Oracolo manuale per poete e poeti è un titolo in cui balzano subito all’occhio due parole, che spesso e volentieri sono al centro di dibattiti, quando non di vere e proprie polemiche, sia sui social che in altri luoghi più blasonati. La prima, “manuale”, porta con sé l’eco della diatriba tra chi ritiene possibile che si possa insegnare a far poesia e chi invece nega in modo assoluto questo assunto. La seconda, “poete”, si collega all’ormai annosa questione sull’uso della lingua in relazione al genere, che a partire da un classico come quello della Sabatini, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, a cui sono seguiti numerosi altri studi e interventi, continua a essere al centro di interpretazioni e prese di posizione le più disparate. Quali sono le ragioni per cui avete scelto questi termini e con quali significati?

GM: In realtà, “manuale” qui è un aggettivo e significa semplicemente “che sta in una mano”. Certo, non siamo sciocchi, e sappiamo che una certa attrazione verso il significato del sostantivo “manuale” («Libro che espone le notizie fondamentali intorno a un determinato argomento, in modo piuttosto ampio ed esauriente, tale tuttavia da consentire una consultazione agevole e pronta»: Treccani) resta comunque. Ma c’è anche una certa frizione tra l’idea del “manuale”, dove c’è tutto quel che serve messo in bell’ordine, e quella dell’ “oracolo” – e l’oracolo, si sa, è per sua natura oscuro, sibillino per l’appunto, e talvolta un po’ importuno.
LP: Sulla parola poete e poetesse, io ho sempre avuto un atteggiamento molto laico, perché è l’uso che fa la lingua, e perché lì dove esiste il ruolo al femminile esiste il nome. Non si tratta, quindi, di fare gioco linguistico o prendersela con una manciata di vocali e consonanti, si tratta di chiedersi perché la parola poetessa non sia, sempre più, sentita dai soggetti femminili che fanno poesia come neutrale rispetto al tipo di poesia che si vuole fare, ma invece come già caratterizzata, portatrice di una visione del mondo, di un certo tipo di poesia. Avessimo intitolato il libro Oracolo manuale per poetesse e poeti, sarebbe stato comunque un titolo parziale. Serve una parola totale. La percezione della parola poetessa può cambiare, se un’altra parola la mette in discussione? E si tratta, anche, di chiedersi perché, quando si tratta di prendere la parola, i nomi di genere comune (per dire, atleta, anacoreta, maratoneta….) non siano sentiti affatto come di genere comune, ma di genere maschile. Da cui poetessa, profetessa. Naturalmente, conosciamo la risposta sulle cause, ma si tratta di andare oltre. Si tratta, insomma, come direbbe Donna Haraway, di restare a contatto con il problema. Laicamente.

Il libro, come si legge nel sottotitolo, è “particolarmente adatto ai principianti, ma non privo di utilità anche per gli esperti”. Quali sono, secondo la vostra esperienza, i limiti che si evidenziano più di frequente nei testi dei novelli poeti e in quelli di chi invece scrive e pubblica da più tempo, oggi in Italia? Esistono diciamo così, delle tipologie di errori/fragilità più ricorrenti nelle produzioni dell’una e dell’altra categoria di poeti?

GM: tre errori (dei principianti). L’astrazione. Non so perché, ma sembra che, nel senso comune, la poesia non possa fare a meno di parole astratte. Come se tutti avessero letto L’infinito e ne avessero trattenuto non l’immagine, molto concreta, della siepe; ma la parola «immensità». I versicoli. No, non basta andare a capo a ogni parola per fare poesia. Di nuovo: come se tutti avessero letto l’Ungaretti di guerra, e ne avessero trattenuto solo un certo effetto di pathos dato dalla microscansione delle parole. La non lettura. Come se si potesse scrivere poesia essendo ignoranti di poesia (come se si potesse giocare a pallacanestro senza allenarsi e senza aver mai visto una partita, ecc.).
LP: Quest’ultimo concetto è quello che sta alla base anche di un altro fortunato pamphlet uscito in questi giorni, La scrittura non si insegna di Vanni Santoni (minimum fax). Il talento naturalmente non si insegna, in ogni arte, le tecniche sì – nessuna forza umana o divina potrebbe rendermi in grado di ballare Il Lago dei Cigni, ma quello che è un impossibile per il mio corpo non è detto che risulti impossibile per il corpo di un altro – ma i concetti di dieta “letteraria”, di disciplina, la metafora olimpica o guerresca che sottendono, ci riportano all’idea che in realtà il diventare e l’essere scrittori e scrittrici, o poete e poeti, richiede l’interezza di una vita, non nell’abbandono di tutto il resto (amore, lavoro, ecc.), ma nell’attraversamento e l’orientamento di tutto il resto.
Sugli errori dei principianti, io direi ritmica e timbrica. Come se il testo parlasse solo alla mente e non al corpo attraverso l’orecchio, come se fosse del tutto privo di musica – anche una musica dissonante, stridente, contraria a ogni cosa, ma musica. Aggiungo che i testi degli esordienti di oggi hanno, in media, una qualità stilistica e tecnica molto più alta di ciò che circolava venti o trenta anni fa, e sono, allo stesso tempo, accomunati da una sorta di medietas, si ritrovano in una koiné. Si ha, a volte, l’impressione di leggere in diverse forme lo stesso libro. Come se a fare poesia non fosse più un soggetto individuale che cerca una cifra, una cadenza assolutamente propria, il make it new! modernista che sintetizza così bene Ezra Pound, ma un soggetto comune, rizomatico, diffuso, che si riconosce nel fare poesia degli altri e lo fa proprio, come se tutti scrivessero contemporaneamente lo stesso testo. Naturalmente, sto generalizzando, ma è una tendenza in atto, di cui va dato conto, e che va osservata. Potremmo dire che è un nuovo petrarchismo, o quantomeno una polarità Petrarca, ma…. senza Petrarca, perché anche i modelli ispiratori di questa koiné sono a loro volta ibridati e diffusi.

Quali sono a vostro dire gli ingredienti imprescindibili di una poesia ben riuscita? Quando una poesia può definirsi buona? Qual è il primo testo che vi viene in mente se doveste fare un esempio concreto, una citazione?

GM: L’immagine perfettamente definita. E faccio un esempio con una poesia di un autore minore, perché sia ben chiaro che qui stiamo parlando dell’artigianato della poesia e non dell’arte: «Mentre ch’assisa Nice /
del mare alla pendice / stava a specchiarsi in un piombato vetro, / io, ch’essendole dietro, / affisati i miei sguardi a l’acqua avea, / l’ombra sua vi vedea / con la sinistra man di specchio ingombra: / e ne lo specchio ancor l’ombra de l’ombra». È di Tommaso Stigliani, un poeta della prima metà del Seicento.
LP: Paul Valéry scrive, il primo verso lo danno gli dèi, ma il secondo dobbiamo scriverlo noi, e non deve essere indegno del suo fratello sovrannaturale. Per rispondere alla domanda, direi la coerenza, ma una coerenza estrema, cellulare, tissutale, che è allo stesso tempo coesione e rispondenza di tutti gli elementi all’interno del campo esterno/interno che ogni poesia traccia. A differenza del caro Giulio, io non credo al “sufficientemente buono”, in poesia, quindi cito un testo di una delle nostre maggiori autrici, Antonella Anedda, da Historiae (Einaudi 2018). Si intitola “Quanti”: “Dicono i fisici che la morte/sia presente da sempre in uno spazio esatto/posata accanto alla nascita come un lume o una mela/o un oggetto qualsiasi sopra un tavolo./Che il tempo dunque non c’è e dobbiamo dire ora e poi/solo per non impazzire, un anno dietro l’altro/piegando i giorni dentro i calendari/pensando i loro numeri appiattiti/quando invece ronzano pieni di larve e miele”.

Per quali ragioni è importante “per chi voglia scrivere poesia, confrontarsi con le altre arti”? Potreste stilare una sorta di sintetica mappa orientativa per poete/i che vogliano avventurarsi nel territorio dei diversi linguaggi artistici? A che cosa prestare attenzione, su che cosa soffermarsi per arricchire la propria scrittura poetica?

GM: Prestare attenzione alla forma, e alla materia. Non al senso. Comprendere le forme musicali, e godere i timbri. Comprendere le forme pittoriche, e godere i colori. Comprendere la forma della danza, e godere i corpi.
LP: Oggi è molto forte, in chi scrive, il desiderio di confrontarsi con il mondo dell’immagine, che è dominante nel nostro tempo. Penso alla rubrica di Franca Mancinelli su Le parole e le cose 2, Punti luce; penso a un sito come Antinomie, il blog collettivo di Andrea Cortellessa, Federico Ferrari e Riccardo Venturi che si propone come finalità il “tenere traccia delle forme di scrittura (poesia, letteratura, saggistica, filosofia, critica, ecc.) che, attraverso il superamento dei confini disciplinari, hanno posto al cuore della propria pratica il rapporto tra la parola e le immagini.” E anche nella collana di poesia che curo per l’editore Aragno, I domani – con, ancora, Andrea Cortellessa e con Maria Grazia Calandrone – sempre più spesso accade che chi scrive manifesti con forza la necessità interiore di integrare la propria parola con immagini. Possiamo chiederci perché tutto questo accade – anche qui, conosciamo le risposte, ma non è inutile porsi ancora e ancora le domande – e le ragioni sono senza dubbio molte. Ma quello che dobbiamo certamente chiederci è se tutto questo accada da una posizione di forza o di debolezza della parola poetica. Entrambe sono sempre possibili ma per me, per chi scrive la poesia parla sempre da una posizione di forza.
Da questo punto di vista, un esercizio interessante, e chiarificatore, per l’esordiente ma anche per il poeta più affermato credo sia, come lo è stato per me, ripetere il tentativo che descrivo in queste pagine del mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo 2018): «Agli inizi di luglio del 2015 mi è stato proposto, da Massimiliano Manganelli e Pietro D’Agostino, di partecipare al progetto “Tra scrittura e fotografia. Alcune ipotesi”, destinato a essere presentato, sabato 21 maggio 2016, nel corso della manifestazione di poesia “Ex.it/materiali fuori contesto, rassegna internazionale di scritture di ricerca”, ad Albinea in provincia di Reggio Emilia. Il progetto consisteva, sostanzialmente, nel creare una fotografia che fosse la traduzione visiva della mia idea di scrittura – la mia poetica quindi – la incarnasse o la rappresentasse. Non c’erano vincoli tecnici o di formato particolari. Si trattava, diceva l’invito, di un’indagine. Ho accettato subito, di slancio, e poi mi sono fermata a riflettere. Il contrario – tradurre in parole un’immagine – è pratica abbastanza comune. È qualcosa a cui siamo addestrati. Esiste un codice condiviso, se si hanno alle spalle un minimo (o un massimo) di studi di storia dell’arte. Ma la traducibilità in senso inverso presuppone un’alta consapevolezza di sé e di ciò che si fa, o che si mira a fare, e questa può esserci; un dominio delle tecniche fotografiche non banale, e questo può essere ottenuto, da sola o con l’aiuto di altri; ma soprattutto, presuppone un’analogia e un’equivalenza tra le due lingue, parola e immagine, una reciprocità dei codici che apre un campo vastissimo. […] Non era esplicito, ma l’esercizio richiesto dal progetto Ex.it poteva essere tanto istintivo quanto analitico. Insieme a me sono stati invitati molti altri autori e autrici: Gian Maria Annovi, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Maria Grazia Calandrone, Alessandra Cava, Elisa Davoglio, Alessandro De Francesco, Giovanna Frene, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Andrea Inglese, Giulio Marzaioli, Simona Menicocci, Manuel Micaletto, Renata Morresi, Gilda Policastro, Lidia Riviello, Fabio Teti, Sara Ventroni, Michele Zaffarano. Gli esiti, naturalmente, sono stati dei piú vari. Per diverse settimane, il compito mi è sembrato pressoché impossibile, anche perché l’immagine desiderata doveva essere reperita – e per poterlo essere, vista – in qualche misura anche nella realtà. Poi, un pomeriggio d’autunno altrettanto oscuro di quello d’inverno in cui scrivo ora, ho iniziato a cercare elementi di quell’immagine a venire in foto realizzate per tutt’altri scopi, con la macchina fotografica o il cellulare, molti anni o solo pochi mesi prima. Un vetro semiopaco, di là dal quale si intravedono alberi, bordato da una cornice di metallo come se fosse la plancia di comando di un’astronave, uno scatto preso al primo piano del MAXXI di Roma in una giornata d’estate, disteso come una pellicola, sopra; la foto di una pietra incisa di simboli bianchi, indecifrabili, risalenti alla preistoria, presa, questa, nella Serra d’Ivrea piú di dieci anni prima, durante una residenza di scrittura; un cielo di Berlino contrastato di nuvole, un’immagine ruotata a un angolo impossibile contro cui si staglia la sagoma oscura, tra cerchio e ovale, della mongolfiera della città, come un meteorite o un corpo alieno. Manipolate le luci e i filtri, per tentativi ed errori, sulle due immagini – di un passato e un futuro ugualmente remoti – è sovrapposto, a dare unità a un dittico dai colori sfumati, rosa blu e grigio che emergono appena dal bianco e nero, il materiale tra trasparente e lattiginoso della vetrata-astronave. Cosí, quello che è offerto alla vista è il momento in cui, da lontano, e ancora dietro una protezione, guardiamo ciò che è ancora piú lontano, nel tempo o nello spazio o nei domini dell’umano, e decidiamo di avvicinarci, di entrare nella sua prossimità, da cui torneremo cambiati, ma non inutilmente. L’immagine fissa la poetica in un momento, nel suo darsi inizio, nella sua sideralità di cielo e pietra. Le sfugge, forse, il momento in cui dalla distanza si farà ritorno a casa.»

Nel gioco dell’Oracolo, una possibilità è quella di aprire il libro a caso seguire il suggerimento che compare sulla pagina a destra, in forma a volte di provocazione, riflessione o domanda, a cui fa da corollario un breve approfondimento sulla pagina sinistra. Posso domandare a ciascuno di voi quello che sente o ha sentito come più indicato per sé, in questo momento o in passato, e perché?

GM: «Parla con i morti». Ho appena finito di scrivere un piccolo libro in versi che s’intitola Il mondo vivente, e uscirà per le edizioni LietoColle, nella collana del festival Pordenonelegge, il prossimo settembre. È un libro nel quale mi sono ritrovato a parlare con i miei morti – i genitori, innanzitutto – e ad ascoltare le loro parole, provenienti da vecchie lettere, cartoline postali degli anni Trenta, articoli scientifici – erano biologi, entrambi.
LP: Ne scelgo due. «Lo saprai», che si riferisce a quella misteriosa consapevolezza che improvvisamente sopravviene alla fine di un processo di scrittura, quando l’opera inizia a distaccarsi da chi l’ha scritta; ma anche alla risonanza, sia interiore che rispetto al resto, che assumono certe scelte, in poesia, quando ci rendiamo conto di una – una – loro verità.
E poi «Scegli un senhal» il nome d’invenzione con cui i trovatori, ma anche le trobairitz provenzali, designavano il loro tu d’amore, e che ci riporta a una fase aurale della poesia in lingue romanze in Occidente. Un richiamo lontano alle chansons d’aube attraversa anche il mio prossimo piccolo libro di versi, per riprendere la definizione di Giulio, che uscirà a settembre per la collana A27 di Amos edizioni, e si intitola Noi. Ma l’idea del senhal ci riporta a ciò che la poesia fa di più profondo, dare un nome alle cose – e del resto «Dai un nome» è un altro dei suggerimenti che avrei potuto scegliere – nel senso del nome segreto che possiedono gli abitanti del mondo di Earthsea nella saga di Ursula LeGuin, o del nome segreto dei gatti di cui ci parla giocosamente T.S. Eliot: un nome che coincide, felicemente come altrimenti non potrebbe essere, con tutte le essenze di una cosa.

 

da Oracolo manuale per poete e poeti, ovvero metodo rapido ed efficace per migliorare la propria capacità di scrivere in versi, particolarmente adatto ai principianti ma non privo di utilità anche per gli esperti (Sonzogno 2020) con illustrazioni di Sebastian Kudas

 

Parla con i morti.

I tuoi morti: i familiari, gli amici, coloro la cui mancanza è insanabile. I poeti morti: quelli che, quando li leggi, li senti vivi e prossimi. Gli eroi del passato. In una celebre lettera, Niccolò Machiavelli raccontava all’amico Vettori la propria giornata-tipo in campagna. Prima una passeggiata, con qualche sosta per leggere: «[…] Ho un libro sotto, o Dante, o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili. Leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori; ricordomi de’ mia [dei miei amori] e gòdomi un pezzo in questo pensiero.» Poi l’osteria, per «ingaglioffirsi» giocando «a cricca, a trich-trach», e far mille chiacchiere per «trarre il cervello di muffa». Ma infine: «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.» Quali sono gli antiqui con i quali conversi? (Se non hai riconosciuto il verso all’inizio, rileggiti il Dei sepolcri di Ugo Foscolo; almeno il finale.)

 

Lo saprai.

Forse, eh.

 

Scegli un senhal.

I poeti provenzali usavano rivolgersi all’amata usando un nome d’invenzione. Non si trattava solo di discrezione – visto che l’amata di solito era dotata di un regolare coniuge –, ma anche di un’operazione poetica: dare un nome significa aggiungere significato. Questi nomi fittizi erano chiamati senhal. Per fare un esempio dei tempi nostri (o quasi): Eugenio Montale scrisse molte poesie dedicate a Irma Brandeis, studiosa americana di Dante da lui conosciuta a Firenze nel 1933, e subito amata; le diede il nome di Clizia, la ninfa innamorata del dio solare Apollo (la storia la racconta Ovidio nel quarto libro delle Metamorfosi) che, da lui abbandonata per la mortale Leucotoe, crollò nel dolore e smise di nutrirsi, restando giorni e giorni seduta, immobile, ruotando solo il capo per seguire il percorso del sole – il suo amato – dall’alba al tramonto. Apollo, commosso da tanta fedeltà, la trasformò in un fiore. Clizia non è quindi un nome neutro, un nome qualsiasi; è un nome che aggiunge significato: un senhal, appunto. Ma si può scegliere un senhal anche per nominare un concetto, una città, un sentimento, una parte di sé, al limite anche se stessi. (Per i più curiosi: no, Clizia non fu trasformata in girasole, bensì in eliotropio; il girasole è una pianta americana, arrivò in Europa nel Cinquecento.) (E per gli ancora più curiosi: no, Irma non fu poi così contenta di essere trasformata in una Clizia che, immobile, guarda girare attorno al mondo l’Eugenio-sole…)

 

Giulio Mozzi ha pubblicato diverse raccolte di racconti (ricordiamo La felicità terrena, Einaudi 1996; Il male naturale, Mondadori 1998; Favole del morire, Laurana 2015) e alcuni libri in versi: Il culto dei morti nell’Italia contemporanea (Einaudi 2000), Dall’archivio (Aragno 2014). Ha inventato la poeta erotico-macabra Mariella Prestante (Estremi amori, postume querele, ’round midnight edizioni 2019). Con Stefano Brugnolo ha scritto due fortunati manuali: Ricettario di scrittura creativa (Zanichelli 2000) e L’officina della parola (Sironi 2014). Per Sonzogno ha pubblicato nel 2019 l’Oracolo manuale per scrittrici e scrittori. Insegna scrittura creativa dal 1993. Nel 2011 ha fondato a Milano la Bottega di narrazione (bottegadinarrazione.com).

Laura Pugno è autrice di poesia, prosa, saggi e testi teatrali. Tra gli ultimi libri: i romanzi La ragazza selvaggia (Marsilio 2016, premio Selezione Campiello), Sirene (Einaudi 2007, Marsilio 2017) e La metà di bosco (Marsilio 2018), il saggio In territorio selvaggio (nottetempo 2018), e le raccolte di poesia I legni (Pordenonelegge 2018) e L’alea (Perrone 2019). Cura, con Andrea Cortellessa e Maria Grazia Calandrone, la collana di poesia «I domani» dell’editore Aragno. Ha ideato il festival diffuso di poesia e scrittura «I quattro elementi» a Madrid e la «Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea». Collabora con »L’Espresso» e «Le parole e le cose» (www.laurapugno.it).

Sebastian Kudas è un artista grafico polacco. Lavora come scenografo e assistente alla regia per spettacoli teatrali. Collabora come disegnatore con giornali e riviste. Ha illustrato, tra tante altre pubblicazioni, gli Epitafia di Wisława Szymborska.

 

(Intervista a cura di Silvia Rosa)

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