Frammento dall’inedito Alieni, prosa poetica dalla raccolta Gli eroi sono partiti, in uscita per Passigli Editori a inizio 2021.
La Casa
Sono mancata poco, minuti, lustri, la Casa è sempre uguale, uguale lo sferragliare dell’uscio prima di chiudersi col suo suono secco, familiare, dietro le spalle. Uguale il rintocco frigido dell’orologio a muro, a dire un tempo che si protrae, e non vorrei aderire, ma uscire, fuori, di nuovo, gettarmi in un altrove, scovare un segno, imprevisto, impensato, coglierne il messaggio di salvezza. Eppure devo stare, restare, ci sono i mobili uguali da spolverare, la tavola uguale ancora apparecchiata per due, le briciole di pane nero da minuti, lustri, farle sparire. Ci sono i chiodi da aggiungere alle assi, una ventina almeno, un lavoro da perfezionare, che sia ermetica la chiusura, impenetrabile, sia per sempre chiuso l’affaccio, quella vista, i girasoli oltre, appassiti, ora, a testa in giù. Ci sono i mobili da spostare, mutare lo spazio, il primo passo per cambiare.
Tue tutte le tracce da inghiottire: lo spazzolino rosso inespugnabile nel bicchiere, i sassi colti sull’isola, le tartarughe, gli indumenti ancora umidi appesi, il profumo acre sulla federa del cuscino, i peli dei gatti ovunque, i tuoi gatti, sul tappeto, la poltrona, il copri-letto. Tue le maschere alle pareti, cavalli, conigli, tori, talpe. Tuoi i silenzi dietro le tende, fantasmatici diluiti tra le loro pieghe, negli angoli tra le credenze, dentro le tazze dei nostri viaggi. Mie le lacrime, tue le lacrime, infiltrate tra le mattonelle della cucina, nelle tubature del bagno, tra le radici della terra che sorregge la Casa. Faranno crescere nuovi girasoli, forse, la fresia, il caprifoglio. Si infiltreranno più a fondo, fino al cuore della terra. E lì abiteranno, amalgamate infine, lì pulseranno le nostre lacrime regolari eterne, ammortizzate dagli strati del tempo che si protrae, da adesso, si conglomera, pesa. Amalgamate infine.
La maschera da coniglio mi fissa, gli occhi bucati, il naso troppo rosa. La guardo, mi scruta più a fondo, la scruto più a fondo, mi rimprovera, gli occhi vuoti, fori senz’anima. Mi scrutano i sassi ordinati in fila sulla mensola della libreria, piangono, si rivoltano, mi parlano senza accennare a una consolazione. Non consola il tempo, i minuti, i lustri che ci separano, non consola la nuova disposizione dei mobili, la nuova federa, la nuova serratura, i cento chiodi infissi nelle assi della finestra sul campo di girasoli. Non consola sapere il tuo spazzolino diretto dentro un sacco nero verso lontane discariche, remote, in mezzo ai rifiuti di una vita spesa ad arginare. Non consolano il tè verde con cui annego la pianta carnivora che mi cresce dentro, le facce in cui mi imbatto perdendomi tra i vicoli del Villaggio, sculture di cera troppo facili a sciogliersi, speroni provvisori. Scivola la presa, scivolo presto nell’indistinto nulla e non consola. Non consola il nulla.
Il Villaggio
Guardarsi dall’esterno per esempio, mentre si è inconsistenti, confezioni di carta, plasmarsi nello schema fisso dei movimenti, prestabiliti – alzarsi dal letto, per esempio, guardarsi mischiati incolori alla camera ancora imbevuta di notte mentre fuori è già giorno, troppo presto giorno, accorgersi delle persiane appena rigate dal primo sole, piantare i piedi sul pavimento gelato, inospitale, costringersi a una posa del corpo, una direzione, vacillare in cerca di una prima direzione, quindi recarsi in bagno, con le mani a conchiglia raccogliere acqua tiepida dal lavandino, sentirne il tepore estraneo sui palmi, volerlo trattenere per un tempo imprecisato, un’intera stagione, quel tepore. Lo spazzolino rosso non c’è, metabolizzare l’assenza degli oggetti, il primo passo, il primo passo per. Un’occhiata allo specchio, per esempio, riconoscersi appena, guardarsi nell’atto di specchiarsi, dall’esterno, guardarsi sempre da fuori, la faccia atterrita, bianca, guardarsi a lungo da una zona limitrofa alla vita ma lontana, da essa distaccata. Passarsi gli indici sulla curva irregolare, pingue, delle occhiaie, ridisegnarsi così, un altro volto, nuovi tratti somatici, passarsi gli indici sulle sopracciglia, posarli dopo sulle palpebre chiuse, carezzarsi le guance, teneramente. Teneramente avvolgere le proprie braccia intorno al torace, cingersi fino a far toccare le proprie dita dietro la schiena, percepirla così la simmetria infame del corpo, nelle due mani che lievi si sfiorano, mi basterò? Mi basteranno le mani, le mie due mani annodate, questi polipi fragili, questi due polipi avvinghiati banditi dalla specie?
Indossare qualcosa, senza criterio, qualcosa che protegga e non faccia insinuare il Freddo, sotto la lana, tra i suoi buchi, i buchi delle tarme, giù fino al sangue, fino agli organi celati con gelosia, coprirsi bene, munirsi dell’indispensabile al viaggio, una mela, fiammiferi, un taccuino, una penna blu, qualcosa, qualcosa che tenga compagnia chissà quanto a lungo, quanto a lungo il passo, la nuova partenza, lontano, via dalla Casa, la Casa che cresce, crescono le sue liane, i silenzi d’ovatta trafugati dal rintocco frigido dell’orologio a muro. Casa che cresce immortale, prolifera, si addensa di fantasmi, suoni radi, a volte, lo squillo, l’ultimo, di un volatile, lo sparo del cacciatore, la sua eco vibrante. Rimpicciolire intanto, mentre cresce la Casa, la sua penombra viola, perlacea. Rimpicciolire.
Soltanto mio il vortice del sangue, che preme, inarrestabile, lungo gli avambracci e oltre, fino alle unghie e ne esce invisibile la pressione, oltre le unghie, la loro sagoma, il confine di me, mio il vortice di sangue ora invisibile secante la terra, compatta, che attraverso decisa. Soltanto miei i campi avvolti dalla nebbia, nebbia leggera, opaca, che li sfarina, soltanto mia questa luce farinosa, lungo la Strada, granulare, che invade gli occhi, li punge appena, li sottrae alla totalità della visione, imperfetta la visione, quanto a lungo imperfetta, la lucidità, una tentazione, andare a ritroso, tornare, indietro, quanto ancora l’attrito, questi conglomerati di terra dura dove il tallone si incaglia, vorrebbe una sosta, una nicchia dove chiudersi, per millenni celarsi, riposare. Soltanto mia l’amarezza dell’aria memore della scorsa pioggia, né fredda né umida ma memore, eppure smemorata, tentata dall’amnesia, i colori screziati dell’autunno, arancio, bronzo, oro. Soltanto mia la direzione, seppure ambita vacillando, ma certa, mia la Strada, la direzione, già si può intuire il Villaggio, a valle, già lo si intravede raggrumato in fondo, in basso, ai piedi del cerchio di fuoco, di colline, il suo sbadiglio lento, svogliato, lo si può intuire, coi fumi uguali borbottati dai camini, i suoi cigolii. Sono tornati tutti, oggi, hanno spento il televisore, chiuso il gas e sono usciti, tutti, mine vaganti. Il cielo lo invade adesso un fragore di passi, chiacchiericci, soltanto mie le intermittenze che capto tra un bambino che rotola e una donna sull’uscio del tabacchi – sugge una pipa, la addenta quasi la divora, le labbra rosse, un occhio di vetro impenetrabile.
I bambini cantano e cadono, all’unisono, rotolano giù come biglie, poi si ricompongono, radunano le proprie ossa sparse sui pugni di foglie secche, ridono, saltano, locuste impazzite, già rinate, dimentiche dei Morti, di quelli che non sono più tornati. Cantano e cadono, più in là, oltre le siepi secche, nel crepuscolo. I vecchi fischiano e biascicano, parole che cerco di intuire, masticate, parole di bava impigliata tra i denti d’oro, non le comprendo, mi contorco, contorco il corpo per captare un suono, captarlo un suono almeno, almeno una chiave di lettura, sia pure estemporanea, provvisoria. Cerco la tessera smarrita, il pezzo mancante, mi piego nel fetore dei tombini, ai margini dei vicoli polverosi, cerco sulle facce delle case, uguali, tetre, disposte in filari bassi, lunghi, lunghi fino alla notte, cerco ancora, nel pattume, tra i fili d’erba indorata dalla luce, luce che lenta sviene, si lascia annusare. Scovo soltanto matasse di capelli bianchi, bianchissimi, piume di pappagalli fuggiaschi, monete d’altre epoche, un bottone coi due fori perfetti, ci guardo dentro, allora, spio il mondo dai due fori posizionati dinnanzi agli occhi. Luce che svenendo ammanta tutto, confusa a un odore di castagne, brace che profuma, la tentazione di un tepore, fumi antichi, fumi trasecolati che risalgono, dai templi sommersi sotto il mare, dalle case di marzapane in fondo ai boschi, i boschi ermetici nascosti dietro i tuoi occhi vasti, allarmati. E vorrei tornare, alla Casa, accendere la stufa, schiodare le assi dalla finestra sul campo di girasoli, verificarne la presenza, ancora, anche se, anche se nel buio, poterne intuire i gambi oblunghi, i volti incoronati, prostrati alla luna piena. Ti attenderei sulla tua poltrona, rannicchiata dentro il guscio, attenderei un bisbiglio, per minuti o lustri, per mille e mille notti, il suono delle tue chiavi, forse, familiare, forse nell’attesa metterei l’acqua a bollire, la guarderei bollire, il vapore sulle mani, mi darebbe la forza, forse, un colore nuovo alle guance.
Francesca Mazzotta è nata a Firenze nel 1992. Si è laureata in Italianistica all’Università di Bologna ed è attualmente dottoranda in Scienze della persona e della formazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha vinto il premio InediTO (2016), mediante il quale ha pubblicato il suo primo libro di poesie, Reduci o redenti (CartaCanta editore), e il premio Solstizio per l’opera prima (2018). Nel 2018 ha pubblicato Umbratile, prosimetro scritto con Luca Saracino (Origini Edizioni). Suoi testi poetici e recensioni sono comparsi su blog come Perigeion, MediumPoesia, formavera e riviste come «Poesia» di Crocetti, «Atelier», «Poesia del Nostro Tempo». La raccolta Gli eroi sono partiti sarà pubblicata da Passigli nel 2021.