Il senso dell’esistenza si annida nel rapporto dell’uomo col mondo.
Un mondo fatto di generiche cose, un’ampia categoria in cui rientrano gli oggetti, gli altri, l’io stesso e le relazioni che questi intessono tra loro. Un mondo che ha consistenza materica, direzione e volontà. Un mondo che precede l’uomo e che resta oltre lui, malgrado lui.
Ma cosa è anche una parola generalissima che si insinua in ogni discorso.
In una raccolta organica (Le cose del mondo, Mondadori 2020), scandita in sei capitoli, approdo di un lungo lavoro, Paolo Ruffilli indaga questo rapporto tra soggetto e oggetto risalendo la corrente di una riflessione antica e mai conclusa. Nella breve nota introduttiva, capitoli è la parola che, usata dall’autore per designare l’articolazione in parti, segnala la compattezza tematica, strutturale e formale del libro. Le poesie si snodano in architetture di strofe uniche, percorse dalla musicalità di rime e assonanze, di versi che guardano alla tradizione avvicinandosi, prevalentemente, al respiro dell’endecasillabo e del settenario.
Da subito, affiora la parola sguardo che, nella sua pregnanza, si fa ponte di passaggio tra realtà soggettiva e oggettiva. Lo sguardo è la visione fisica e mentale che afferra e ricostruisce nel pensiero le cose, che segue il movimento di qualcuno.
Essere fermi o in movimento è la dicotomia insoluta di questo rapporto. Non a caso Nell’atto di partire è il capitolo che apre la meditazione di Ruffilli. Il viaggio diventa metafora dell’esistere poiché implica l’assunzione dei rischi dell’ignoto. Partire nonostante la paura del viaggio, il terrore di non saper tornare. Consegnarsi all’imprevisto, alla consapevolezza del rovesciamento di ogni prospettiva e, nel contempo, alla speranza di andare verso le cose per popolare il nostro mondo anche di quelle sinora ignote o distanti.
Le cose sfilano dentro lo sguardo, catturate da un finestrino di un treno in movimento. Procedono all’indietro. Ciò che si vede è una realtà incoerente che si rivela a sprazzi, rappresa in un singolo gesto (un braccio sollevato in alto) o in un singolo elemento (il letto sfatto, un bagno e la cucina). Tutto fugge di scena.
All’incrocio di traiettorie irregolari, dove è difficile tracciare una direzione precisa (Avanti e indietro… qui e là … più o meno), per ragioni imperscrutabili, si compie l’incontro di due vite e dei loro possibili destini. Così il viaggio diventa anche specchio di sé stesso, della possibilità di ritrovare in un percorso, apparentemente ripetitivo, le spoglie di un sé passato. Le tappe progressivamente si mescolano all’ombra annidata nelle cose, al dubbio di viaggiare a vuoto, di non avanzare mai, di non centrare il treno o la stazione giusta. Il moto inerte della vita è l’ossimoro che compendia questa paura. Tutto, allora, sembra confluire verso una deriva senza appigli ai quali annodare la propria esistenza. Tuttavia, proprio quando la poesia sembra chiudersi in questa immagine dolorosa, il discorso poetico riparte dalla tenace forza con cui si rinasce comunque, tornando a galla, ma soprattutto ricominciando, nel secondo capitolo (Morale della favola) dedicato alla figlia, da una storia parallela che sgorga viva e nuova nel sorriso dell’infanzia, in una nuova vita pronta a rifare daccapo l’intero percorso. La bambina è altro da sé, ma anche specchio di sé: ripercorre le stesse tappe del movimento vitale cominciando da una logica parziale, dalla scoperta, dalla paura, dall’acquisizione delle cose, da una realtà contaminata dall’immaginazione, fino alla smacco dell’esperienza che insegna come il mondo si sottrae ai nostri desideri, fino alla ricerca di un equilibrio incerto tra l’evidenza e l’ombra delle cose. Preservare entrambi è lo scopo. L’adulto e la bambina sono due differenti sguardi sul mondo, si tengono per mano. La saggezza dell’adulto dovrebbe insegnare alla bambina la disillusione, la diffidenza rispetto a una realtà incurante delle nostre aspettative, ma in fondo la maggiore saggezza consiste proprio nel non rivelare questa verità: Se no che resta?
Il terzo capitolo, La notte bianca, si muove interamente nella dialettica conoscitiva sospesa tra grandezza e viltà, tra il bisogno, connaturato nella natura umana, di elevarsi fino alla trascendenza, di legare frammenti di realtà in strutture di senso e la fallace ingannevolezza del nostro sguardo che urta contro la solidità dell’universo.
La memoria, lo spazio, il tempo, le leggi della logica e della retorica sono gli strumenti di una ragione che deve saldarsi al cuore e che avverte lo sgomento delle vane immagini, della falsità fabbricate dalla mente. Per poterle distinguere, si trascorre la notte in bianco, stando svegli a catturare il mondo nel momento del suo stare più deserto, quando lo sguardo può spaziare e assaporarne i frutti.
Avanzando in questo territorio, appaiono Le cose del mondo, quarto capitolo della raccolta. Sono piccole cose marginali (armadio, bambola, bicchiere, finestra, letto, occhiali…) che formano un catalogo compatto e dettagliato di una realtà materiale quotidiana, comune a ogni uomo. Le poesie tematizzano oggetti intorno a cui, apparentemente, c’è poco da dire, ma nei versi anche la banalità di un Palo può riassumere la direzione di una freccia diretta all’invisibile cielo, essere portatore di un’energia sottratta al cosmo.
Tutti questi oggetti, nella loro inerzia, sono un collegamento tra noi e il mondo: alcuni (porta, balcone) più di altri ci tengono sulla soglia, altri sono tracce della nostra interiorità, della nostra mente (le calze, ad esempio, sono il segno del desiderio, la sedia è una sfida alla gravità universale). Il catalogo termina con Vocabolario, oggetto che racchiude ogni parola e con esse tutte le cose. Ma la chiusura del capitolo è affidata alla domanda essenziale che grava sulle cose: come sono oltre noi e al di là della funzione che per noi assolvono? È una domanda radicale che ripercorre il problema della differenza tra reale e rappresentazione del reale: la poesia cattura gli oggetti attraverso la rappresentazione che è l’unica forma possibile per uscire dalla pura materialità del reale, ma anche un tradimento della verità ontologica del reale stesso sempre sfuggente.
Le cose, nella loro placida persistenza, stanno in una solidità immobile, compiuta nello spazio. Il loro destino sembra essere la durata: sopravvivere all’uomo. Eppure anch’esse cederanno a una lenta consunzione che le ridurrà a polvere.
Sulle cose e sul mondo si aprono le porte del corpo. Lo sguardo lo attraversa in Atlante anatomico con meticolosa attenzione, ricomponendo tra ascelle, bocca, denti, orecchie, pene, ventre, vulva … una mappa di un continente che, pur costituito dalle stesse parti fisiche, non è mai uguale a sé stesso già a partire dalle differenze del genere.
Per sottrarsi al vuoto dell’informe, le parti del corpo hanno bisogno di essere nominate da una lingua limpida e netta, che racchiude la forza del fuoco capace di rompere il silenzio. Lingua di fuoco è, infatti, l’approdo della raccolta dove si giunge al compimento della vasta esplorazione in cui Ruffilli ci ha guidati.
La parola scava nell’ombra, in una melma primordiale in cui tutte le cose sono disciolte prive di forma, riempie con la sua pienezza sonora l’involucro vuoto del mondo, sfida il buio che preme sui confini del reale e del linguaggio, dà nome all’inconoscibile nulla, a ciò che è assente. Strutturata in ordinate categorie universali, la parola costruisce l’universo delle cose. Ma le cose solo in parte si legano alle parole che abbiamo inventato per dirle: restano gli Interrogativi finali in cui la lingua, cercando di valicare la porosa materialità dell’universo, si scontra con la resistenza delle cose. La parola, infatti, fondandosi sulla convenzione che lega l’oggetto al nome, confonde reale e rappresentazione del reale. La parola è il mirabile equivoco che rende possibile la poesia.

 

da Le cose del mondo (Mondadori 2020)

 

SVEGLIO

Aspetto sveglio il mondo
nel momento del suo stare più deserto
per spiarlo meglio a cielo aperto
in ogni suo girone di miseria e di splendore
al vento della pura esplorazione
e con l’effetto di imparare, sia pure
nell’errore, i trucchi del mestiere
per mangiare e bere i molti pasti e succhi
che si è offerto di darmi in concessione,
da provare intanto su di me
alternati nel piacere e nel dolore.

 

LE COSE

Le persone muoiono e restano le cose
solide e impassibili nelle loro pose
nel loro ingombro stabile che pare
non soffrire affatto contrazione dentro casa
perché nell’occuparlo non cedono lo spazio
vaganti come mine, ma nel lungo andare
il tempo le consuma senza strazio
solo che necessita di molto per disfarle
e farne pezzi e polvere, alla fine.

 

IL VENTO DELLA VITA

Oltre l’evidenza che segna nel distacco
e fuori dall’abbaglio che ruba luce
nascondendo agli occhi il fondo,
dentro il sistema di molteplici raccordi
passaggi, corridoi, varchi e porte
l’enigma si disvela nel linguaggio:
le cose vive hanno radici lunghe
che pescano sempre nelle cose morte.
Ciò che rinasce puro si trasforma,
prolungandosi, nella speranza del futuro
ed ecco che di colpo il vento della vita
soffia infilandosi da vagabondo
in giro dappertutto per il mondo.

 

Paolo Ruffilli è nato nel 1949. Ha pubblicato di poesia: Piccola colazione (Garzanti 1987), Diario di Normandia (Amadeus 1990), Camera oscura (Garzanti 1992), Nuvole (con foto di F. Roiter; Vianello Libri 1995), La gioia e il lutto (Marsilio 2001), Le stanze del cielo (Marsilio 2008), Affari di cuore (Einaudi 2011), Natura morta (Aragno Editore 2012), Variazioni sul tema (Aragno 2014), Le cose del mondo (Mondadori 2020). Di narrativa: Preparativi per la partenza (Marsilio 2003); Un’altra vita (Fazi 2010); L’isola e il sogno (Fazio 2011). www.paoloruffilli.it

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