Con l’opera Prima di nascere (Fazi 2022), Claudio Damiani vince il premio Viareggio Rèpaci per la Poesia. Nelle undici sezioni che compongono la silloge, il poeta rielabora la pre-cognizione ontologica dell’uomo su sé stesso, ponendo il quesito filosofico su cosa esista prima della nascita come paradigma interpretativo dell’impossibilità umana di conoscere la propria vera natura: “Quando ero piccolo, quattro o cinque anni,/mi immaginavo prima di nascere/come sospeso nel cielo” e, ancora “non capivo come potevo stare, così in alto nel cielo,/dove potevo poggiare i piedi”.

L’esperienza immersiva nella vita, nella sua dimensione empirica, in quella psicologica e in quella etica (una tridimensionalità imprescindibile anche se, forse, non totalizzante), assomiglia a una battaglia del soggetto pensante con la sua quotidianità. Una battaglia che si svolge sul campo del tempo: “È strano, io che ho sempre avuto paura/nelle situazioni di pericolo,/in battaglia non ho paura di niente,/taglio, ferisco, uccido/vado avanti come un leone”.
In questa singolar tenzone con la banalità del bene (che coincide pericolosamente con quella del male), l’uomo contemporaneo appronta una strategia di straniamento che si approssima a una apparente passività: una visione intera, possibile solo da lontano, consente di poter fare quel “salto nella comunità” necessario per mantenersi in vita, per riportare vitalità al caleidoscopio distorsivo dell’esistenza.

L’evento della nascita è l’accesso alla perpetua condizione di inconsapevolezza, è il trauma dello scontro tra l’origine e l’inafferrabilità del logos strutturale.

La memoria rimane un avamposto gnostico ma non è più irrinunciabile: si può appartenere alla specie anche senza radici nella terra o, almeno, così l’io poetante annuncia – adempiendo al suo compito proprio nell’atto di demistificarlo- attraverso versi provocatori, ispirati a una realtà ancora più distopica di quello che la coscienza comune può accettare.

Il tremore del lancio nel vuoto del trapezista, quel frangente di rinuncia all’equilibrio, “come dice Severino”, rappresenta la forma pre-linguistica di ogni dialogo tra enti distinti ma accomunati dalla stessa fragilità fondamentale.

La metafora. Trasportare il lettore (e sé stessi) da una dimensione gnoseologica e ontologica all’altra, attraverso l’immagine letteraria, la singola poesia o l’intera opera. Che ruolo ha la metafora nella tua poesia e nella poesia contemporanea?

Metafora e poesia sono legate fra loro come i fili del tappeto tibetano. Le cose non sono scollegate, arbitrarie, ma sono tutte collegate fra loro. Anche gli opposti, come diceva il grande Eraclito. Proprio per questo la poesia non è qualcosa di soggettivo, ma è un’indagine oggettiva della realtà, accanto alla scienza, alla filosofia, in quanto rivela i legami tra le cose, e in questo si illumina, e ci illumina.
Tuttavia, sono cosciente di aver sentito un eccesso di metafora in tanta poesia precedente a me, un eccesso che disperde le forze, e vanifica la poesia. È per questo che, seguendo un’idea latina e cinese di poesia descrittiva, ancorata alla terra, terra terra, ho ridotto quasi a zero l’uso della metafora.

Il citazionismo, a volte, in poesia è divisivo. Mi parli di questa scelta specifica che è, insieme, sia stilistica che concettuale ed ermeneutica?

Io non amo il citazionismo, Petrarca diceva che il poeta è come l’ape, che prende da tanti fiori ma poi fa un miele che è assolutamente nuovo, e non serba traccia dei fiori da cui ha tratto origine. La citazione, quando c’è, può esser sentita, seppur nascosta, ma anche se non sentita non deve aggiungere niente. Così come un testo in endecasillabi può e deve esser goduto anche a chi non conosce l’endecasillabo. Così come posso amare Bach e Mozart senza conoscere armonia e contrappunto.
L’arte, come la natura, pesca da un calderone infinito ma è sempre nuova ogni volta. E’ sempre nuova, e nello stesso tempo sempre antica.

Qual è la fine operazione linguistica che ha condotto i tuoi versi a porre in un linguaggio piano e colloquiale la riflessione filosofica?

Mi sono mosso fin dall’inizio nella lingua italiana, andando, anzi trovandomi, naturalmente, d’istinto, alle sue fonti. La sentivo, nel nostro tempo, abbandonata, ma non era per una rivalsa o per una pietas o per desiderio di giustizia che entravo dentro di lei, e dimoravo a lei accanto, come vicino a un rivo, ma per una mia necessità, come è necessaria l’acqua, l’aria. Quel linguaggio piano non è tanto un mio, ma un suo modo (della lingua) di essere. E anche la colloquialità, credo.
Per quanto riguarda la “riflessione filosofica”, penso che nella poesia ci sia pensiero sempre (e i filosofi sanno estrarlo, pensiamo a Confucio o a Heidegger), ma è un pensiero che assomiglia più ai perché dei bambini.

Il tu letterario, referente dell’io narrante, rappresenta una pluralità, un essente collettivo autonomo di cui l’io si sente – e non si sente – parte. Come si costituisce la progressiva identificazione letteraria ed etica dell’io con il tu?

L’io e il tu li sento parti uguali della comunità, della lingua. Ho una tendenza dialogica in cui io sono in tutti gli attori e in nessuno. Anche quando dico “io” sento che è una parte che prendo, che c’è dietro un io più profondo che non parla, ma è ciò che fa parlare.

“Perché non è vero che prima di nascere non c’eri”. Lo stesso ragionamento vale anche per la creazione poetica?

Penso di sì, la creazione poetica è già in qualche modo in quel calderone di cui parlavo, è già nella lingua in cui è scritta, si tratta solo di farla venir fuori, come nel parto.

«Quando tu lasci, ti lasci portare via
come ti lasciasti portare
quando nascesti, senti che continua la vita,
per questo l’appartenenza è importante
a una terra a una famiglia a una lingua
perché sentiamo che la nostra gente
continuerà la sua storia».
«Sì ma anche se l’appartenenza non ci fosse,
se fossimo degli apolidi, degli eremiti,
dei mendicanti vaganti, senza memoria e storia
lo stesso apparterremmo alla specie,
alla comunità degli uomini e dei viventi.
Anche quando ci allontaneremo dalla terra
anche quando convivremo con le macchine
e le macchine diventeranno vive
come vivi siamo noi, forse macchine
di qualcun altro che ci ha fatto,
anche allora morire vorrà dire
fare un salto nella comunità
lasciare quel corpo a cui ci eravamo attaccati
e quel tempo, e saltare nella vastità
del futuro, e vedere forse anche il passato
caro, di cui soltanto avevamo veduto i resti
e vaghe tracce, ma che ora vediamo
tutto intero, come veramente è stato».

*

L’essere è, e tu sei con lui.
Sei tutt’uno con il cielo, con la terra, le piante,
sei tutt’uno con le macchine anche
e coi neutrini spersi nell’etere,
sei tutt’uno con gli altri uomini anche,
anche con i peggiori nemici,
sei tutt’uno con quelli che odi,
in verità li ami, e non lo sai.
Guarda il cielo come si china sopra di te
e ti accarezza. Guarda l’aria
come ti bacia le guance
e le donne più belle, guarda come ti desiderano
senza saperlo, ognuna di loro
ti vorrebbe sposare e baciare per tutto il tempo
della sua vita e stare sempre con te.

*

Dal mio terrazzo guardo l’universo.
Questa vita che ho finirà tra poco
e l’universo continuerà
nel suo lungo cammino,
(ma sarà diverso,
di un valore piccolo quanto vuoi
ma sarà diverso),
e anche la tua vita finirà,
i tuoi occhi luminosi
cesseranno di brillare
ma ciò che è stato tra noi
niente morirà, tu lo sai,
tutto lascia una traccia indelebile,
niente è possibile cancellare.
Non ci sarà più questo non sapere
cosa succederà fra un istante,
questo navigare nel tempo,
tutti marinai provetti
con le divise impeccabili
nonostante l’acqua dappertutto,
la nave rotta, sempre sul punto di affondare.
Non scruteremo l’orizzonte col cannocchiale
ogni momento, non saliremo sull’albero
per cercare una lontana terra, sfidando la tempesta.
Ma non ci sarà neanche più questo continuo scivolare
e dover restare sempre in equilibrio.
E questo scrivere, continuamente scrivere
senza potersi mai fermare.
O avremo forse nostalgia
di questo nostro navigare senza meta
senza bussola e senza timone,
di questo nostro lasciarci andare
alla corrente, sperando solo nel Signore?

*

Il mistero è così fitto
e noi così fragili
che non ci sono speranze
o meglio, possono esserci solo speranze,
la speranza è la nostra scienza.

Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo.
Ha pubblicato diversi libri di poesia tra cui Eroi (2000, Premio Montale), Attorno al fuoco (2006, Premio Luzi), Sognando Li Po (2008, Premio Lerici-Pea), Endimione (2019, Premio Carducci). Suoi testi sono stati interpretati da Piera Degli Esposti, Nanni Moretti, Roberto Herlitzka e altri. Con Fazi Editore ha pubblicato le raccolte Poesie (2010), Il fico sulla fortezza (2012), Cieli celesti (2016) e Prima di nascere (2022).

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