Ho conosciuto Giulio Carlo Pantalei all’Aleph, uno dei luoghi storici della poesia a Roma, all’inizio di Febbraio, durante un dibattito in cui parlavamo ambedue del nesso estetico tra musica e poesia. Pantalei, classe 1990, è un giovane e agguerrito musicista e ricercatore, autore di Poesia in forma di rock, saggio uscito per Arcana Editrice nel 2016. L’ho intervistato cercando di penetrare i presupposti metodologici da cui è partito nella sua analisi, in cui sostiene con forza la necessità di indagare il ponte esistente tra l’elemento poetico e la struttura musicale come fatto d’arte, e di farmi rivelare gli esiti teoretici e pratici a cui finora è giunto. Questa intervista è il risultato della nostra conversazione.

Sonia Caporossi: Giulio, nell’introduzione a Poesia in forma di rock affermi che esiste “un filo rosso sorprendente e mai esplorato prima che riconduce alla nostra cultura nazionale alcuni tra i più celebri artisti della storia del rock, da Bob Dylan a Patti Smith, da Mike Patton ai Radiohead: l’amore per la letteratura italiana, un amore tale da dettare di frequente strofe e versi delle loro canzoni più note. Un fenomeno tipicamente postmoderno”. In questo senso, che cosa hanno in comune Dante Alighieri e i Nirvana, Pier Paolo Pasolini e Patti Smith, Edoardo Sanguineti e Mike Patton?

Giulio Pantalei: Io sono un musicista e uno studioso di letteratura italiana, per questo anzitutto posso dirti a tale proposito che la mia ricerca si è generata in modo quasi “autoprobatorio”, se così si può definire, vale a dire rendendomi conto in itinere rispetto a queste due parabole – quella musicale e quella poetica – della forte presenza di autori dalla nostra tradizione nazionale nei testi o nell’immaginario di alcuni tra i più grandi attori della storia del Rock, con modalità e circostanze spesso iperboliche e tutte da indagare. A ben pensarci, dunque, quel che hanno in comune queste “intersezioni” è forse più di ogni altra cosa un carattere di totale imprevedibilità e gratuità nella genesi, che a mio avviso costituiscono una significativa prova del fatto che, per dirlo con Beverley, il Capitale non possa monopolizzare e impossessarsi completamente dell’ispirazione e dei mezzi di produzione interni che sottendono le creazioni artistiche – nell’accezione più spontanea dell’atto creativo – nonostante esse siano pienamente inserite nelle forme culturali capitaliste. Per la separazione e spesso la frammentazione a compartimenti stagni dei saperi che ha caratterizzato molta parte delle aggregazioni culturali moderne (in primis nel mondo accademico), si potrebbe mai pensare di collegare la poesia di Dante a un disco dei Nirvana, la Neoavanguardia italiana all’Alternative Metal americano degli anni Novanta o il Brit Rock dei Manic Street Preachers al Futurismo e alle poesie più viscerali di Primo Levi? No, sarebbe giudicato perlopiù come una radicale blasfemia, soprattutto in ambito italiano, ve lo può assicurare qualcuno che è dovuto passare (e ancora passa, alle volte) attraverso numerosi screditamenti lungo gli anni in ambito letterario proprio perché “Vabbè, tanto tu sei quello che si occupa dei rockettari tossici no?!”, come se ci fosse un purismo della letterarietà o della poeticità da non poter intaccare e che non a caso ha portato, soprattutto tra le generazioni più giovani, a un lathe biosas della poesia che è inquietante. Le citazioni di poesie o di testi di canzoni sono ovunque, siamo oberati di poesia in un certo senso: sui social insieme a foto ammiccante, sui manifesti pubblicitari nelle città, in televisione in bocca all’opinionista sportivo, ma chi ne approfondisce poi il reale significato? Per come la vedo io, infatti, è quando non si riesce a percepire il valore della poesia – musicata, visuale o non – che inizia a mordere l’oscurantismo, come aveva sempre luminosamente capito Pasolini quando diceva «la morte non è nel non poter più comunicare, ma nel non poter più essere compresi».

SC: Nessuno si aspetterebbe di poter cogliere un nesso tra l’avanguardia storica, la neoavanguardia letteraria e il pop-rock (al massimo i più potrebbero pensare a porre un ponte tra queste manifestazioni artistiche e la cosiddetta contemporary classical, per via di decostruttivismo). Tu invece l’hai fatto. Ci spieghi il tuo ragionamento?

GP: Ottima domanda, perché mi dà la possibilità di essere molto onesto. Il mio ragionamento si è venuto a formare in maniera “scientifica” a partire da un fenomeno molto poco scientifico, personale, intimo quasi, come quello del trovarmi fin da adolescente nella Room of one’s own di Virginia Woolf o nella cameretta petrarchesca a legger libri e ad ascoltare musica. In un primo momento trovare elementi che collegavano la letteratura che leggevo con i testi musicali che cantavo era per me come scoprire una piccola gemma preziosa che non si vedeva a prima vista e così, negli anni, studiando all’università e dotandomi di strumenti critici, a un tratto ho sentito di poter e dover mettere a sistema tutti questi segnali raccolti privatamente per vedere se effettivamente un sistema poteva comporsi. Naturalmente, c’era moltissimo ancora da esplorare oltre alle prime tracce che avevo raccolto e nel tempo il corpus era divenuto piuttosto ricco. Grazie poi al supporto di due professori all’Università di Roma Tre, Ugo Fracassa e Maria Paola Guarducci, ho deciso di portarlo avanti come ricerca adottando principalmente una prospettiva critica post-marxista sul Postmoderno – Jameson su tutti – e avvalendomi poi da un lato delle riflessioni sull’intertestualità da Kristeva a Segre, per la parte più specificatamente poetica, dall’altro della più nobile tradizione dei Cultural Studies a partire da Hoggart e Stuart Hall, non affrontando la questione da un punto di vista strettamente semiotico o musicologico, cosa che col senno di poi credo sia stato uno dei motivi di originalità della ricerca. A posteriori, infatti, capisco ancor meglio che quel che mi appassionava del fenomeno era la questione umana e artistica nei suoi risvolti intertestuali e sociologici e non strutturali. Volevo soprattutto capire come e perché Thom Yorke dalla sua grigia Oxford di fine anni Ottanta fosse arrivato a Dante, secondo quale ermeneutica e con quale volontà di riuso, e non solo arrovellarmi sul come il segno della lirica per musica interagisse col segno della poesia destinata alla lettura privata.

SC: L’importanza anche poetica di un testo di canzone è indubbio. Meno ovvio è, spesso, il valore autonomo di poeticità che esso detiene. Da quali presupposti estetici e critici sei partito nel tuo ragionamento in questo senso?

GP: Nella precedente risposta ho provato a spiegare i presupposti critici, mentre per quelli estetici sono partito proprio da quel “libero gioco” kantiano che era venuto a creare in me quasi una sinestesia interna tra l’occhio che leggeva, l’orecchio che ascoltava e il tatto che ricercava gli indizi, non solo nei libri come si potrebbe pensare at first, ma anche in tutte le soglie e il singolare paratesto – genettianamente parlando – costituito in questo caso da sleeve, booklets, video musicali, interviste su internet, suggestioni fuori pista, dichiarazioni e leggende metropolitane dai fan tutte da confermare (come, soprattutto, nel caso di Bob Dylan e di quel misterioso «Italian poet from the Thirtheenth Century» in Tangled Up in Blue). Sai, quando ti trovi dinnanzi a diramazioni musicali così diverse con delle relative espressività anche testuali così peculiari, dal Folk al Punk, dal Grunge al Progressive, bisogna essere cauti e rispettosi anzitutto dell’umanità degli artisti oltre ogni possibile schematismo, motivo per il quale l’estetica musicale adorniana sulla Popular Music – per quanto imprescindibile – è sempre risultata carente di qualcosa a mio modestissimo gusto. Io inizialmente muovevo da un criterio estetico sostanzialmente schopenaueriano, della musica come assoluto, come trascendenza, come sorta di reductio ad unum di tutte le manifestazioni fenomeniche e artistiche (altrimenti non sarei musicista! Ahah), ma grazie alle sensibilità e alle vicende degli artisti stessi con cui mi sono confrontato – in particolare Morrissey, Kurt Cobain, Richey James Edwards, Patti Smith, Radiohead – infine sono affiorate estetiche poliedriche e originali perché profondamente genuine, arrivando a toccare delle corde profondissime. Ti porto i due esempi che più mi hanno coinvolto in questo senso. Quando Cobain sceglie di ricreare la selva di Inferno XIII nel video di Heart Shaped Box dei Nirvana annotando riferimenti e versi proprio da quel canto sul suo diario, sta sì compiendo un preciso atto estetico in termini artistici, ma alla luce del triste epilogo che tutti conosciamo sta soprattutto compiendo un gesto rivelatore della propria disperazione, che evidentemente riusciva a comunicare dialogando idealmente con la poesia di Dante e purtroppo con nessuno che lo circondasse in quel momento. L’altro, sul polo opposto, riguarda l’incursione quasi filologica (investe infatti manoscritti, edizioni e traduzioni della Commedia) di Thom Yorke dei Radiohead in territori danteschi grazie alla storica compagna Rachel Owen, che lo ha iniziato all’amore per il nostro poeta: all’inizio degli anni Novanta, infatti, Rachel vince un Erasmus a Firenze per studiare i codici miniati rinascimentali del Sommo Poeta e lì il giovane Thom la va spesso a trovare. Si innamorano, insomma, tra Oxford e Firenze e le parole di Dante fanno in qualche modo da colonna sonora poetica per i loro cuori. Quando anni dopo Thom ricorderà i versi di Dante nelle proprie canzoni con tutt’altro intento (soprattutto politico e civile), starà dunque sì compiendo un atto estetico ma starà certamente ricordando anche quel primo e dirompente amore che l’avrebbe legato per sempre alla “donna angelo” per cui avrebbe composto i suoi canti.

SC: Ti vorrei invitare a spiegare per i nostri lettori il concetto di intersezione di cui parli diffusamente nell’ultimo capitolo del libro, visto che metodologicamente appare centrale e anche piuttosto articolato.

GP: Con piacere, cercherò di essere sintetico perché in effetti sul libro credo superi le venti pagine. Il concetto di intersezione è volto a descrivere la tangenza tra due mondi, quello della letteratura e quello della cosiddetta Popular Music, nello specifico il fenomeno attraverso il quale parolieri o musicisti dal Dopoguerra a oggi abbiano rifunzionalizzato opere di autori letterari secondo quattro possibili categorie che ho indicato a partire dai casi raccolti. Ho pensato di ordinare queste ultime in base all’intensità dei riferimenti letterari in: intersezione “di grado zero”, dove il richiamo è più debole o di mera esibizione colta; intersezione concettuale, dove in termini benjaminiani l’autore voglia dotare un’“immagine dialettica” dal passato di nuovi significati; intersezione intertestuale, dove sostanzialmente si verifica tra i due testi un intreccio di superfici, come ha scritto Julia Kristeva; intersezione integrale, più rara e audace, che ambisce quasi a riscrivere l’intera opera come ad esempio nel caso sperimentale di The Raven di Lou Reed, pubblicato nel 2003, che tenta di trascrivere in musica le parole di Edgar Allan Poe. Si badi bene, nessuna di queste è assimilabile alla cosiddetta musicazione di un testo letterario, che è ben altra pratica, o all’accompagnamento melico che è proprio dei reading o di molte performance, bensì a forme di citazione da parte di un paroliere di un’opera o di un autore letterario entro un proprio testo o una propria opera originale.

SC: In base a questo principio, è quindi per te possibile costituire un “canone alternativo della letteratura italiana”. Che tipo di canone sarebbe, che utilità potrebbe offrire e cosa ne può venir fuori ai fini dell’indagine critica?

GP: Dunque, sì, in coda al libro ho provato ad analizzare i dati offerti dai casi raccolti e ho realizzato un paio di grafici che in ordine cronologico spiegano visivamente quali autori dalla letteratura italiana e quante volte siano stati richiamati nei testi di parolieri angloamericani dagli anni Cinquanta ai nostri giorni. Quello che emerge è un canone del tutto iperbolico, alternativo rispetto al canone “ufficiale” che si studia nelle scuole o che si studierebbe negli esami istituzionali all’università. Basti dire che cronologicamente (è Bob Dylan ad inaugurare la rassegna alla metà degli anni Cinquanta) si comincia con Giacomo Casanova, Carlo Collodi e Galileo Galilei e si finisce con Tonino Guerra, un dialogo del quale, scritto per Tarkovskij, veniva posto in apertura del tour del concept album West Ryder Pauper Lunatic Asylum da parte della band britannica dei Kasabian. Attenzione, ho scritto “canone alternativo” e non “anticanone” proprio perché non esclude autori dal canone principale, si pensi ad esempio al fatto che a dominare ampiamente nel catalogo siano i riferimenti a Dante e a Pier Paolo Pasolini, tuttavia è innegabile una composizione sui generis e che soprattutto si realizza secondo un maggiore coefficiente di empatia nei confronti dell’opera letteraria piuttosto che su di un livello dotto o accademico. I veri artisti, insomma, dimostrano di dialogare con gli altri artisti liberamente, come desiderano e con percorsi imprevedibili che spaziano diacronicamente e sincronicamente, al contrario di tanta critica e tanto mondo editoriale che attua di fatto classifiche di serie a e serie b in questo senso.

SC: Insomma, secondo te Bob Dylan meritava il Nobel per la letteratura o sarebbe stato meglio crearne uno ad hoc per la musica o la canzone d’autore?

GP: Benché io sia un tenace estimatore di Dylan e creda fermamente, l’ho anche scritto da qualche parte, che quella di Dylan sia a tutti gli effetti scrittura letteraria, dopo tanti riferimenti “alti” mi permetto di citare Corrado Guzzanti: la seconda che hai detto. Sarebbe stato più giusto un nuovo premio ad hoc relativo al testo per musica. Tant’è vero che a tutti i detrattori del Nobel a Dylan che in questi anni mi hanno chiesto ironicamente “ma ai cantanti non basta già il Grammy?!”, ho risposto che i Grammy non hanno il premio per Best Lyrics o per i testi e che l’assegnazione riguarda in primis fattori di vendita e di successo economico. Questo è abbastanza sintomatico del fatto che il testo per musica rimanga a tutt’oggi uno strano e oscuro “oggetto del desiderio”, che ancora spaventa i plutocrati delle corporation musicali perché potenzialmente è quello che potrebbe scatenare l’engagement negli ascoltatori e al tempo stesso spaventa parte del mondo accademico-intellettuale perché sembrerebbe intaccare con la sua natura duplice una fantomatica purezza del testo letterario in senso stretto. Ancora non hanno capito che le sperimentazioni testuali del Rock, lo si comprende più che mai in questa fase di sua profonda crisi a vantaggio del becero Pop da classifica, della Trap o del Reggaeton, stavano sicuramente più dalla parte dell’arte e della poesia che dalla parte della superficie capitalistica che sembra sempre più governare il nostro tempo.

 

Giulio Carlo Pantalei è nato a Roma. Laureatosi in Italianistica all’Università di Roma Tre con una tesi su P. P. Pasolini, è oggi dottorando in Lettere nella stessa Università e Visiting PhD presso la University of Cambridge. Cantautore e musicista, oltre che ricercatore, è fondatore della band “Panta” e ha collaborato con artisti nazionali e internazionali tra cui Paolo e Carlo Verdone, Calexico + Iron & Wine, David Lynch Foundation, Capovilla, Canali e l’ong ONE di Bono Vox. La sua tesi, svolta tra Roma e Oxford, riguarda il rapporto tra la Letteratura Italiana e la musica angloamericana ed è stata pubblicata nel 2016 da Arcana col titolo di Poesia in forma di Rock.

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