Fotografia di Dino Ignani

Il nuovo libro di Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome (Pordenonelegge – Samuele Editore 2021), è un atto di dedizione e testimonianza, una mano tesa a restituire un ruolo e un volto a chi è scomparso. Perché tutti siamo testimoni di sparizioni, repentine o graduali, violente o silenziose, tutti abbiamo sguardi attoniti dinanzi a un evento che resta incomprensibile, inaccettabile come la fine di chi ci sta accanto, o di chi è stato parte della nostra vita anche solo per un breve tratto. Poi, per seguitare a vivere senza farsi sopraffare dal dolore, si distoglie la mente, si accantonano i ricordi tra le pieghe di un quotidiano che reclama le sue necessità.
La poesia di Sorrentino irrompe a sovvertire l’ordine della dimenticanza, e lo fa con “luminosa potenza”, con precisione e crudezza, con visioni nette del buio e affondi perentori nel lato oscuro dell’uomo. In esergo al libro la dedica al padre e la citazione di Plutarco – sulla morte da vecchi come approdo e da giovani come naufragio – sono un viatico certo dell’opera che si va ad attraversare.

L’esperienza della morte si fa sangue, carne strappata e respiro sfinito sullo sfondo di piazze e strade e giardini. Sfilano generazioni di giovani bruciate nel consumo della droga, orbite scavate e svuotamento delle coscienze. Le parole della poesia, guidate da una compassione che rinuncia all’indulgenza, seguono traccia dopo traccia i corpi che si deteriorano, i vuoti che si dilatano, i precipizi che si spalancano. I versi sono fitti di neve e sangue, due termini, due immagini che si ripetono e si rincorrono con evidenza visiva, il bianco e il rosso in reciproco contrasto nei “cupi occhi della grande notte”. Eccone alcune occorrenze, con l’innesto di un terzo, il termine vene (anagramma di neve), a legare e completare il discorso con le sue orditure fono-simboliche: “nel suo sangue la neve”, “l’ordine della neve / sparso nel sangue / dissolve le vene”, “barriere di neve nel sangue”, “con la neve depositata nei solchi / nei crepacci delle vene”, “amore morto, neve nel sangue / […] / la corsa dei fuochi nelle vene”. Si risentono rispondenze con le Occasioni montaliane (dal Mottetto VIII, “Il passo che proviene / dalla serra sì lieve, / non è felpato dalla neve, è ancora / tua vita, sangue tuo nelle mie vene”), ma qui tono e atmosfera sono tutt’altro che elegiaci. La figurazione vivida, la dirompenza quasi fisica delle espressioni non lasciano margini di ambiguità, sono i segni di una sofferenza concreta, indizi di un tragico ineluttabile. Così è anche nei testi che descrivono il destino di sopraffazione subìto da giovani donne, o le morti precoci per lo schianto di un incidente, la fine feroce e improvvisa incisa sui corpi: “nella potenza della fine / qualche parola arrivava / da un oceano che era in lei // ramo secco e selvatico / aveva ceduto la sua forza / all’imperio della morte / al supplizio del sangue / raccolto da mani incredule // apre il vuoto fra lei e la madre” (nella potenza della fine).

A dare al linguaggio un ritmo ancora più serrato, un passo di marcia implacabile, ai versi si alternano testi in prosa che agiscono come un obiettivo fotografico puntato sul reale. Davvero la scrittura di Sorrentino non si risparmia e non risparmia nulla, è come un grido trattenuto negli occhi, un tentativo di strappare via il male nel corpo a corpo con le parole: “[…] La fine era lì, dove qualcos’altro cominciava. Un patto muto ci consacrò per sempre al cuore di quella terra scura e insanguinata. Lasciammo tutto, tutto quello che avevamo posseduto, agli occhi scrutatori di quella madre morente. La sua voce tenerissima ci trovò nella fretta di una giornata che doveva finire.” (La strada, il ritorno).

Eppure dal cuore della lotta emergono versi come confidenze (o verità) sfuggite alle labbra, rovelli in cerca di ragioni, ma anche rimpianti immedicabili: “noi che non eravamo mai stati / del tutto vivi all’amore”, “perché ogni cosa era senza vocazione”, “avevamo bisogno ancora di mistero / non del mondo atterrito”. Forse, più che la sorte di una vita breve, a tormentare è la consapevolezza di aver mancato un’occasione, di non aver compreso in tempo quel che conta, quel legame che salda gli uni agli altri e che salva, “eppure sai, lo sai, / l’amore desidera / il perpetuo bene”. Forse è necessaria una vita intera per scoprirlo, perché l’amore si nutre dei gesti e dei giorni, come l’amore cresciuto nel tempo tra padre e figlia, il cui lascito duraturo è proprio in questo sentire “l’impronta della tenerezza / caduta dalla mano del padre”.

Se “l’assenza del nome è memoria vuota”, ecco che il sentimento ha bisogno di essere nominato, definito (“l’amore è un tuffo sul corpo”, “l’amore è un drappo chiuso / nell’insufficienza”) e ricordato per esistere, ancora e ancora: “[…] / il nome rimbalza nei suoi occhi chiusi / nelle lacrime schiantate in gola // la tenebra assiderata / gli ha consegnato un’altra voce / un tumulo, frammenti di ossa // una memoria fissa chiama / la libertà dello sparire” (nella sera deserta e cupa). Così accade nella prosa Il giardiniere che chiude il libro, che fissa per sempre la presenza del padre negli oggetti da lui utilizzati in vita. Torna a più riprese nella poesia di Piazzale senza nome l’immagine di una “luminosa potenza”, che sembra insistere sugli eventi, pervadere uomini e cose. Sorrentino non si pone in contrasto, segue il filo di lama degli accadimenti, ne accoglie il senso, fino a dischiuderlo in un’invocazione: “guarisca lo sguardo / le nostre cadute nella notte / guarisca lo sguardo / ciò che la caduta disperde”.

 

da Piazzale senza nome (Samuele Editore / Pordenonelegge 2021)

Nel secolo che hai lasciato
su tutto il giardino neve
dilatata
silenzio armato nelle pupille
neve, tutta nel sangue
narici oltraggiate
bianco e nero

l’incedere violento
del battito cardiaco
si chiude su di sé

nella luminosa potenza
avviene l’incontro

*
aveva oltrepassato
il confine
restituita la voce
all’universo
la sorgente di luce non era più
visibile
era tramontata fra gli alberi

la notte bianchissima discesa
fino in fondo, guerriera

nel suo sangue la neve
il freddo polare nelle pupille
allagate
perdute per sempre

*
Piazzale senza nome

a U. B. 

« …amore mio perché? Perché vuoi toccare il fondo?»

 

il silenzio delle lamiere nascose
l’assalto in una notte di febbraio
i denti sul braccio fino all’osso
la testa contro il finestrino
– tu sei niente, nessuno –

 

e non so quando
tutto il nascosto ci travolse
senza emettere un lamento
gelò la fronte il respiro
della cenere

 

*

la notte si era accasciata

la giovinezza
l’avevamo trascorsa
nel peso della sua immortale rovina

noi che non eravamo mai stati
del tutto vivi all’amore
c’eravamo concessi al freddo
stretto nelle narici, nelle vene
avevamo perduto tutte le parole

la forza di una generazione

 

*

Nunzia

 

essere portata in un’urna
diranno – reca le ceneri –
con il corpo privo di resistenza
la ragazza dal volto antico
si sottomette
rende cadavere la cosa

una forza la preda
non uccide ancora, è sospesa
su di lei

l’imperativo potente
l’ha resa schiava

 

di notte quando è sola
lava via dal corpo
segni vaghi e confusi

Luigia Sorrentino è nata a Napoli e lavora alla Rai. Ha fondato e dirige dal 2007 il primo blog della Rai dedicato alla Poesia sul sito di Rai News 24 (poesia.blog.rainews.it). Fra le pubblicazioni di poesia: C’è un padre (Manni 2003), La cattedrale (il Ragazzo innocuo 2008), L’asse del cuore («Almanacco dello specchio» Mondadori 2008), La nascita, solo la nascita (Manni 2009, prefazione di Maurizio Cucchi), Olimpia (Interlinea 2013-2019, prefazione di Milo de Angelis, postfazione Mario Benedetti), Inizio e Fine (I quaderni di Stampa2009 2016, a cura di Maurizio Cucchi). Le sue poesie sono state tradotte in numerose lingue. Fra i suoi libri pubblicati all’estero: Olimpia (Recours au Poème Editeur 2015, traduzione in francese di Angèle Paoli), Figure de l’eau/Figura d’acqua (Al Manar 2017, con inchiostri di Caroline François-Rubino, traduzione in francese di Angèle Paoli), Début et Fin (Al Manar 2018, con collage di Catherine Bolle, traduzione in francese di Joëlle Gardes), Olympia (Al Manar 2019, con disegni di Giulia Napoleone, traduzione in francese di Angèle Paoli), Olimpia (RiL Editores 2020, traduzione in spagnolo di Antonio Nazzaro) uscito in Cile e in altri paesi latino americani. Per il teatro ha scritto e pubblicato il dramma Olimpia, tragedia del passaggio (2020), una produzione del Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio, messo in scena nel Palazzo Reale di Napoli il 16 luglio 2020.

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