Dall’introduzione di Gianfranco Lauretano

La vita è lotta, ma anche possibilità di trasformare la lotta in vittoria. Da qui il titolo del libro, Tropaion. In parte, la vittoria consiste già nella capacità di rivolgere uno sguardo diverso alle cose. Nel brano lucreziano del De rerum natura citato all’inizio, ci viene detto che, vista dall’alto, una battaglia potrebbe assumere l’aspetto della stasi e, insieme, del fulgore. Si tratta, secondo l’autrice, di fissare nello sguardo ciò che fisso non è, di dare eternità al movimento, metamorfosi per eccellenza. Questo pur sapendo che è «Difficile disporsi/ all’eternità». Le “cose” osservate sono guardate partendo da un “tempo” preciso, che è anche un tempo interiore. In Tropaion, aleggia spesso il senso del passato. Qualcosa è successo prima e il presente serve a rivederlo (come quando si scruta, appunto, una battaglia dall’alto), a emendarlo, a rimediare: «Ma oggi finalmente/non sei dove io sono:/è tempo di condono/e il chiavistello è tolto». La differenza di stato tra un tempo e l’altro, ciò che è cambiato tra il prima e l’adesso e ciò che ancora può mutare, è la frattura di conoscenza che la poesia ama attraversare: «La memoria/ ci guida fino all’alba/ poi rallenta./ Il tempo degli eventi/ la distanzia.// E la sua narrazione/ è un desiderio/ a cui si torna/ senza mai arrivare// come mai si arriva/ a un luogo dell’infanzia».

Dalla postfazione di Sonia Caporossi

Tra le diverse accezioni in cui si può intendere la battaglia che origina il tropaion, quella relativa alla metafora dell’amante miles è già classica. Viene subito in mente Ovidio con il suo «Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido». Ogni amante è un soldato, secondo il vecchio adagio: ma non solo. Se ogni amante è un miles, gli amanti possono vincere o perdere una battaglia o la guerra d’amore intera; gli innamorati, in definitiva, possono essere anche pensati come vittime di guerra, schiavi o trofei essi stessi, secondo il topos grecolatino di cui sopra; basti pensare ancora al poeta di Sulmona che altrove quasi si scusa di non riuscire a scrivere poesia epica, poco adatta alle sue corde: «Arma gravi numero violentaque bella parabam /edere…»3, eppure, sopraggiunge sul più bello Cupido, il quale, si badi bene, altri non è che un arciere, ovvero, nemmeno a farlo apposta, anch’egli un giovane guerriero: «questus eram, pharetra cum protinus ille soluta / legit in exitium spicula facta meum…» […]

Da Tropaion (Puntoacapo 2020)

La ferita

Nel ripulirle i bordi
aspetteremo
che a forza di guardarla
riveli un tratto familiare

e che al mattino
il male si raccolga
come vegliando
un cadavere supino, forestiero
con indosso l’uniforme del nemico
tra le spighe scure, chine
accanto al fosso.

*

La vita parla

Ogni notte ti asciugo la fronte.
Raccolgo di te
quello che si era sparso.
Ma tu non volermi
diversa.

Stringi forte il mio corpo di ore
lungo il recinto di edera e mirto.

Su me spunta fedele
anche colei che credi mi sia ostile

e invece è solo morte.

*

Mise an abîme

Se ogni ricordo
si specchia in un ricordo
come può il tempo
uscire da se stesso?
Vedo il mio occhio:
vorrebbe farsi mondo.
Ma il desiderio
ancora non si sporge
resta nel fondo
di una discesa interna
al suo cadere.
Credevo fossi un’altra
˗ diversi la frattura
il brivido l’abbraccio
diverso anche l’errore.
Eppure la distanza
è immaginaria
è prigioniera
di questa coincidenza
di frattali.
Uguale mentre cambia
il suo riflesso
mi chiama, si getta
nell’abisso.

*

Le nostre ombre
ci camminano davanti
ci chiamano a riempirle con lo sguardo
fino al giorno
della coincidenza
tra il viaggio e il loro fuoco interno.

Altri le spingeranno al largo
credendole lanterne
sposate al riflesso che le accresce
se da sotto, convesso, le consuma.

*

Tornerà la Vita
senza mappature
come arrivano gli uccelli migratori.
Ci troverà d’istinto, chiusi
nell’incoscienza della morte
e muti.
Non varrà ragione, né perdono.
Per prima cosa
il suo calore, come di corpo.
E dopo, ancora.

*

Dall’alto del colle

Il tonfo
dei disarcionati
lo schianto dei vessilli
il cozzo di corazze
tra il crepitio degli elmi
è questo, appena:
un tremito di terra sotto i palmi.

Da qui
null’altro si distingue
che un fiacco balenio.

Tra il fondo della valle
e la ventosa cima del pendio
quale distanza?
Non si misura in ore
di cammino o in dislivelli
ma in una sola cosa:

la vista
non teme più lo spazio

e coglie all’improvviso
il senso della luce:
la mano si disserra
˗ in punta al giavellotto
un nuovo inizio, un lancio
che mi scaglia.

Mi tendo e vibro (sospesa
felice traiettoria di un pensiero)
e non atterro.

Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, vive a Roma, dove lavora come traduttrice, dopo aver trascorso dieci anni in vari paesi europei. Laureata in lingue e politiche europee all’Università di Grenoble, si è poi specializzata presso la Scuola di Interpreti e Traduttori di Ginevra. In seguito, ha conseguito un Diploma in Scienze Religiose e un Master in Beni Culturali della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel campo dell’iconografia, ha pubblicato Face of Faith. A Short Guide to Early Christian Images (2011). È autrice di vari libri di poesia. Tra gli ultimi: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015); Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017); L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018); Midbar (Raffaelli Editore, 2019), Silenzio e Tempesta (Marco Saya Edizioni), traduzione di poesie d’amore di Rainer Maria Rilke, Tropaion (Puntoacapo Editrice). Di prossima pubblicazione A grandezza naturale (2008-2018) (Arcipelago Itaca).

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