticci in Lucania, tiene da oltre un ventennio “casa” insieme con Pieragnolo, le cui in tramature metrico-semantiche si ritrovano in questo Selva creatura leggera, sia pure in termini di una scambievole dinamica tra due esperienze e ricerche. Ma, come dicevamo, lo spazio della trasmissione di valenze ed umori e movenze stilistiche, è pur sempre quello della natura. E di là da momenti particellati che si potrebbero ritagliare dall’una all’altra scrittura, dall’un libro (nuovomondo di Tomaso Pieragnolo) all’altro, la “selva” di Rosa Gallitelli ha un suo segno di originalità nel fatto di comparire un punto estremo di indagine e raffigurazione percepite nella loro inusuale particolarità.

La Selva è allora “angelo, / già esautorato dall’interpellanza, / da te svelato e prolungato in suoni prossimi” (siamo alla lirica eponima). Un’essenza oscura e nitiscente. Un grumo di luce che detiene una propria forma, ma anche accensioni e introflesse luminescenze: conchiglia dell’immaginazione e florescenza dell’astratto. Essa è collocata in uno spazio antistante e circostante, ma lo è altrettanto nella lingua e nelle voci locali, in una attesa pronuba della strumentazione concertante gli immaginari poetici (e in fatto la visionarietà della scrittura di Gallitelli si avvale ampiamente delle invenzioni e combinazioni del Modernismo poetico e, per  parte nostra, ci pare rappresentativa anche della imagination matérielle di un Gaston Bachelard).

La Selva è allora una totalità che suppone l’origine e l’apparire, ma insieme le loro articolazioni. Per questo il tessuto scritturale della raccolta sembra innanzitutto aggrovigliato e brumoso, poi si distende in un suo lirismo. Segnato in profondo da un disvolgersi fenomenico fisso in materismo acquoreo e ventoso, dentro lo spazio, geografico e materiale, nel quale si dispongono gli eventi; indi destinato a una permanente condizione di movimento verso un nuovo divenire del processo poetico, attraversato da una perenne tensione.

Qualcosa che sul piano linguistico e espressivo rischia di assumere pendenze alla volta di un registro che potrebbe facilmente codificarsi in un maniera latino-americana (un po’ sulle tracce delle opere sub continentali dei decenni passati), sintonizzandosi comunque su una alquanto palesata modellatura delle frasi come ugualmente dei lemmi (questi ultimi lavorati come si usa con le parole preziose, uniche, semanticamente pesanti). Talché questo stile che dal disordine riconduce alla riconciliazione, a una fusione panica, fornisce un ponte tra una valenza che da un lato richiama l’eternità della natura e dall’altro investe la condizione degli uomini.

Ma finalmente la meccanica espressiva dei versi punta a ricondurre la complessità del dato, del paesaggio, a una forma accostante e interna, in virtù di una peculiare percezione del fenomeno e delle sue sfaccettanti passioni. Un pericolo c’è, ed è soccombere al flusso di parole ed immagini, al cortocircuito dei concetti sottesi così da lasciarsene travolgere, alla acuzie degli accostamenti.

Dunque anche in Gallitelli, al silenzio delle parole che vengono dal silenzio corrispondono parole “con fiebre y vértigo interno”, come peraltro nella citazione appena avanzata da Huidobro; c’è qualcosa di sperimentale e veemente (sperimentale perché irrefrenato, dirompente) che porta a pensare a molti altri autori, dai “tremiti” dell’antesignano Oliverio Girondo sino alla “gana ubérrima” di un Vallejo.

Ma alla fine è la mutatio mentis, cioè a dire la tramutazione di sguardo e mente, che è la trasformazione di tutto in poesia, a fornire gli accenti a qualcosa che a partire da una condizione di disordine tende a restituirsi in hybris. Che è qui, in breve, la parola che traduce in scrittura lo spirito della selva.

 

Da Selva creatura leggera (Passigli 2015)

Biografia delle piogge abnormi

Cerchia o coincidenza di ciechi,
corona di un àmbito agli sgoccioli;
filo un’aria di fondale stempiato
dalla velocità di pesce,
lungo un diurno boreale buio
le esacerbate fronti in lampo cervidi
di erti, pronti vedenti;
e fra quel radicato assenso e il nudo
noi solo due fogli accolti,
attesi giunco dal diluvio,
sentimentalmente scalzi chiamati,
cordone o coro di spuntati verso
l’acqua che sta per rompersi,
rendersi uscio stupendo ai giubilanti,
giunti bambini a dominarsi
muta miriade;
fra doglie da fiorame a vento,
fra giunchiglie in cui crescita udivi
lavabo albo in fondo un sonaglio
ovunque allargato e propenso,
alloggiare l’elenco del fragore
già sfrondato dalle piogge, avvicinarsi.

L’arrivo un virgulto d’amapola*,
soglia abnorme da cui ecco il rovescio,
soglia cui ecco gli accorsi nudi:
foglia informe foggia del piovasco
con palmi e lingue, con scevri piedi,
nel pregno mondo esploso urto liquido,
e come in placenta dispersi;
un’istantanea acquea, monda,
di ricomparsi in plaga o lente della nascita.

Finalmente la grande forma.
Ci investiva il diluvio curvo,
l’odore di stagione cruda,
colmo d’orma e in nari cupo.

Solo infine il fiotto adunato
di un acqueo lento lucente fango
scendeva caldo fra i caimani,
coronava le Iguana di fiumi,
le nuche spoglie sgrondate
quando fra i denti lo squarcio,
quello squarcio avevano ancora,
il denso giglio del diluvio;
come bagnate ammettessero
di aver venerato qualcosa,
forse lo sceso e capace
caldo corpo del cielo riverso,
un suo linguaggio confluito,
mutabile e temuto carne,
fabula o cuore di nube,
di esseri salvi ora in folli acquai, in folli specchi,
in sfondi fluiti mondati.

Così noi, solamente roridi,
accordati agli animali liquidi
da quel diluvio forse idolatrato
come in rituali o biografie;
come solamente di passaggio
anche noi nell’ocra di quell’acqua,
nel butto o affresco di un piovasco smunto
per nascere più vividi usciti
da mesi lunghi, dalle sue lingue,
pettinati e chiusi chiari
nel grande muscolo del cielo
mitilo, schiuso vivo:
cibo in cui scalzo palpiti
illuso dal grande baccello,
dal panico bello nel prelibare
con spavento, con lingua tanta,
l’acqua scorsa e folle e raccolta,
e per cui ora appena sorridi
slattato da quanto in segreto
sei stato foglia, e divelto quasi;
hai inviso o ringraziato l’acqua, la più scesa,
sazio digiuno pazzo nel suo pudore
rotto, di noce alta,
scisso in diluvi al volto.

Solo con l’anno. Solo col limo.

Quanto mistero largo ingenuamente
continente puro.

* Fiore d’ibisco.

 

Selva creatura leggera

Giorni di Giungla, giunco irripetibile,
sfiancati al filo di guado.
E in corridoi di fauna uditi solo,
defluiti lungamente aumentati,
smemoravamo, due spersi
in un’incantagione di ammaliati,
in tutto quel divergere che abbevera
scalzi immutabili sfiorati,
digiuni in dilatata impronta,
stagni purché fosse scomparso
un sangue in noi solo avvertendo
non foci, ma a quell’orma fiumi.

Un passo appena aperto prosciugato,
rado e incredulo in luci e cuna,
cretaceo e vuoto, credo abnorme o
sfondo delle nostre vie minuscole.
Cielo, appagamento, paradiso,
fra la tua pianta d’essere nascosto
e il fogliame animale degli stormi
che hai paura di non contenere:
se gioisci e in uno sguardo
smagano, la Selva è un angelo,
già esautorato dall’interpellanza,
da te svelato e prolungato in suoni prossimi.

Tutti quei branchi che passarono
come un albero folle
con tutta la carne dell’ombra
attraverso la nostra forma,
la carnagione improvvisa
di inavvertiti oscurati:
furono diramata dolcezza,
un dannato arbusto d’altro mondo,
cui a un ramo dalla nostalgia
si usa sorridere
prima della durezza,
se mai si potrà più scompigliati,
smemorati in quel segreto
spazio un celato corso.

Non so con quale voce dire ancora
la Selva creatura leggera,
un barlume, un coraggio sventato via,
un avviso rimasto uccello;
dire di quei nubili venti,
se mai resti un’orma nostra intangibile;
non so quale sepalo avesse,
quale fiore sia volato da noi.

Ma se era la verità al vento,
se te la tolgono rimani
in piedi obnubilato sempre
da un senso di nube e da un lavoro
di luce inutile fra liberati
fogli e stormi caduti,
muto nel dilemma vestito,
con l’animo di nudo che nomina
per sempre aperte le carnagioni
e salterebbe scalzo nella fiamma
di quella Selva nel ricordo,
ora e mai più avvenendo in scarpe,
in eleganze tristi, prive di fiumi.

Brucerebbe nel sempreverde le magre ombre;
e fra due lente linfe dell’alba
nasconderebbe mani e udrebbe i Felini,
ammutolito completamente
da tutto ciò che ode e non vede,
che canta l’animale intoccabile
con una eternità bambina
che non sciupa tempo, varca in un salto,
oltrepassando in croce e in luce scucendo
la nostra rotta commozione giovane,
senza sapere che in quella felce,
in quell’asola di foglie in coscienza,
lasceremo così, su due piedi,
per sempre una cometa d’occhi,
una realtà incendiata e defunta,
la rassegna crudele che altri
attribuiranno al sogno freddo;
non al brano cavato al rimasto
dal centro fresco del seme del giorno,
dall’occhio del coraggio, dal linguaggio chiuso,
dalla passione della macchia di luce
nello schizzo di bestie che si lanciavano
senza colpa, senza sapere
quanta innocenza stava finendo:
scelta fronda ferita meraviglia,
adolescenza capogiro,
che gli uomini ora incenerivano.

Non saprai di quella linea annientata,
di quel vento in preghiere verdi,
del picchetto dell’uomo contro
la scorta d’albe che serbavo;
né del grembiale di smeraldo morto,
della colpa, della tanta paura,
di una Selva calva che non può difendersi,
del canovaccio della speranza
che sbandierai come la non perenne,
ragazza breve; se vidi
venir meno, sempre meno, il disegno
in cui Dio ci aveva fatto piangere,
sorridendo fatti di terra,
mescolati a robusta lacrima,
scompaginati adulti egregiamente,
esatti e inspirati da un guizzo
di Venado* improvviso o Jaguarundi**
che tintinna un attimo e in alto,
quasi sapesse di stagliarsi,
di avere una manciata sonante
di foglie e zampe in paradiso,
un fango in fianco da gettarci
quale soglia rugiadosa della purezza,
una corona da lanciarci nella luce:
giorni di Giungla, giunco irripetibile.
Uomo e bestia di luce e limo.
E la gioia, altitudine crudele.

* Mammifero cervide.
** Piccolo puma nero.

 

Fra madre e secreto del cielo

Il primate alle fronde verso noi;
spinse a sensi di largo,
a riposi in simulate dimore verdi,
ad un verde incedere arenati,
scalzi ciechi nel coro;
e forse ormai distanti fogliami eravamo
e animali o unisono le sparse,
immaginarie piene in ordine obliquo
che solo sul Pacifico apprendi.

Ma un focolaio di cielo fra mammiferi
nasce e sfuma appena ti accosta;
fende in te spazio, beatitudine,
consuma le tue albe anelanti,
ti accondiscende in quell’arborescenza
ormai aderita, suscitata. E ti lascia;
con un portamento della penombra,
di chi ha vissuto solo per serbarlo
alla fine dell’aria abnorme.

Gira un silenzio di focaia grande,
un tono d’inizio in coscienti
che il primate canta concavo albori
sino a fissarsi, abbeverato lungo il suo astro.
E quel tubero in appeso incerto tempo
è la tua stessa più forte memoria,
la tua imprecisa nascita lontana;
poi del comparso allunato,
del transitato solamente,
situato che svapora e svuota
relitto arboreo una sfumata cuna sospesa,
solo resta il detrito o il fondo indaco,
quasi lucciola bevuta da luce
lungo un suo gesto lungo quanto un viaggio,
lento quanto la somiglianza:
arto alla bocca, maschera all’oscuro,
cuoio del nostro più fondato chiaro
primo sguardo destinato all’aria;
e in lanugine un cuore o un volo,
cieco tamburo leggero.

Se ci separarono presto,
costellati recenti dai suoi mondi,
fuochi còlti di fresco, apparizioni,
chiedo in questo ultimo longevo
sfumo logoro esperto in lontananza,
mi chiedo se disseminati
si attende così tanto alto,
che in fronde lontane tenute
uno stipite la Selva apra
e ci avvenga di credere che destini,
che consacri e ricordi non fugace
una pelle anche nostra al di sotto
nel profondo della sua capace pace,
fra il cuoiame celeste delle bestie
e fra i sudati panni degli alberi;
che tra fronda e misura della stanchezza
sia l’opera che infine ci deposita
pegno in riva di luce,
pane sospirato a digiuno
la rosa del primo avvertire
un gengivale grido che ruota
intrico in giri di rami,
abbaglio la creazione dal nulla.
Quasi la testa gira nel celare
quella trama di gioia in cui la Selva
rifletteva attorniando,
aperta mentre porta nomi d’ombra
e alla luce il vagito al sicuro
del primate in cui specchiava l’uomo.

Lo vidi nato fra gli alberi,
appena cosmo raccolto,
fra madre e secreto del cielo
trasalire fra gli alberi perché doveva,
perché tutti iniziammo un sangue arboreo,
perché volevo fosse un giorno ricordato
l’alto rilievo della tenerezza,
chi deteneva in carne vivo il monumento verde,
l’occhio primo della gioia limpida:
quell’iride dove d’istinto
anche tu uomo apriresti un amen, un fogliame,
un punto di partenza o avvento;
è lo stesso, è cantarti a mente
una distanza che ti canta, e ti canta,
un vuoto cui porteresti sempre
fiori che muoiono se manca.

Vidi ora allucinata, ora lucida,
ora chiedo un istante per serrare
stellate carnagioni che non tornano,
mutate e non ancora nominate,
stellate per sfamarsi solo per nutrire,
per difendere, per essere l’equivalenza,
d’accordo con ciò che nascosto
ci univa a vento, dominio, cuore bello.

Ma proprio adesso che ci separano,
che ti strappano dalla Cuna o Foglia
dove lasci il vuoto cui porto
giorni, fiori che muoiono
di paura nella tua paura;
non cambio il fuoco di un ritratto alto,
mansueta con ciò che oscuravi,
che eclissato ti univa adagio
al mio sguardo dal suolo.

Vento, dominio, cuore bello:

è un globo sai, ciondola ancora;
l’arbusto baluardo gentile
ci isola e smuove a specchio nel ricordo,
rivela e infonde un culmine perpetuo
cui adempio ancora, riguardosa,
in ordine per non guardarti,
per non dirti in un incontro che sfuoca
seriamente in un tempo scaduto,
che sono adesso chi non può difenderti,
e che ai piedi del tuo fogliame vuoto
sto lasciando una vertigine ammansita.

 

L’osso del viaggio

L’addio mi occultava. Confusi.
Sul foglio la fuggente pioggia:
un attimo sfocata sempre verso
navigazione in silenti,
astratti per la briciola o la foglia
di cibo migratrice, sospirata,
spaesata in incalliti ieri
serbati ormai ai piedi della Selva.

Se eseguo l’animale separato
da fogliame, da fulgente minoranza,
da tutte le afferrate lingue o strade terree
di stella in un disegno strappato vivo;
se avviarsi fu non aver luogo,
non colmo almeno o a mutamento aperto,
palato o palmo in piogge noci crude,
odore di ossequienti a tuono.

Debole o forte tutto questo
mi ha ribadita bosco nei tuoi abbracci,
mancato arbusto se ci allontanarono
da tutti i Grandi Alberi Angeli
per renderci perpetuamente svolto,
vuoto rigo all’istante,
l’immensa fronda morta e quel digiuno
che al di sotto di quegli Alberi
non valse, non fu ritardare:
smunti i diluvi, la fiera fragile,
un’ora senza più ancia acerba;
né più il battito precoce accordato
nell’avere paura prima di tutto,
di acque e linfe, di fulmini volati,
se era questo sostenere il cielo,
in scoperchiato sito assumere di piogge
la lettera estranea e selvaggia,
polverizzarne il simbolo fondato
fra creature in costa di selva incurvata
che fra rugiada e stelo poi sperdute
sovente rinverdivano, e in luce.

Uomo d’albe, bestie in diluvi,
onde in frutici defunti;
madri piccole con pesci fra foglie,
occhi fiumi del padre bambino;
fievole stella somigliante e a parte,
il nato, la clessidra larga del rivo:
fra aurei e bui gusci dietro il sole
questo nascere uccelli, questo essere vivi,
questo rene al centro dell’astrale; e
paradisiaca alga o astronomia
l’albume Oceano che li attraversava.

Celarono tutti assegnati,
come solo passati all’istante,
all’oscurità di estirpati
che ovunque vadano si sanno
spenti, mai più alloggiati,
né in climi vagellati o in liquide stagioni o lance.

L’acqua ritirava dalle lingue;
vidi allora l’osso del viaggio,
le mie scarpe appartate da anni
come nòcciolo iniziale del discorso,
discinto, con essi tenuto,
taciturno ora in cuore a canoe.

Era stata colpa di tutto,
scheggia in sogno o acqua, vulva di tutto,
quella luce d’ostrica aperta,
l’orezza bionda delle piogge grandi,
la parte amena del rovescio appena còlto,
chiodo fisso in scalzi, onore, palma:
un foglio salvo al cardine di Dio
volato nel buco dello spazio
ritondo e estorto.

Finché mi rigirai in un letto
con l’orma a mente lasciata
dove con loro era nata,
con te, per non essere che se stessa;
e dove il ricordo spacca e celebra
in eque nozze nube ancora
la stella del diluvio potente,
nucleo in indizi o passi, nostri innegabili.

Divampava prima ancora che in memoria
mi toccasse il logo torrido di quell’impronta,
fingevo un lenzuolo di piogge,
un sudario di Foreste storia della nostra vita;
fulminea per calzarla mi alzavo,
esatta passeggera scalza rivivevo tutto:
volevo solo essere la ragazza
che in nuda mano mentre muta in fango il fiume
tiene cereale il pesce fuggevole,
e te lo porta amore nel sentirsi piogge
che le dividono il sorriso
e che dal nulla pare cadano a fenderle
un seno di animale che già visse
di abbagli imprecisi prima che gioia
la pioggia incendiasse i viventi,
rendesse tanto più vicini al suolo,
a rogo o linfe, a anfratto d’universo.

Sparsamente e per questo,
con un nome ancora di creta,
di donna esistita in quel cerchio
ed ora in penombra esperta a crescerlo;
ai piedi del letto e del foglio,
a sangue freddo come in album, come fra loro,
indios verdi ancora bagnati;
sparsamente scordo accostumata
a dirmi un po’ di quella fulgurale,
calda pioggia che ci costrinse
al semicerchio d’alberi, ai diluvi fulvi,
a onde in albo, noi infiammati in sfondo,
come sposi che con loro pregano e non pregano,
che al di là si dicono dentro.

Dove sono le cose di noi?
Ho solo questi occhi d’uccello:
due semi detenuti e cupi in ieri,
in oceanine piogge e foglie che sparirono;
quattro gusci cui vado a dispiacermi
dei desistiti puri uragani angelici,
tue braccia in cui giungo a rincrescermi,
dal buio al buio di una premura isolata,
non tornino nel ritremare
le Selve morte, le depennate,
lontane orme in acquazzoni
cui consegnammo tutta una follia,
il racconto o la ragione invaghita,
l’acino d’uno aperto e cieco
innamorato del finire,
similare a semenza,
nell’uguaglianza d’esseri altri in pioggia
che tanto cala fiume e allega ai vivi
gole della sua floridezza,
la colpa di ogni inizio eccelso,
crudele e destro come Dio, come l’amore,
o il grande occhio animale che ti abbraccia e argina.

La macchia d’addio che ti lascia,
forse la tenerezza in panni identici,
ancora aperti a Selva che non torna
cui desti la tua parola,
tutto il baluardo di scomparso
purché il tuo vuoto, di chi quasi non popola,
fosse un corso per la sua fortezza in nascenze;
e niente di tuo ciò che nasce,
solo visione un attimo inviolabile,
fissazione, molo non a fuoco.
Ma così bello.

Che in fulvidi tutti ora mancanti
quasi è il diluvio un dio portato via.

 

Nata a Pisticci (Matera) nel 1969, Rosa Gallitelli vive dai primi anni Novanta tra Italia (Padova) e Costa Rica, dove ha trascorso lunghi periodi a stretto contatto con le popolazioni native del Guanacaste tra la foresta vergine e l’oceano Pacifico, esperienza cui è dedicato questo libro, cooperando poi nel tempo a progetti di tutela del patrimonio naturale. Dal 2007 ha tradotto con Tomaso Pieragnolo noti poeti ispanoamericani nella rivista  «Sagarana», con particolare attenzione alla ricerca di autori da proporre in anteprima in Italia, confluiti poi negli ebooks Nell’imminenza del giorno (La Recherche, 2013) e Ad ora incerta (La Recherche, 2014), ha curato la prima antologia italiana della grande poetessa costaricana Eunice Odio Come le rose disordinando l’aria (Passigli, 2015),  risultata finalista al Premio Letterario Nazionale Morlupo Città della Poesia 2015 e al Premio Città di Trento “Oltre le mura” 2018, definita da Giuseppe Bellini “un’opera importante di traduzione, resa con encomiabile fedeltà, tale da ricreare il clima dell’originale” (Notiziaro n.65, anno 2015, Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, Università degli Studi di Milano). Con Selva creatura leggera (Passigli, 2015) è stata finalista al Premio Internazionale di Poesia “Città di Marineo”, al Premio Letterario Nazionale Morlupo Città della Poesia, e vincitrice del Premio Minturnae.

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