Nessun conto torna. L’approssimazione si insinua nel tessuto del reale e delle parole come nebbia, attraverso la confusione di errori o refusi. René Corona (poeta, saggista, traduttore, docente di Lingua e traduzioni francese presso l’Università di Messina) sa accoglierla e farla diventare poeticamente il segno della condizione umana.
La raccolta La conta imprecisa (Puntoacapo 2019) è un movimento scandito in quattro parti: Piccole indecisioni ultime, dove sprofonda il “tempo di pensieri stanchi”; La conta, che dismette ogni tentativo di precisione; L’ultimo Talvà, che armonizza l’italiano col dialetto veneto; Ultimo avviso ai naviganti, dove torna la parola “ultimo” che, collegando inizio e fine, dona alla struttura un senso di circolarità.
L’imprecisione è una vaghezza della luce che nasconde le cose invece di stagliarle nette sulla scena del mondo; è un “lume” che si lascia appena intravedere mentre si muta nel suo contrario. Le indecisioni (come suggerisce già il titolo della prima sezione) sono situazioni e parole di confine (“sul filo della luce”, “sfuggevole”, “foschia”, “occaso”, “intravedere”), in bilico tra “dire e non dire”, giorno e notte, luce e buio quando tutto si muove sommesso mormorando piano. Stanno nella levità di un “fruscio”, nelle atmosfere crepuscolari o autunnali, ma anche nei “tentativi di descrizione variegati”, titolo di una poesia (vita moderna domenicale: tentativi di descrizione variegata) che ripercorre per due volte lo stesso quadro di un’alba domenicale di “pace tradita”, ferita dalla volgarità, dalla “aggressività vana”. Stanno nello sbadiglio de “il cane e il lupo francofoni”, nei ritorni (titolo di una poesia della prima parte) delle cose e delle parole in altre forme, sonore e poetiche soprattutto.
Sull’orizzonte di “rocce millenarie”, che resistono in un’ostinata volontà di esserci oppure si sfaldano in prossimità del mare, domina il senso del tempo, delle stagioni e delle età passate. La conta dei giorni si trascina con un bagaglio di ricordi sempre più ampio e pesante. Si delinea il rapporto dell’uomo col tempo nella sua dimensione storica e nella sua finitezza: “in un’eterna armonia / si guarda scorrere il tempo”.
Le pietre, prima di diventare pulviscolo o detriti (parola insistita), conservano le tracce delle innumerevoli mani che le hanno toccate. Tra la solidità delle rocce e la fluidità del mare c’è un punto di convergenza: l’io lirico che osserva attraverso i sensi e la mente.
La conta, che risuona nelle poesie con il ritmo di “uno due tre, un deux trois, un doi trei”, oscilla tra la serietà del gioco e i “ghiribizzi danzanti” del destino: è “quella del nascondino” che ti lascia solo fino a sera a “non cercare”; è quella inesorabile delle Parche (“forse toccherà a te”) che filano e recidono la vita. E in questa oscillazione è anche la cifra stilistica autentica di Corona, pronto a raffreddare un eccesso di serietà dei temi o la malinconia di una “musa neghittosa” con il guizzo dell’ironia che diventa spesso autoironia: “coronacoroncina” è l’altro sé stesso richiamato in una caustica reificazione (“ti lasci andare / coronacoroncina / cosa avresti voluto allora sotto sotto / i violini?”).
Nella raccolta sono due le sfere percettive e semantiche prevalenti: la vista e il suono. Un’inversione tra i due sensi, e i significati cui rimandano, fa sì che anche gli uccelli, creature legate al suono e al volo, siano in molti testi impastati di sguardi e siano associati all’osservazione e alla vista. Le rondini ballano sul mare una danza sentimentale, il gabbiano sullo scoglio sogna, il fanello sta “sul filo della luce”, l’upupa “saltellava […] guardandomi” e il merlo “mi sorvegliava”.
Solo quando il mondo tace, quando le “inutili stragi” si fermano, nel buio della notte o nei primi chiarori dell’alba, è possibile ritrovare i suoni, ascoltare il canto dell’allodola mattutina, scandire “una sola parola” con dolce lentezza, accarezzare con i versi le “tre lingue amate” aggiungendo ad esse una quarta, quella della poesia: “hai dovuto cercare una quarta lingua / per poter dire a te stesso / l’intimità del tuo intravedere / traducibile o meno / la chiami lingua poetica”.
L’art poétique, allora, sarà stare dentro l’esistente, nei detriti, nei paesaggi; ricavare dallo sfrigolio (“sfruculiare” dice il poeta) delle alghe attorcigliate “la lettera semanticamente magica”; “buttare il sovrappiù / conservare alcune metafore / sollecitare la grammatica per dare una forma / alle frasi marine […]”. La poesia scorge nel reale i ritmi, articola in suoni le cose, le traduce e, insieme, le inventa.
Il piacere della parola e del ritmo è soprattutto in rime, assonanze, allitterazioni, paronomasie, ripetizioni che si rincorrono e si specchiano facendosi eco (“accanto all’acanto / un catone gattone accattone”, ad esempio, l’autore scrive in echi / specchi), in un gioco sapiente e dolente che sposta i piani della realtà fino al sogno. L’ampiezza del linguaggio (come ci avverte Alessandro Quattrone nella sua prefazione) mescola parole colte e quotidiane, risalendo la corrente della nostra storia letteraria fino a termini provenzali (come senhal) e scendendo fino ai ritornelli e alle cantilene del dialetto veneto, alla sua “estasi malinconica”. Nella stessa poesia un amalgama può tenere insieme più registri, più linguaggi in una prospettiva plurilinguistica. In socchiusa, ultima poesia della raccolta, espressioni francesi e venete si incuneano nel tessuto fonico e semantico dell’italiano per sostanziare una sorta di poetica dell’errore in cui ogni significato può sonoramente e vertiginosamente slittare in altro.
La fitta rete di citazioni e dediche rinvia, infine, a un modo di intendere la poesia come un’amicizia costruita nell’intimità della conversazione. Un dialogo che si intesse a distanza temporale con gli autori amati: tra gli altri, Gesualdo Bufalino, che fa visita all’alba nei sogni, o gozzanoguido con cui bere un caffè al bar sotto i portici. Gozzano, nella distrazione del passaggio di “una signorina elegante”, diventa il Guido della lirica dantesca, Guido, io vorrei, già precedentemente richiamata dal titolo “incantamento” e, successivamente ripresa dalla trascrizione dei due versi di chiusura: “e ciascuna di lor fosse contenta, / sì come i’ credo che saremmo noi.” L’atmosfera di incanto ferma il sorriso e lo sguardo, si traduce nel desiderio di restare per sempre a “ragionar d’amore” al riparo dalle avversità.
Il colloquio si compie anche con i contemporanei, spesso destinatari delle liriche, per ricostruire dalle fondamenta una comunità poetica.
La poesia riflette la vita: “una miscellanea di sentimenti e incontri / qualche volta mai avvenuti / qualche volta perfetti.”
La letteratura può essere ancora un’ars vivendi perché la vita respira nei versi.

 

da La conta imprecisa (Puntoacapo 2019)

 

fruscio

il fanello sul filo della luce
fischietta nella foschia in fretta e furia
nello sfuggevole ultimo raggio di luce
pallido
prima che il giorno parta in vacanza

vola via il fanello portando con sé
le prime parole ebbre della notte

 

incrinature

sballottato dalle tre lingue
e dagli scrosci dello scirocco
grigio rossastro
ti senti come un
Raimbaud de Vaqueiras sbattuto
da un paese all’altro
ma senza senhal da ricercare

hai dovuto cercare una quarta lingua
per poter dire a te stesso
l’intimità del tuo intravedere
traducibile o meno
la chiami lingua poetica
e ti aiuta ad affrontare
le insidie degli adulti
e gli inganni del destino

 

occhio bello

a volte pensi
che la conta sia quella del nascondino
se ne vanno via tutti
e rimani da solo
accanto all’altalena
fino alla sera
rimani
a non cercare

altre volte pensi
che sia quella che fanno le tre Parche
e che presto
forse toccherà a te

intanto entri nel girotondo
ci caschi sempre
e quando casca il mondo
malgrado tutto
casca senza di te
perché sei già
per terra e mari
amari

 

René Corona (Parigi, 1952) è docente di Lingua e Traduzione Francese presso l’Università di Messina. Ha pubblicato saggi in italiano e francese sulla storia della lingua, la sinonimia, la canzone, la traduzione e la poetica. Ha tradotto diversi poeti italiani, tra cui Gozzano, Caproni, Cattafi, Ripellino, Magrelli; ha pubblicato presso L’Amourier la prima traduzione francese delle poesie di Gesualdo Bufalino, Le miel amere la prima traduzione italiana del romanzo di Henri Calet L’Italia «alla pigra»(Mesogea 2011). Tra le opere più recenti in francese, i saggi Le singulier pluriel ou «Icare et les élégiaques» (Hermann 2016), Passage du temps et des courants. L’imagination ô savoir! (Aga-L’Harmattan 2019); due romanzi, Faut pas faire de faux pas (La Vie du Rail 2003) e L’hébétude des tendres (Finitude 2012), e le sillogi poetiche L’échancrure du quotidien (L’Harmattan 2017), Sortilèges de laretenue sous le bleu indigo de la pluie (Aga-L’Harmattan 2019), Croquer le marmot sous l’orme (Aga-L’Harmattan 2019). In italiano ha pubblicato i libri di poesia Compitare nei cortili (Puntoacapo 2019) e La conta imprecisa (Puntoacapo 2019), che hanno ricevuto un premio speciale rispettivamente al Lorenzo Montano e al Rhegium Julii.

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