Tra gli indicatori del livello di consapevolezza sotteso a un’opera letteraria, possiamo annoverare la presenza di un impianto architettonico solido, dotato di un suo rigore intrinseco. Se è così, la poesia di Alessio Paiano in Punti di fuga (Arcipelago itaca 2021) rivela un’abilità nella costruzione che denota una acquisita maturità. Ciò si realizza in un inesausto dialogo, condotto con modalità squisitamente personali, con i grandi pilastri dell’ars poetica, da Lucrezio a Giorgio Caproni. Già la suddivisione – termine non del tutto appropriato, dato che non vi è alcuna effettiva demarcazione tra le varie parti – della raccolta in sette sezioni sembra volerci dire qualcosa: il sette è un numero dai rimandi simbolici significativi, sinonimo di globalità e compiutezza. Non è un caso, forse, per un’opera che, tra lacerazioni e dicotomie, evidenzia una sostanziale unità interna.
Il percorso del protagonista inizia a Venezia, dove l’obiettivo sui mosaici della Basilica di San Marco apre squarci di visioni oniriche oltre i confini spazio-temporali, e l’Apocalisse di Giovanni segnala il punto limite di una possibile palingenesi. Il cuore della visione ci conduce nel bel mezzo delle Crociate, storico emblema di un’alterità reputata male supremo. E il paesaggio mediterraneo con la sua vegetazione di vigneti, ulivi, fichi, è lì ad esemplificare la distruzione.
Spiccano, nel testo, ricorrenze di rilievo, che vengono ad assumere una valenza anaforica rispetto all’insieme: il vuoto, lo zero, la pasta molle, e, naturalmente, il fiume. Il fiume è, sul piano letterale, di volta in volta il Guadalquivir, il Po, il salentino Hydrus, come pure il flusso virtuale dei social. In senso figurato, è in una relazione di identità con la parola/verso; parola, dunque, ma anche, metonimicamente, spazio fisico che la ospita, il che spiega come l’enunciato poetico non disdegni di assumere sembianza di prosa, dispiegandosi per tratti più o meno lunghi. Se, da un alto, la parola è portatrice di senso nella vita che precipita, dall’altro il suono articolato, l’atto del nominare, si configura per antitesi come distruzione. Così navigare è naufragare e perdersi, andare alla deriva, ritrovare un’identità, liquida e cangiante, nella dispersione.
Nella sezione Periferie il fiume scorre tra gli ingranaggi degli automatismi, ricalcandone forme e grafemi. «I corpi che ammassati sullo schermo/riproducono gesti ossessivi» compongono l’ossimoro di una non materia dalla corporeità voluminosa, non certo scevra di alienazione. La metafora periferia-social è estremamente interessante, concretandosi nel luogo storicamente abitato dalla degradazione dell’umano a macchinario. Ma è la parte finale del libro, La natura del dolore, a svelarci con grande coerenza la portata metaforica di questa idrografia: qui la sostanza fluida e molle è il segno grafico che, caricandosi di senso, diviene grafema. Così il nome composto «versofiume» rivela in via definitiva che è il dipanarsi dei versi ad essere fiume: il fiume è l’opera stessa. Del resto, per dirla con Eliot, «Il fiume è dentro di noi». Ciò indica non solo il sostrato mitico-archetipico, ma anche il processo psichico che si trova a coincidere con la memoria.
La memoria: ecco un’altra ricorrenza della raccolta, soprattutto a partire da Punto di fuga. In questa sezione si tenta un colloquio con il Caproni di Res amissa, in reiterate emersioni di nostalgia verso una cosa indecifrata, smarrita più volte tra le pieghe del tempo, in un mondo in cui l’individuo soggetto resta ugualmente inconoscibile. Più che – oppure, prima che -assumere un valore memoriale, l’opera di Paiano è una recherche intorno agli ingranaggi della memoria. La «memoria-discarica», unitamente alla dicotomia accumulo/perdita, mi porta alla mente l’idea batailliana di dispendio, che implica un sacrificio del sapere, la dissoluzione della conoscenza. Né si può prescindere dalla più o meno tacita onnipresenza di Carmelo Bene e dalla sua “rivoluzione copernicana” per cui la lettura è dimenticanza, oblio, non ricordo.
La cosa dimenticata fa tanto sentire la sua presenza – solo qualche fugace tassello saltuariamente riaffiora – da instillare il sospetto che dietro ogni fiume menzionato si celi il mitico Lete, le cui acque procuravano dimenticanza. In Hydrus il dialetto del Salento è una lingua che parla, per l’appunto, di cose dimenticate, di una terra di abbandoni, correlativo costante della mente vuota di ricordi. In questo modo si capovolge il cliché che vorrebbe il dialetto depositario privilegiato di tradizione, passato, memoria. Ma ecco che, quando pensiamo di aver capito, l’io lirico ci spiazza: «E ora voglio gettare via tutto/ tutto questo scorrere rimbambito dell’acqua/ sapere perché ho scritto di cose dimenticate/ e non è vero, non è vero che le ho dimenticate/ sta tutto in testa e non se ne va/ e voglio solo che spariscano le cose/ che se le porti il vento, ma loro lì stanno/ avvinghiate nella memoria;».
Questa riflessione ci accompagna sino al tentativo finale di riscrittura del poema lucreziano De rerum natura, sezione che, attraverso il raziocinio estremo di una poesia/prosa filosofica, rapporta i vuoti della memoria ad un irrisolto votato a tornare sotto forma di destino. L’etimologia lo disvela come “non sciolto”; in un rapporto dicotomico, sembrerebbe, con quella sostanza molle che è il fiume, l’identità, il tempo. Così, nella logica spiazzante del paradosso, pare di scorgere la portata prolifica del vuoto; e, nel miraggio di un approdo del viaggio tra carovane e piazze, tra ponti e terreni arsi dal sole, le eterne fluttuazioni del dono perduto, sommerso dalle correnti.

da Punti di fuga (Arcipelago itaca 2021)

Alzavamo lo sguardo su quel sole sempre alto sulle mura:
la luce che bruciava la terra tracciava gli antichi lineamenti,
il fiume era un vecchio stanco che dormiva sotto la grande palma.

Seduti in uno squallido locale ascoltavo la tua lingua
che non riuscivo a capire, la città mi guardava con tristezza,
era un teatrino di gente presto arrotolato e messo via.

Ce ne andavamo al tramonto con il sole conficcato sulla spalla
e un’anima scheggiata disperdevamo tra i vicoli.

*

Infine abbiamo attraversato i confini della memoria
riavvolgendo l’antica rotta sul filo dell’acqua.

E quanto mi è costato abbandonare le rive del volto,
attraversare le coste e le cunette dei fianchi in discesa,
affondare nel fondale spigoloso delle cose dimenticate:

riemergiamo a pezzi, inconoscibili,
il mondo che ci conteneva è adesso un pianeta
lontanissimo. Una luce ci afferra e ci porta dentro.

*

Ca se nui poi cercamu na via
na via se trova sempre
a menzu st’arburi risciuncati
ca ne guardane senza capu

E se iddhri ane persa la capu
no sapimu cce ne resta,
no sapimu aru sciamu
lu sule ne face scurdare le cose

Caminamu cu li pedi scasciati
girannu a menzu ste quattru case
parimu tanti musci senza posu
ca fannu ca vannu e no vannu aveddhri

Perché se poi noi cerchiamo una strada/ una strada si trova sempre/ tra questi alberi appassiti/ che ci guardano senza testa// E se loro hanno perso la testa/ non sappiamo che ci resta/ non sappiamo dove andiamo/ il sole ci fa dimenticare le cose// Camminiamo coi piedi a pezzi/girando fra queste quattro case/ sembriamo tanti gatti senza riposo/ che fanno finta di andare e non vanno da nessuna parte.

 

Alessio Paiano è nato a Pavia nel 1992 ma è cresciuto a Lecce. Si è laureato in Lettere Moderne presso l’Università del Salento. È segretario generale del Centro Studi Phoné, nato per lo studio e la diffusione dell’opera di Carmelo Bene. Suoi contributi sulla poesia contemporanea appaiono su vari litblog e riviste ed è tra i redattori di “Poesia del Nostro Tempo”. Nel 2019 ha pubblicato il poema L’estate di Gaia (Musicaos Editore). Punti di fuga (Arcipelago itaca 2021) è tra le opere vincitrici della 27^ edizione del premio “Ossi di Seppia” per la poesia inedita ed è nella terzina del Premio “Lucini” 2020. Attualmente vive a Torino, dove svolge il mestiere di docente presso le scuole.

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