Fotografia di Dino Ignani

Linea intera, linea spezzata (Mondadori 2021) porta a compimento un cambio di passo all’interno dell’opera poetica di De Angelis e rivela, tra elementi di cesura e continuità con le raccolte precedenti, una vena poetica inesausta. L’ispirazione degli inizi non risulta tradita e coincide ancora con il senso del fare poesia: “dare alla notte / la sua dizione più precisa”, come si legge nella poesia Bowling dei fiori; in continuità con quanto veniva teorizzato in Poesia e destino (1982).
Sembra però mutato, in questa nuova raccolta, il significato di questa precisione e quindi il modo di rendere sulla pagina l’esattezza del dettato poetico: esattezza ottenuta per sottrazione nei versi scavati ed essenziali delle paradigmatiche raccolte giovanili (si pensi a Millimetri, 1983); esattezza raggiunta invece per addizione nella nuova raccolta, i cui versi non temono di espandersi, inglobando ripetizioni, discorsi diretti, date, luoghi, nomi propri (tra cui quello dell’autore) e, persino, modelli di automobili. Si tratta beninteso di un’addizione calibrata, rigorosa, perfettamente gestita sulla pagina, dove persino le ripetizioni (anadiplosi) rivendicano la propria urgenza.
Nel mezzo di queste due stagioni, stanno le raccolte pubblicate a partire da Biografia Sommaria (1999), che già conteneva, in una poesia divenuta celebre, i versi programmatici: “Interrompiamo l’antologia / e la supplica del batticuore. Riportiamo esattamente / i fatti e le parole”. Versi che sembrano rievocati anche nel nuovo libro: “Arrestiamo, per un attimo, la corsa / ritmata di questa maratona / guardiamo il foglietto del calendario / con i gatti, in cucina. E poi ricordiamo / con precisione la scena” (Exodos); o ancora: “Ricordiamo, ricordiamo esattamente” (Terza tappa del viaggio notturno).
Ma il cambio di passo tra una prima, una seconda e una terza stagione del percorso significa anche, per De Angelis, ritornare sui propri passi. Compaiono infatti, in Linea intera, linea spezzata, personaggi già noti ai lettori delle precedenti raccolte, qui chiaramente identificati: Luigi (Tenco), Cesare Pavese, gli antenati della Belle Epoque, il professor Lucio Bini (figura di collegamento tra la poesia T.E.C. e quella titolata E.C.T. di Distante un padre). C’è poi una teoria di presenze femminili smarrite nel tempo, rimaste eternamente giovani (Lauretta, Giada, Stefanella, Federica) e, tra queste, ricompare la ragazza “ritrovata” di un’enigmatica poesia di Somiglianze (1976), forse ispirata ai Colloqui di Guido Gozzano, qui evocata come una “fanciulla di un’altra età”, smarrita nelle sale dei “cinema sperduti”. E poi, accanto ai personaggi, ritorna anche Milano nella sua esattezza topografica: viale Majno, via Porpora, via Cadamosto, il Parco delle Cave, il centro Schuster, la Piscina Scarioni, la stazione di Lampugnano, il cinema Ducale ecc… Ma l’ambientazione della raccolta non è interamente urbana e, accanto a paesaggi e toponimi monferrini (Castagnoni, Ricaldone), al fiume Scrivia e alle risaie di Trino, compaiono ippocastani, pioppeti e canoe sul lago. Si presti attenzione anche al panno verde del tavolo da biliardo che evoca “un prato dell’infanzia” o, ancora, alla sequenza di grattacieli che somiglia a “una barriera corallina”, tra le più belle, ardite e affascinanti analogie mai istituite, all’apparenza lontane da quanto il poeta formulava, come severissimo diktat, in Distante un padre (1989): “contro l’istinto dell’arcobaleno / schifo sii netto”.
Una metrica ampia e duttile, come sottolinea anche la nota di copertina, racchiude questa sovrabbondanza di epifanie in versi molto eterogeni, in cui memoria e visione sono strettamente legate. Assume la fisionomia del ritorno da un passato lontano, che sembrava perduto, come ne Il posto delle fragole di Bergman, questo orizzonte metatemporale, che è propriamente quello della poesia, cioè di una parola “prossima al nulla” (nell’omaggio a Gottfried Benn), ma che può essere anche “trasalimento di rime contro il nulla” (nel componimento dedicato a Bigongiari). La parola della poesia, che è antitesi e prossimità al nulla, è dichiarata, in una chiusa vibrante che rievoca l’intransigenza anticonfessionale di alcune poesie di Somiglianze (1976), come l’unico credo a cui rimanere fedeli: “noi resteremo fedeli a questo bar, / destinati entrambi al niente, al grande niente / che ci dona visione”.
Le figure che appaiono in questi versi fanno spesso riferimento a vicende drammatiche e sono colte nella loro intima fragilità, attraversate da un profondo senso della perdita e dello smarrimento, altre volte invece hanno l’impassibilità degli oracoli o degli eroi. In ogni caso, queste struggenti rievocazioni non si tramutano mai in biografismo e neppure in elegia, come definitivamente dimostra l’ultima feroce e impressionante sezione del libro, con la sua galleria di suicidi rituali, intitolata Aurora con rasoio (forse con riferimento a Nietzsche?). Uno dei temi ricorrenti nell’intera opera di De Angelis, quello del suicidio, raggiunge qui un’inedita nitidezza espressiva e si sviluppa in tutto il suo dramma, senza reticenze. La morte, che nel corso della raccolta assumeva i nomi di un destino sinistro e ineludibile che minaccia la “linea” dell’esistenza (“ultima volta”, “bianco precipizio”, “notte che ti scruta e ti attende”), viene invece declinata in quest’ultima sezione nei termini di una decisione estrema e categorica, di un definitivo impeto vitalistico, a volte eroico e formidabile, altre volte accompagnato da un proliferare di parole, annunci e riflessioni, sostenute da una dialettica febbrile che ricorda il Kirillov di Dostoevskij o la “goffa bruttura indescrivibile” di una poesia di Somiglianze. Riprendendo Blanchot, si potrebbe dire che uccidersi significa, paradossalmente, non accettare di consegnarsi definitivamente alla morte, in una disperata affermazione di vita che risuona con squillante precisione in Exodos (II), poesia che rimarrà impressa nella memoria del lettore, o nel verso finale de L’ora inestesa, titolo da interpretare probabilmente come attimo finale e assoluto, “linea spezzata”, oramai fuori dal tempo: “costringeremo il nulla a svelarsi”.

SALA VENEZIA

Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,
la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia
che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura.
Senti i tuoi passi in migrazione,
vuoi rallentare, hai paura
e allora entri in questa sala di via Cadamosto,
saluti gli ultimi giocatori di biliardo,
pronunci lentamente un commento preciso sulle sponde
o sull’angolo di entrata, fai una piccola scommessa
e sorridi e ti acquieta il panno verde
come un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi
di legno che ora contengono il tuo evento
e la forza centripeta conduce l’universo
in un solo punto illuminato.

 

DAL BALCONE

Dal balcone dell’ultimo piano ora guardi
la città notturna, l’infilata dei grattacieli che sembrano
una barriera corallina e intorno i vecchi palazzi
con i tetti impolverati, le chiese romaniche, le colonne,
un concilio segreto di secoli che si parlano sottovoce,
sussurrano al tempo di fermarsi e diventano
la scorza staccata dal suo tronco, ciò che resta
dell’infinita moltitudine in cui sei immerso anche tu,
e guardi lì sotto il bar aperto, l’uomo con l’impermeabile
mentre racconta una storia sempre uguale
alla ragazza vestita di rosso che beve
dallo stesso bicchiere e sorride lievemente.

 

Milo De Angelis (Milano 1951) ha esordito con Somiglianze (Guanda 1976), seguito da Millimetri (Einaudi 1983; Il Saggiatore 2013). I successivi Terra del viso (1985), Distante un padre (1989), Biografia sommaria (1999), Tema dell’addio (2005, premio Viareggio), Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010), Incontri e agguati (2015) sono tutti editi da Mondadori, come il riassuntivo Poesie (2008). È anche autore di un’opera narrativa, La corsa dei mantelli (Guanda 1979; Marcos y Marcos 2011), e della raccolta di saggi Poesia e destino (Cappelli 1982). Le sue interviste sono raccolte in La parola data, con DVD di Viviana Nicodemo (Mimesis 2017).

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