Ogni libro di traduzioni è innanzitutto una storia di fantasmi, scrivi, principiando la bella prefazione con cui Il Saggiatore apre la ripubblicazione de Il musicante di Saint-Merry, libro di traduzioni di Vittorio Sereni, pubblicato per la prima volta nel 1981 per Einaudi. Perché?

Sereni ha disseminato la sua opera di apparizioni, incontri, oblique presenze: la sua è una poesia sempre in colloquio con ciò che sfuma, ciò che è al bordo, esposto ad un limite. È un poeta sempre attento all’alone di potenzialità di ciò che accade. Sono moltissimi gli esempi. Alla fine della prosa Ventisei, Sereni ha scritto: «La realtà che ci appassiona nasce sempre lateralmente, obliqua alle realtà in cui ci imbattiamo, riflesso del glicine, miraggio delle saline, conservatore di rovine che sia». Anche per questa sua peculiare qualità, Sereni è stato un grandissimo traduttore. L’incontro con il testo in un’altra lingua per Sereni è sempre un’occasione per lavorare proprio con quei margini di sviluppo di un testo poetico: ha sempre mostrato un’idea dinamica della scrittura, pronta a rilevarne appunto i riflessi, i miraggi, le rovine. La traduzione non è per lui solo uno strumento per indagare questo potenziale, ma quasi anzi per manifestarlo al massimo grado. Ecco allora perché i “fantasmi”: tradurre per Sereni è da un lato stare addosso al testo, alla sua letteralità, ma contemporaneamente viverlo con una libertà che ne fa vivere una virtualità costante. La traduzione per lui è stata una forma di ascolto di quelle «toppe d’inesistenza», di cui scrive al termine de La spiaggia.

 

I testi selezionati da Sereni sono soprattutto di Char, Williams, Apollinaire, ma ci sono anche Pound, Frénaud, Camus e Bandini, senza dimenticare l’estratto – bellissimo – dalla traduzione dell’Illusione teatrale di Corneille. Tu hai dedicato molta parte dei tuoi studi alla poesia di Vittorio Sereni e a quella di Williams, su cui torneremo fra breve, come hai affrontato la contingenza di raccontare il Sereni traduttore e traduttore anche di Williams?

Sereni ha composto un vero e proprio libro con il suo Musicante, non un semplice quaderno di traduzione. Ha selezionato e disposto solo una parte delle poesie che aveva tradotto. Ha come voluto tracciare un cammino che è stata anche un’occasione per scrivere la propria storia di poeta, anzi, forse (ed è questa una tesi della mia prefazione), del poeta che sarebbe voluto essere. La frase di Mengaldo («Sereni traduttore non è, semplicemente, Sereni che si riesprime attraverso le sue versioni, ma è insieme se stesso e un altro e diverso poeta» ) va presa alla lettera. Sereni nella traduzione vive concretamente una seconda chance: da qui il peso che hanno le traduzioni da Char ma anche – diciamo – “l’anomalia” dell’inserimento di Corneille e di Bandini. Questi due ultimi autori hanno una funzione davvero centrale negli snodi del libro, più di quanto si è scritto fino ad ora. E in questo percorso il ruolo di Williams è molto importante. Per Sereni, come hanno già indicato Mengaldo e Fortini, Williams rappresenta il punto mediano fra l’erto sublime di Char e il melodico vitalismo di Apollinaire: la fedeltà alle cose, al piano terreno, al fenomeno. Nel motto ripetuto ovunque nelle poesie di Williams («No ideas but in things») Sereni si poteva riconoscere in pieno. Non è un caso poi che fra tutte le poesie di Williams Sereni abbia scelto proprio una poesia ispirata alla vita travagliata della nonna del poeta americano, la straordinaria Dedica per un pezzo di terra. Il finale di questa poesia è indimenticabile, batte batte nella mia testa da quando lo lessi nei miei vent’anni: «se non avete da portare qui/ che la vostra carcassa,/ statevene via». E così che ho incontrato Williams. Le poche poesie che Sereni aveva tradotto nel Musicante sono talmente potenti che ne ho subito cercato altre: mi sono stupito che non tutto fosse tradotto in Italia e che anzi fosse, rispetto ai suoi conterranei Pound e Eliot, sentito meno centrale. Allora ho semplicemente acquistato l’opera in due volumi dalla mitica casa editrice di New York New Directions. Dalle traduzioni di Sereni a quelle della Campo, da queste infine al testo inglese di Williams: ed è così, che mi sono imbattuto nel libro La primavera e tutto il resto.

 

È di prossima uscita, come si accennava, la tua traduzione, per i tipi di Effige Editore, di Spring and all (La primavera e tutto il resto), un prosimetro uscito nel 1923 e che potremo leggere per la prima volta in italiano. Tu, parlando del testo, lo descrivi come scritto senza fiato: come correndo, verso una destinazione sconosciuta. Ce ne parli?

È un libro a cui devo moltissimo. È stato per me una folgorazione. La primavera e tutto il resto è un prosimetro che alterna poesie a prose saggistiche, diaristiche, narrative. È un libro indescrivibile, imprendibile: scritto con una libertà di spirito, una freschezza d’animo che mi ha lasciato senza parole. Negli anni in cui lo incontrai, più o meno mentre scrivevo e pubblicavo il mio libro Tua e di tutti, ero alla ricerca di una forma poetica che potesse “stare” nel mio tempo, incorporarlo, senza decadere all’istante. Avevo un’idea di libro di poesia insomma come oggetto solido, tridimensionale, tetragono: un po’ funereo forse. Il libro di Williams invece mi mostrava una via diversa, che in Italia credo abbia avuto pochissimi maestri, almeno nel primo Novecento. È un libro scritto che non vuole nascondere l’abbondanza e la ricchezza della propria sorgente: non ha paura di mostrare il materiale del suo lavoro, di nasconderlo dietro un’opera chiusa e perfetta, polita e rassicurante. In questo senso Williams, per dirla con lo Char di Sereni, «appartiene alla specie degli esseri sempre in anticipo sui propri escrementi». Ci mostra il suo laboratorio e al contempo fa del suo laboratorio un libro.

 

Nel giro di una manciata di anni, dall’83 all’88 del diciannovesimo secolo, nascono Williams, Pound ed Eliot, la trimurti della poesia americana del ‘900. Williams è amico di Pound, è in silenziosa ma costante competizione con Eliot, eppure possiamo forse reputarlo il più americano dei tre. Williams nasce in New Jersey e qui muore, racconta il jazz e le réclame del capitalismo americano, prova ad adottare quei ritmi nella sua poesia, è lontano anni luce dalle seduzioni europee dei due compagni di generazione. Questo stesso testo ha una storia strana, esce a un anno di distanza dal più fortunato Waste Land, di Eliot, e per molti versi ne rappresenta, concettualmente e stilisticamente il contraltare, il controcanto. Insomma, facciamo chiarezza: quale ruolo ha William Carlos Williams?

Allora ricapitoliamo: siamo nel 1923, Williams aveva 40 anni, dunque qualche anno più di me oggi. La guerra era appena finita. Era tornato a vivere nella cittadina popolare di Rutherford (nel New Jersey), dove svolgeva con grande impegno e energia il lavoro di pediatra. Quelli furono anni assai prolifici per la sua scrittura: molti libri di poesie, uno di prose poetiche (Kora all’Inferno, tradotto in italiano per Guanda in una mitica edizione del 1971 da Luigi Ballerini) e il suo primo romanzo, Il grande romanzo americano (pubblicato nel 1995 in Italia per Marsilio). Al contrario del suo grande amico Ezra Pound, che aveva conosciuto ai tempi dell’università e che era in Europa dagli anni dieci, Williams aveva deciso di restare in America. E non era solo una scelta di vita, la sua, ma una scelta di poetica: aveva deciso di lavorare sulla lingua americana e la sua identità culturale, lui che era di sangue mezzo olandese (la madre) e mezzo portoricano (il padre). L’anno prima era stato pubblicato in Europa uno di quei libri che hanno fatto un’epoca. Nella sua autobiografia del ’51, Williams scrive che quelli erano gli anni prima di quella «grande catastrofe per la nostra letteratura – l’apparizione di The Waste Land di Eliot». La primavera e tutto il resto è la risposta, da poeta a poeta, a quel capolavoro i cui presupposti per Williams non erano accettabili: da anni, lui e gli imagisti lavoravano su di una lingua delle percezioni, radicale quanto popolare, mentre il geniale poema di Eliot riportava la poesia «back to the academics», come si esprime Williams. Fu un colpo, perché sentiva in quel giro d’anni che la poesia stesse maturando una svolta, che si era prossimi ad una nuova forma d’arte che invece la scelta “erudita“ di Eliot avrebbe potuto bloccare del tutto. E allora cosa fare? Al di là del giudizio storico, quando incontrai questo testo mi colpì tantissimo la possibilità che Williams si diede di rispondere all’opera di Eliot con un’opera altrettanto potente, provocatoria: il dialogo fra poeti avviene sempre a partire dalle opere e soprattutto attraverso le opere. Questo è un aspetto che Sereni pure conosceva benissimo: le sue traduzioni sono anche saggi critici sugli autori tradotti (si pensi a come ha tradotto in versi le prose di Char!).

 

Torniamo a Sereni: Mengaldo diceva che la sua poesia non ha nulla di intimidatorio, che le è del tutto estraneo il gesto di chi esclude i profani dal tempio, eppure, ribaltando completamente il principio di “semplicità” sereniana, ecco Stella variabile, che forse qualcuno esclude, sicuramente i censori, i cultori del verso della tradizione e i loro riformulatori (per come l’Italia di quegli anni lo vedeva, il verso, dal centro, da destra e, soprattutto, da sinistra). Concordi con Mengaldo?

Beh, il Musicante esce nell’autunno del 1981, Stella variabile nel dicembre dello stesso anno. Sono due libri gemelli, quasi simultanei, eppure diversissimi. Sicuramente Stella variabile è stato un libro non dico scomodo, ma difficile da inquadrare, maturato come ha scritto Mengaldo dentro una «sorda irritazione» verso la forma Canzoniere. Si apre con un’intuizione di morte, con la poesia Quei tuoi pensieri di calamità: un trasloco, segno di rinnovamento, di rinascita, invece è interpretato da Sereni come l’approdo all’ultima casa. La via, non dico ottimistica, ma costruttiva che aveva aperto con Gli strumenti umani sembra alle spalle. Adesso Sereni scrive «nuove ombre mi inquietano che intravedendo non vedo» (Lavori in corso). La realtà diventa una «grama preda dello scriba». Non dimentichiamoci che quel capolavoro che è Un posto di vacanza si chiude proprio su di un addio: «tu davvero dimenticami, non lusingarmi più». E poi quelle traduzioni da Char e riferimenti a Rimbaud… insomma, tutto un corollario che non piaceva di certo ai tanti piccoli Fortini di cui era disseminata la poesia italiana e che vedevano in questi riferimenti una regressione del poeta di Luino, verso quella che proprio Fortini aveva chiamato “linea metafisica”. E invece Sereni era un passo avanti a tutti gli altri, come sempre. Stava aprendo alla poesia degli anni ’80, così diversa per riferimenti e stilemi da quella combattiva e politecnica del decennio precedente. Pensa che sempre nel 1981 esce Il viaggio inaudito di Alessandro Ceni, nel 1983 Millimetri di Milo De Angelis…

 

Te lo chiedevo proprio per questo, nella tua bellissima intuizione del Musicante come “un vero e proprio libro di poesia” proponi il testo dell’81 come una sorta di “controcanto” di Stella variabile, dall’ossessione di Sereni per l’anticanzoniere ecco lì, pronto, un canzoniere perfetto. Ne segue il disegno di un Giano, di un autore bifronte, o ancora, una sorta di Über-Poet. Un autore destinato per questa sua condizione di trascendenza: dalla prosa al verso, alle traduzioni, insomma: Il luogo / comune e il suo rovescio. Un uomo, si direbbe, non proprio così accomodante.

Sì, troppo spesso Sereni è accostato ad un’idea stereotipa: bravo e buon poeta lombardo, un poeta attento alle “cose”. La realtà è invece che quando penso ad un autore sperimentale, a me viene subito alle labbra il suo nome: proprio perché ha un’idea della poesia come fatto “organico”, anti ideologico, la sua è una scrittura sempre disposta alla trasformazione, alla mutazione, ad incorporare materiale e suggestioni da altre vie. L’esperienza è la sua guida, ma l’esperienza è l’imprevedibile per eccellenza, così dunque la sua poesia, la cui forma non è mai data in astratto a priori. Sereni nel saggio Esperienza della poesia ha scritto: «Se l’idea di poesia che ogni poeta porta con sé fosse raffigurabile in uno specchio, noi vedremmo quello specchio assumere di volta in volta tutti i colori possibili, riflettere non un’immagine ma una battaglia di immagini.» Sua è l’idea per me ancora validissima di una “poesia in relazione” e, come tale, sempre aperta e dialettica e quindi pronta anche al rovescio del luogo comune. Secondo me – è la tesi della mia prefazione – il carattere più sperimentale della sua scrittura emerge con forza proprio se si prende Il musicante come un libro d’autore, insomma se lo si prende sul serio: e qui si vede che Sereni ha un’idea della poesia come magia e incanto, che lo spinge al di là di quanto pur aveva scritto col suo Stella variabile. Non è un caso che una delle ultime poesie ad essere tradotte e inserite nel volume sia stata proprio quella di Apollinaire che dà il titolo al volume: il protagonista è un flautista, la cui musica rapisce un corteo di passanti e li trascina verso la loro misteriosa scomparsa dentro una casa disabitata; queste anime, prima della soglia, abbandonano tutto, «senza rimpianto per le cose lasciate/ le cose abbandonate/ senza rimpiangere il giorno la vita e la memoria». La traduzione è insomma uno strumento per aprire la propria vita a vite che non si sono mai vissute. Non è forse proprio questo però il senso profondo della poesia?

 

da La primavera e tutto il resto (Effige Editore 2020) di William Carlos Williams

 

Infine, la PRIMAVERA si sta avvicinando

È primavera. Cioè, si sta avvicinando L’INIZIO.

In questo vasto e microscopico sbando del tempo, come se fosse un cavallo, selvaggio in una pampa indelimitabile sotto le stelle, che descrive immensi e microscopici circoli con i suoi zoccoli sulle solide zolle, correndo senza sosta per la milionesima parte di un secondo finché è diventato vecchio, consumato, ridotto ad un ammasso di pelle ossa e stracciati zoccoli – in questo maestosa progressione della vita, che dà l’esatta impressione del fregio di Fidia, i cui uomini e le cui bestie, sebbene sembrino rigidi come marmo, non lo sono e si muovono con velocità accecante mentre noi non abbiamo il tempo per comprenderlo, poiché avanzano le loro zampe una milionesima parte di un centimetro ogni cinquantamila anni – in questa progressione della vita che sembra l’immobilità stessa nella massa dei movimenti – infine, la PRIMAVERA si sta avvicinando.

In quella colossale impennato verso il finito e il capace, la vita è adesso giunta, per la seconda volta, all’esatto momento in cui nelle età passate avvenne la distruzione delle specie dell’homo sapiens.

Adesso, infine, quel processo di miracolosa verosimiglianza, quella grande trascrizione che l’evoluzione ha seguito, ripetendo mossa dopo mossa ogni mossa che ha compiuto nel passato – ha raggiunto la fine.

Improvvisamente, è alla fine. IL MONDO È NUOVO.

 

I

Sulla strada verso l’ospedale del contagio
sotto l’impennata delle blu
chiazzate nuvole, alla deriva trascinate dal
nordest – un freddo vento. Al di là, lo
spreco di vasti, fangosi terreni
marroni di erba secca, stagnanti e cadute

pezze d’acqua stagnante
uno spargimento di alti alberi

lungo tutta la strada, la rossastra
violacea, biforcuta, retta e sterposa
cianfrusaglia di cespugli e alberelli
con le morte, scure foglie sotto di loro
viti senza foglie –

All’apparenza senza vita, la fiacca
la stupefatta primavera si approssima –

Entrano nel nuovo mondo nudi
freddi, incerti di tutto
tranne che del loro entrare. Tutto intorno a loro
un vento freddo e familiare –

Adesso l’erba, domani
il rigido ricciolo della foglia di carota selvatica

uno dopo l’altro, gli oggetti si definiscono –
Accelera: chiarità e contorno di foglia

ma adesso la brulla dignità
di ogni entrare – Immobili, un profondo mutamento
è giunto in loro: radicati, s’aggrappano
giù, alla terra e cominciano
a risvegliarsi.

 

It is spring. That is to say, it. is approaching THE BEGINNING.

In that huge and microscopic career of time, as it were a wild horse racing in an illimitable pampa
under the stars, describing immense and microscopic circles with his hoofs on the solid turf, running without a stop for the millionth part of a second until lie is aged and worn to a heap of skin, bones and ragged hoofs — In that majestic progress of life, that gives the exact impression of Phidias’ frizze, the men and beasts of which, though they seem of the rigidity of marble are not so but move, with blinding rapidity, though we do not have the time to notice it, their legs advancing a millionth part of an inch even,- fifty thousand years — In that progress of life which seems stillness itself in the mass of its movements — at last SPRING is approaching.

In that colossal surge toward the finite and the capable life has now arrived for the second lime at that exact moment when in the ages past the destruction of the species Homo sapiens occured.

Now at last that process of miraculous verisimilitude, that grate copying which evolution has followed, repeating move for move every move that it made in the past — is approaching the end.

Suddenly it is at an end. THE WORLD IS NEW.

 

I

By the road to the contagious hospital
under the surge of the blue
mottled clouds driven from the
northeast — a cold wind. Beyond, the
waste of broad, muddy fields
brown with dried weeds, standing and fallen

patches of standing water
the scattering of tall trees

All along the road the reddish
purplish, forked, upstanding, twiggy
stuff of bushes and small trees
with dead, brown leaves under them
leafless vines —

Lifeless in appearance, sluggish
dazed spring approaches —

They enter the new world naked,
cold, uncertain of all
save that they enter. All about them
the cold, familiar wind —

Now the grass, tomorrow
the stiff curl of wildcarrot leaf

One by one objects are defined —
It quickens : clarity, outline of leaf

But now the stark dignity of
entrance — Still, the profound change
has come upon then : rooted they
grip down and begin to awaken

 

da Il Musicante di Saint-Mary (Il Saggiatore 2019) di Vittorio Sereni

 

Dedica per un pezzo di terra

Questo pezzo di terra che fronteggia
le acque di questa baia
è dedicato alla viva presenza di Emily Dickinson Wellcome:
nacque in Inghilterra, si sposò,
perse il marito
e salpò per New York su un due-alberi
con il figlio cinquenne; fu sospinta
alle Azzorre; andò in deriva
sulle secche dell’Isola del Fuoco
conobbe il secondo marito
in una pensione di Brooklyn,
fu a Portorico con lui,
diede altri tre figli alla luce,
perse il secondo marito, stentò
per otto anni la vita a St. Thomas
a Portorico a San Domingo,
seguì il figlio maggiore a New York,
perse la figlia, la sua
piccina, prese con sé i due ragazzi
del suo maggiore di seconde nozze,
fece loro da madre
– che non avevano madre –, per loro
lottò contro l’altra nonna e le zie
e qui li portò per estati ed estati,
qui si difese da ladri
sole fuoco uragani,
da mosche da ragazze che là intorno
ronzavano, da siccità
mareggiate gramigne vicini,
da donnole rubagalline,
dalle sue mani che indebolivano,
dalla forza crescente dei ragazzi,
da vento da pietre da intrusi
da affitti, dal suo stesso cuore.

Questa terra dissodò con le sue mani,
signoreggiò su questa zolla d’erba,
a furia indusse a comprarla il suo più grande,
visse qui quindici anni,
pervenne a una finale solitudine e

se non avete da portare qui
che la vostra carcassa,
statevene via.

 

Dedication for a Plot of Ground

This plot of ground
facing the waters of this inlet
is dedicated to the living presence of
Emily Dickinson Wellcome
who was born in England; married;
lost her husband and with
her five year old son
sailed for New York in a two-master;
was driven to the Azores;
ran adrift on Fire Island shoal,
met her second husband
in a Brooklyn boarding house,
went with him to Puerto Rico
bore three more children, lost
her second husband, lived hard
for eight years in St. Thomas,
Puerto Rico, San Domingo, followed
the oldest son to New York,
lost her daughter, lost her “baby,”
seized the two boys of
the oldest son by the second marriage
mothered them—they being
motherless—fought for them
against the other grandmother
and the aunts, brought them here
summer after summer, defended
herself here against thieves,
storms, sun, fire,
against flies, against girls
that came smelling about, against
drought, against weeds, storm-tides,
neighbors, weasels that stole her chickens,
against the weakness of her own hands,
against the growing strength of
the boys, against wind, against
the stones, against trespassers,
against rents, against her own mind.

She grubbed this earth with her own hands,
domineered over this grass plot,
blackguarded her oldest son
into buying it, lived here fifteen years,
attained a final loneliness and—

If you can bring nothing to this place
but your carcass, keep out.

 

Tommaso Di Dio (1982), vive e lavora a Milano. È autore della raccolta di poesie Favole, Transeuropa, 2009, con la prefazione di Mario Benedetti. È giurato, per la sezione under 40, del premio letterario Premio Castello di Villalta Poesia. Nel 2014 ha pubblicato il saggio Omologia e totalità, Un percorso sulla nozione di differenza tra la biologia e l’arte di Barnett Newman nella raccola Prospettive della differenza, Lubrina editore, a cura di Carlo Sini, insieme al quale, dal 2015, è membro del comitato scientifico della laboratorio di filosofia e cultura Mechrì (www.mechri.it). Nel 2014, esce il suo libro di poesie Tua e di tutti, Lietocolle, in collaborazione con Pordenonelegge, tradotto in francese da Joëlle Gardes per Recours au poème éditeurs. Nel 2015 pubblica la plaquette Per il lavoro del principio, nata all’interno del progetto Le parole necessarie, in collaborazione con Il Centro di Poesia Contemporanea di Bologna e l’Ospedale Sant’Orsola. Nel 2017 è stata pubblicata in tiratura limitata la plaquette Alla fine delle favole, Origini edizioni, Livorno. Nello stesso anno, pubblica il saggio Nel labirinto del ritorno. La parola poetica e il ritmo, nella rivista «Il Pensiero», a cura di Massimo Donà. Nel 2018 è tra i fondatori della progetto di poesia e arte Ultima, per cui ha pubblicato la breve raccolta World Wide Whatsapp crash (www.ultimaspazio.com). Per Effigie, nel 2020, esce la sua traduzione de La primavera e tutto il resto del poeta americano W.C. Williams. Verso le stelle glaciali (Interlinea 2020) è il suo ultimo libro di poesie.

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