Corpo striato. Questo il titolo della raccolta di Riccardo Frolloni (uscita quest’anno per i tipi di Industria & Letteratura) e, come mi scrive l’autore in forma privata, esso allude ad una parte del cervello, ad uno dei suoi tre nuclei di base (che sono amigdala, corpo striato, appunto, e claustro) che controlla i movimenti volontari e involontari del nostro corpo.

In questa raccolta, che consta di trentaquattro componimenti, di un apparato fotografico che correda l’opera e di due note finali, infatti, accadono avvenimenti speculari e antitetici: un corpo immobile nella bara, quello del padre («a mio padre morto», dice una dedica concreta e forte) e il corpo di Nilla, malata di Parkinson, che, invece, non ha più la possibilità di fermarsi.

La raccolta è di nostro interesse per due motivi, sia per la riflessione sul corpo, sia per l’attenzione che dedica alle esperienze sensoriali.

movimenti VI

[…]

Il lampo della malattia mi seguiva nei discorsi, nel temporeggiare
l’oscenità dell’assenza. Molto tempo dopo mi ricordai di Auster
e l’invenzione della solitudine, della donna malata di parkinson
e il desiderio di rivedere un padre che muore – ricordai parole definitive.

Un uomo malato è tutto corpo
e morendo neanche questo, forse
a fare un corpo ci vuole tutta la terra.

 

La malattia, come vediamo, è un’esperienza determinante, l’unica che permette all’uomo di essere solo corpo, di annientare la parte pneumatica, immateriale, fatta di vento, il soffio, la psyché. Il padre «se lo prende il vento», dice Frolloni. La malattia rende soli, inventa la solitudine, coinvolge chi d’improvviso smette di muoversi e chi, invece, malato di Parkinson, non può più smettere, traballa, tremola, vacilla. Esiti paradossali, bifronti e contrari. Sempre nefasti. La malattia causa, come mi scrive Frolloni, uno shock, che significa perdita delle impalcature, letterarie di certo, ma soprattutto esistenziali.

L’altro elemento che è di nostro interesse è il rapporto con ciò che Frolloni chiama «verità» sensoriali. Mi scrive: «se parliamo di movimento, parliamo anche di ambiente e paesaggio e il rapporto con questo. Nello spostamento si attivano i sensi, è il corpo che si attiva in tutte le sue funzioni sensoriali. Lo stesso avviene nei sogni, che sono un ulteriore (o inferiore?) livello di “realtà” (…). Per poter descrivere/esprimere in poesia i materiali e i movimenti, onirici e non, devo tenere conto di tutte le verità sensoriali». Frolloni attiva tutti i sensi nelle sue composizioni: vista, tatto, udito, odorato, gusto. E ciò vale anche e soprattutto in compagini edulcorate di realtà, nel suo sub- o super-realismo. Cioè nel sogno. Le percezioni si fanno nitide perché si mischiano a ricordi, all’«ambra della memoria», per usare la sua espressione di miele, a ciò che è stato già vissuto, respirato, visto, sentito in momenti ben precisi e che viene rievocato, invocato. Queste esperienze provate e poi ricreate nel sogno, che quindi si sovrappongono alla oneiro-poiesi, se possiamo definirla così, la capacità creativa che ognuno di noi nel sogno conserva, si riconvertono in un ritorno aspro e in-dolente alla realtà, ed è uno spiffero di vento, un «ronzio di falene», «un torcersi di lenzuola», un rendersi conto che la parentesi onirica si sta sfaldando, si disgrega, si sfrangia:

 

sogni III

 

Subito il rumore, la frattura dei rami, delle spine, l’erba che ci schiaccia, quel
Soffocarsi o colpo al cuore perché per primo giunge, poi senti le gambe, jeans e
[giubbotto
che sfrega e le sterpaglie che si arpionano dappertutto, ed eccole le mani,
l’accendino in tasca, sono nel bosco, è notte, ma la luna ti fa vedere bene
o non vedere niente, e il freddo di casa, la voce della sibilla da ogni tana o volo
di pipistrello, sono svegli e fanno tutto il cielo, io cammino

almanaccando qualcosa, pensieri vasti ma più spesso
parole a vanvera di chi sogna o è in preda all’ansia, ma anche semplicemente corre
su foglie secche a scaldare i piedi, le ascelle strette a farsi piccolo, ricordo bene quei
[sentieri
ci portavano in posti dove serpenti o pneumatici, rifiuti vari apparivano, ma noi
eravamo lì solo per passeggiare, per fare un po’ di moto e respirare l’aria buona,
mai li avevo percorsi di notte, mai da solo, non mi spiegavo di che correvo, di quale
[freddo
soffrivo, più facile capire che non sarebbe finito
che il bosco non è un bosco ma
un torcersi di lenzuola, e il bianco della luna quando poi parli della vita o solo.

 

Prima di chiudere vorrei citare un estratto dalla prefazione di Stefano Colangelo, che – al di là dei nostri interessi fenomenologici – sembra riassumere in maniera perfetta il tentativo di Riccardo Frolloni:

«L’ultima parola che il lettore incontrerà nella nota di chiusura di questo libro, prima di chiuderlo e di rimeditarlo come si deve è “crisma”. Una parola che posso legare facilmente a Riccardo Frolloni, perché l’ho letta per la prima volta nel titolo della sua tesi di laurea, dedicata a Magma di Mario Luzi: La parola come crisma. Una parola che avevo sempre sentito lontana, come un tema separatamente enunciato, come in una bolla sottratta alla traiettoria materiale del mio tempo. Una parola che qui sembra riassumere, invece, due idee di fondo: prima, l’idea dell’olio profumato, dell’unguento, del balsamo di cura, conservato in un vetro fragilissimo di fronte alla violenza di un mondo di fango. Poi anche l’idea dell’unzione, del gesto ultimativo, del viatico: tu, ora che hai intrapreso quel viaggio che ti stacca definitivamente da noi, ti ricongiungi a quella tua strana prossimità irraggiungibile, che nessuno avrebbe potuto intuire in te vivo; e così ritorni – prima di tanti di noi, e molto prima del tempo che ci aspettavamo – nel posto da dove non sei mai veramente partito. E noi restiamo a desiderare, come scrisse Philip Larkin in un verso per suo padre, “il dono del tuo coraggio e della tua indifferenza”. Queste poesie, che adesso separano ancora il lettore da quell’ultima parola, e che tra poco lo condurranno a quel punto, sono il percorso che perde più volte – e poi riconquista – una direzione, un orientamento, come in una camminata fatta senza coordinate, per istinto, nell’inganno feroce della sua storia.»

 

da corpo striato:

 

sogni I

 

Era lungo la scarpata e i massi e la merda delle vacche
e procedeva bene, a passo svelto, diritto di schiena, nell’aria
leggera della montagna, ognuno attento ai propri piedi
col sudore sotto la camicia e il fiatone, il mal di gola,
nel sonno devo aver perduto la coperta, slabbrato il pigiama
o dimenticato una finestra aperta, così uno spiffero,
un rumore dal fondo delle campagne si intrufola,
diventa subito un fischio, mio padre già in cima
del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro
e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto
sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi
un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,
lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole
o dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco con la pelle
fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati.

 

*

 

movimenti III

 

Quando riaprimmo il negozio era ancora tutto lì,
nessuno aveva consegnato i pantaloni accorciati, il vestito col tulle –

per mesi da dietro il magazzino
rumori di camicie scartate, la scala di alluminio che si sposta da sola –

mia madre prima di entrare mi dice mi tremano le gambe
la sento appoggiarsi a fare le poche scale, tutta bianca nell’estate.

Subito ci furono giorni di cose da fare, banche, assicurazioni,
e non una parola
come una spinta da dietro, da sotto le ascelle
ti porta, ti fa imparare alcune formule sempre buone:
esserci,
col fantasma che si aggira ovunque.

Tolto l’antifurto e accese le luci, tutto era ciò che era,
il negozio di una vita, gli dicevano
ci morirai qui dentro e invece no
è morto a casa, in bagno, mentre si lavava i denti

e non una parola

 

*

 

materiali V

 

Vendevano elettrodomestici, batterie, lui
lo chiamavano Brionvega, perché vendeva quei prodotti

chiusero i battenti quando Nilla s’è ammalata,
non si fanno più vedere in giro, lei dorme
col pannolino, non lo dice, il parkinson

in confidenza, da donna a donna, parla
della testa, di una ferita al corpo striato, lo dice
come una vergogna, al corpo striato,
la notte
non riesce a trattenersi, si muove
il movimento
che solo la morte può zittire.

 

*

 

sogni V

 

Un giorno ti porterò quassù dove si vede
un panorama bellissimo, le vallate tra i monti

ci affacceremo all’alba con la quasi luce
sarà come vedere un film lentissimo e farà freddo,

è qua che voglio essere seppellito,
ricordo da piccolo

una quercia carbonizzata da un fulmine, rimase lì per anni
e ancora nell’ambra della memoria,

sarà così questa morte, mi prenderà alle spalle
sarà una morte normale,

questa mattina
non deve mai iniziare, parlami di te un po’

la volpe s’è appena addormentata, la notte è stata lunga

il cimitero non ha spazi, puoi leggere tutti i nomi

torniamo a dormire che è ancora presto
torniamo a letto.

 

 

 

Riccardo Frolloni nasce nel ’93 a Macerata. Ha pubblicato la plaquette Languide istantanee Polaroid (Affinità elettive 2014). Ha tradotto Sul non perdere le ceneri di mio padre, di Richard Harrison (‘roundmidnight edizioni 2018) e Non praticare il cannibalismo, antologia dell’opera di Ron Padgett (Del Vecchio Editore 2021). È stato direttore del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna e ha lavorato per la School of Continuing Studies dell’Università di Toronto come lettore e assistente. Insegna italiano e latino nei licei. Corpo striato è il suo ultimo libro (Industria & Letteratura 2021)

 

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