Caro Tommaso,
leggendo il tuo Piccolo discorso sulla poesia (NdR, Le parole e le cose, 4 ottobre 2019), non ho potuto fare a meno di appuntare alcune considerazioni ulteriori che tenteranno di integrare e preferibilmente rimettere in discussione quanto da te espresso.
Inizierei, pertanto, dal tuo “imbarazzo darwiniano” che, è abbastanza evidente, si appunta contro il concetto di “essenza” fissato da Aristotele e, quindi, fondante la tradizione occidentale. In particolare, Darwin, nelle sue considerazioni sul concetto di “specie” (da quanto riportato nella prima nota del tuo articolo), mette in discussione proprio i confini di “essenza” e chiama in causa le «combinazioni artificiali create per convenienza». In questo modo, sembra emergere un punto, a mio avviso decisivo, in cui la tua riflessione sembra confliggere, nonostante o perché, lo vedremo nel prosieguo, parli di trasformazioni induttive che partono dai particolari e, solo dopo ipostatizzano genealogie. La contraddizione che intravedo è proprio tra l’urgenza di innovazione metodologica (ma il “pragmatismo” darwiniano non è certo una novità, anzi, è alla base delle ideologie avanguardiste primonovecentesche) nell’inquadramento della poesia attuale e la necessità “evocativa” (quasi monstrum lovecraftiano risuscitato dalle nebbie della Storia) delle stesse genealogie. Insomma non capisco, e sarà un mio limite, la direzione che per te dovrebbe prendere lo studium della poesia oggi. Evochi, appunto, una nuova “meraviglia” e poi riporti il tutto a una necessità classificatoria. Parli di storia e pragmatismo (la testa mozzata della tradizione che converti montalianamente e che reagisce obtorto collo alla lingua aulica della tradizione) e concludi l’intero discorso sulle potenzialità immaginifiche cui l’uso dell’arte del linguaggio dovrebbe ricondurre: «Oggi dovremmo provare a ripensare la capacità della poesia di far combaciare la dimensione artistica della parola, ovvero la capacità di immaginare mondi possibili, di affidare agli uomini il sogno o il mito di un mondo che ancora non c’è, con la dimensione rituale della parola: la parola che fa realtà, psicagogica, che promette, giura che questo mondo è vero».
In poche parole, mi sembra che la concezione pragmatica strida con quella spirituale, perché prova a forzare quella che tu consideri una necessaria aderenza, una sintesi antidialettica e, per questo pacificatoria, tra parola e mondo. Ecco, se ho interpretato correttamente, ma sarai tu in caso a contraddirmi, non posso concordare con questa dimensione pacificatoria di quello che tu chiami “Reale”.
Per me il Reale si nutre di contraddizioni dialettiche, ancora oggi, anzi con maggior spinta proprio a causa di una fine avvenuta (quella ideologica, se vuoi, per riconnettermi al tuo disgusto per le scuole di matrice novecentesca). Per dirla tutta, a mio avviso è in corso ancora una guerra (è ovvio che ormai sia dismessa l’etichettaura tutta novecentesca tra conflitti caldi e freddi, ma è impossibile non avvertire altre conflittualità, se è il caso ancora più sostanziali, e qui il senso aristotelico del termine è ancora condivisibile, che in passato).
Peraltro, sono abbastanza d’accordo con te sul fatto che il nostro mondo non dovrebbe essere «un delirio dei social», ma aggiungo che, ahimè, già lo è. A tal proposito, ricordo un passaggio non certo recente (si tratta di un lavoro pubblicato per la prima volta nel 1990) di Jean Baudrillard, ma non per questo meno attuale: «Ci si dimentica un po’ troppo del fatto che tutta la nostra realtà è passata attraverso i media […]. Gli effetti di coscienza morale, di coscienza collettiva, sono interamente effetti mediatici» (J. Baudrillard, La trasparenza del male, Sugarco Ed., Milano, 1990, pp. 100-101). Ecco forse, ci si dimentica che quello che stiamo ancora mettendo in discussione è già avvenuto e che la nostra «perdita di realtà» (Ivi. p. 103) è un dato di fatto incontrovertibile. Di più, percepire il Reale non può prescindere dalla constatazione della sua avvenuta falsificazione. Ma è ripartendo dalla resa a questo dato di fatto che si può considerare con più forza l’urgenza agonistica dell’oggi. Non siamo esseri per la morte (per quanto alle nostre origini ci sia la consapevolezza della morte stessa) ma esseri per la vita, per questo la parola deve essere denuncia costante dello scandalo della fine (proprio ora che è il pianeta stesso ad agonizzare sotto i colpi dell’azione umana). La vera urgenza mi sembra essere, a questo punto, una parola che lavori per la sopravvivenza. In questo caso assume notevole importanza il mito. Il racconto del dopo la fine (del dopo la storia, se si vuole) non può prescindere dalla denuncia del male, partendo proprio dalla resa a ciò che è avvenuto: «Ciò che sta succedendo collettivamente, confusamente, attraverso tutti i processi e tutte le polemiche, è il passaggio dallo stadio storico a uno stadio mitico, è la ricostruzione mitica, e mediatica, di tutti questi eventi» (Ivi, p. 102).
Appunto per questo, mi sembra fuorviante «ripensare la capacità della poesia di far combaciare la dimensione artistica della parola, ovvero la capacità di immaginare mondi possibili, di affidare agli uomini il sogno o il mito di un mondo che ancora non c’è», perché non si tratta di sperare che un nuovo mondo avvenga, ma di agire perché esso avvenga (allora andrà bene dare «seguito alle parole» ma non “false”, quanto “presenti”, perché presenziare, altro punto oscuro della tua riflessione, è considerare l’adesso del senso e non il dopo immaginifico).
Il versante immaginifico, infatti, la fantasmizzazione della parola (sempre seguendo Baudrillard), si appoggia sulla sua relazione col mondo. Non si tratterebbe di un’adesione mondo-parola, questo il Novecento ce lo ha fatto capire con dovizia, quanto di un tragitto circuitante e, in questo caso sì, “traguardante” e trasformativo, che procede con tutte le sue contraddizioni. A oggi, la metafora dello specchio, la scissione che tu immagini tra “me e me”, è funzionale per definire i termini dialettici della questione io/mondo, ma poi occorre scegliere “come” disporsi, se dentro o fuori la superficie levigata e schermante che anche la parola, come le altre arti (da te evocate come termini di paragone per una necessità o meno della poesia oggi, per me invece la poesia è sempre ibridazione in potenza), è, in quanto strumento di rappresentazione del mondo.
A questo punto, posso ritornare alla questione del mito e al suo fare mondo in praesentia. Parto da ancora più lontano, dalla “parola mito”, che è senso e forma a un tempo, di barthesiana memoria: «è certo che la mitologia partecipa a un fare del mondo: tenendo per fermo che l’uomo della società borghese è ad ogni momento immerso in una falsa natura, essa tenta di ritrovare, sotto le forme innocenti della più ingenua vita di relazione, l’alienazione profonda che tali forme hanno il compito di far passare; la sua operazione rivelatrice è dunque un atto politico: fondata su un’idea responsabile del linguaggio essa postula con ciò stesso la libertà» (R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974, p. 235, ma la prima pubblicazione dei saggi raccolti è del 1957). Da quanto emerge nel passo citato, il mŷthos, cioè la parola, è intrecciato indissolubilmente all’atto politico e consustanziale alla libertà (forse è questo ciò che intende Fortini da te citato parlando delle “possibilità” della scrittura; una possibilità di “accordo”, Einverstandnis secondo Brecht, una complicità col reale partendo, però, dall’immersione nella “falsa natura”). A mio avviso, qui va in secca la tua discussione “ariosa” sui poeti come logonauti, perché il viaggio non può prescindere dal mondo, non può essere una navigazione “sognante” nel «mare dei linguaggi», quanto un continuo “militare” da vedetta, che trascura la propria imbarcazione a favore di una responsabilità collettiva. Un cammino continuo, certo, che travalichi però i suoi strumenti. La poesia e il mito, allora, presuppongono uno svelamento, per questo lo stesso poeta è escluso dal politico (e dal “sociale” inteso in senso stretto, senza implicazioni sociologiche), perché vive ogni «azione rivoluzionaria solo per procura» (Ivi., p. 236), per riportare il discorso alla parola di poesia, essa è la delega che svela costantemente “la falsa morale”, restituendo il Reale soltanto attraverso la sua stessa alienazione.
Ho paura, che il tuo discorso, ma sono certo che tu non voglia questo e mi smentirai, sottovaluti l’osso della questione: nel percorso della parola non esiste alcuna Terra Promessa, nessun’anima evocabile, nessuna psicagogia, anche perché la promessa presuppone una ritualità che non ha motivo di essere, almeno ancora, perché l’oggi è totalmente e irreversibilmente inabissato nella mondanità. In altre parole, non sorvoliamo un abisso ma ci siamo dentro da un pezzo e abbiamo il compito, questa la vera urgenza del presente della parola e non solo, di rendere manifesta questa che dovrebbe essere, ma ancora non è, un’evidenza.
Su questo punto, interrompo la mia breve risposta al tuo testo, rimettendo infine in discussione il “buonamente” zanzottiano che non ha niente del “buonismo” verso cui mi pare indirizzata la tua interpretazione. Quell’avverbio-monstrum a me sembra più assimilabile a una profonda difficoltà dialettica: «L’uomo non può essere buono, dissero i sofisti, perché l’uomo è uomo e il buono è buono» (W. James, Saggi sull’empirismo radicale, Mimesis, Milano-Udine, 2009, p. 57), quindi Al mondo è il risultato di una riflessione amaramente ironica, la base di una disillusione che è il lascito più importante del Novecento, la mondanità cui facevo riferimento poc’anzi. Anche per questo mi piace chiudere con un’altra poesia di un autore guida, come Zanzotto, del disincanto:
Mondo

Copie snervate di copie
stinte sinopie dei muri
stanco mondo protrattosi
di figura in figura
mendicando una bava
di terra di siena
di cielo di prussia
il fantasma di turno
che più gli conviene.

1977

(B. Cattafi, Chiromanzia d’inverno, Mondadori, Milano, 1983, p. 53)

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