Ancora una volta, come nel caso di Pasquale Pietro Del Giudice, mi trovo a parlare di una di quelle conoscenze fortuite per cui, anni più tardi, si ringrazia il caso ed il magnetismo che la poesia sprigiona, attraendo nello stesso luogo chi poi si rivelerà compatibile e anzi consonante nella scrittura e nell’umanità.
Questo provo di fronte alla recentissima uscita editoriale di Francesca Mazzotta, poetessa fiorentina che, con Gli eroi sono partiti (Passigli 2021) allestisce un libro pregevole che impressiona il lettore sin dai primi versi. Questo coinvolgimento che si amplifica di pagina in pagina è donato alla raccolta da due direttrici della struttura testuale: da una parte il meditato e preciso abbinamento fonico che dà slancio anche ad agglomerati iconografici inconsueti ed arditi; dall’altra la riflessione dolente e insistita, coraggiosamente tremante, sull’abbandono, quella sensazione fisiologica di sentirsi privati di qualcuno che ci completa e perfeziona, lasciandoci quella pena che di minuto in minuto ci sevizia, ma senza la quale non riusciremmo a distanziarci dal dolore che necessariamente deve avere termine.
Quello di Mazzotta è un vero e proprio itinerario che si snoda da un interno troppo colmo di ricordi per continuare ad essere abitato come se nulla fosse, conducendo ad una reimmissione nel flusso, nella quotidianità orba ma ineludibile in cui ogni oggetto del passato non può sparire ma deve tradursi in un nuovo significato. E di oggetti ce n’è una folla, che non ci permette di dimenticare, ma che neanche l’io poetico vuole tralasciare e chiudere nel cassetto inchiavato dell’elaborazione emotiva, affinché siano nutrimento e fertile humus di rinascita, utile alla fioritura che non può non susseguirsi al tormento dell’inverno del dolore.
In ogni sezione, ed ancor più esplicitamente nell’ultima, Gli alieni, in prosa, si manifesta tutta la lucidità di un’indagine a cui non ci si deve sottrarre, che pungola e scortica ma anche incita e libera. A ben vedere, in alcuni punti avvertiamo un sottile sentore di imperfezione che non fa che confermare e rafforzare la minuziosa edificazione, tesa ad innalzare un mosaico sinfonico che cattura e seduce chi si pone in ascolto, conducendolo per mano, confidenzialmente, senza accidenti da un testo all’altro.
In questo fluido scivolamento di diapositive di ricordi e affetti, materializzato nella scelta di ripetere più volte, come un rimuginare affranto, lo stesso verso dalla fine di una poesia all’inizio della successiva, sembra che Mazzotta ci suggerisca di cercare la chiave che schiude la catarsi dal soffrire. La vertigine dei vocaboli ci esorta ad essere coraggiosi ed imboccare il sentiero che induce alla fuga, alla trappola che la casa ed ogni suo angolo rappresentano.
La poesia veste da sempre un ruolo gnoseologico, sia in senso universale che in una prospettiva privata: probabilmente, in Gli eroi sono partiti, queste due dimensioni si intersecano poiché ogni separazione dai nostri miti personali, quando si metabolizza davvero il lutto nutrendosene e rendendolo sostanza di rinnovamento, può giovare come esempio di lotta e coraggio per tutti noi.

 

da Gli eroi sono partiti (Passigli 2021)

 

PENELOPE
Un canto spezza l’aria
non siamo ancora morti
scrosto il guscio d’uovo nel lavabo
affiora poco a poco il bianco lucido
ho un cuore non più vergine
ovatta nelle vene, perdo il conto
dei sassi lanciati contro i vetri
la casa di stoffa abbandonata.
Le strade sono zero rettilinei
bocche aride, identiche alla sete
dell’occhio che mi spia dalla fessura
mi spoglia della pelle lungo i femori
cosa ne sai del mare di incisivi
racchiuso nel bicchiere rovesciato
l’elemosina di un bacio, l’odore
dei sogni che insapono nel catino.

 

FALENE
Mi vorrai sempre bene è la domanda
che ti rivolgo spesso sottovoce
se Palinuro cadi dentro il sonno
né so chi sono né sono al sicuro
è rito e ritmo, ovvero solamente
misura che cadenza la paura:
andare avantindietro per la stanza
e circumnavigare il tuo respiro
ma i mari sono secchi mentre dormi
– zecca mi abbevero sulla tua pelle
rimane esangue un petalo cosparso
di falene. Adesso sii sincero
mi vorrai sempre bene?

 

TEMPO
Una camicia azzurra stesa al sole
sul filo di metallo di un cortile
oscilla e cade a un gemito di vento
ci sono guadi asfaltati
porzioni di strade
che chiamano il pianto
l’anima – sciame ampio d’ali
forza maniglie, svuota
storni tra i tigli
e il tempo non sa di esser tempo.
Slacciata all’aria una busta
lievita in onde
su rupi di foglie
conserva mia madre bambina
le sue prime doglie
il verso dei lupi in amore.

 

NOTTE
Mentre vi sogno fiuto
l’odore acre dei boschi
la pelle si distende riposo
su un guscio di noce
dondolo su un lago di luce che
non è tramonto ma
dormitorio d’onde, lastra
illesa di liquide lune
mentre vi sogno non tasto le spine
della nostra futilità
e disconosco il pianto
le epifanie del nulla:
la testa affilata di mio padre
il gatto uncinato al divano
le bottiglie di vetro vuote
un sipario
le pesche grinzose nella fruttiera
la notte osanna il nome innominato.

 

Francesca Mazzotta è nata a Firenze nel 1992. Laureata in Italianistica (2017) all’Università di Bologna, con una tesi comparativa sul poemetto novecentesco, ed attualmente dottoranda presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove si occupa della linea poetica lombarda nel secondo Novecento, ha vinto il premio InediTO, mediante il quale ha pubblicato il suo primo libro di poesie, Reduci o redenti (CartaCanta editore 2016), e il premio Solstizio per l’opera prima (2018). Nel 2018 ha pubblicato il prosimetro Umbratile (Origini Edizioni), scritto a quattro mani con Luca Saracino. Ha lavorato come editor presso la casa editrice fiorentina Mandragora, occupandosi di redazione, traduzioni dall’inglese e creazione di web contents.
Suoi testi poetici, recensioni e saggi sono comparsi su blog come Perigeion, MediumPoesia, formavera e riviste come «Poesia», «Atelier», «Poesia del Nostro Tempo», «Nazione Indiana», «Nuovi Argomenti», «L’Ulisse», «Paragone Letteratura».

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