Da qualche mese la casa editrice Transeuropa ha dato alle stampe una interessante e pirotecnicamente coinvolgente raccolta del poeta pugliese Antonio Bux, dal titolo Terza persona interiore. In questo segmento di un incessante lavorio di ricerca concettuale e stilistica, l’autore mette in campo tutta una fantasmagoria di stimoli che si articolano in una scoppiettante rassegna di sinestetiche delizie, imbastendo un elaborato ricamo di sentimenti che intreccia passione e dolore, curiosità e dramma del conoscere anche ciò che si ignorerebbe volentieri, che non si vorrebbe fissare negli occhi.
In questi testi l’anelito romantico non sembra affatto smorzato, anzi si esplica nell’assetata richiesta di un assoluto che sovrasta ogni ipotetica legge escatologica, poiché non potrebbe garantire quella dispersione, quell’infiltrazione in ogni particella della realtà che oggi resta opaca, impenetrabile. In questa indagine ci sono coordinate salde che, se per un verso confortano nella loro affidabile persistenza, tuttavia picchiano alla porta con l’insistenza dell’ineluttabile: come nel caso dei colori, che sono categorie, esperienze che ci insegnano la strada, oppure della famiglia, che è bulbo da cui si spargono come radici le strade della nostra storia; o ancora del tempo che si manifesta come un «rumore amico», un ritmo che ci scandisce la parola nella sua peculiarità di segno lasciato dagli incontri, dalle occasioni colte o mancate.
Nella progressione della silloge, possiamo rilevare come la messa in moto del meccanismo verbale sfoderi tutto il proprio valore gnoseologico, facendo in modo che ogni parola ne chiami un’altra che condivida la stessa genetica potenza, sprigionandosi dalla stessa viva pietra come per panico prodigio, scaturigine avvenuta per impatto o frizione, da cui colano versi vulcanici che liquefanno e riaddensano. Bux persevera di testo in testo nell’affrontare questa tensione dialettica tra immanente e metafisico, tra quel che siamo e ciò che continueremo ad essere dopo di noi («se taccio / io dico il vero che so di fraintendere», p. 10) – ma noi, d’altronde, inciampiamo di continuo nella ruggine di esistere se solo tentiamo di ipotizzare un’immagine utleriore al paesaggio consegnatoci in sorte.
Mentre le cesure degli enjambements si configurano come ferite del dubbio, del passo esitante, l’atto di spiccare il volo in ogni frase si trasforma in esercizio stoico della propria transitorietà, della consapevolezza di vivere tra uno schiocco e l’altro di dita, comandati dalla vita che ci assedia finché non ci si tufferà nel mare degli elementi pronti a riabbracciarci. In ogni verso viene raccontata la scoperta di questa analogia viscerale, che rimonta gli inizi dei tempi («è bella solitudine sapere / il coro di dentro cantare chiaro / sopra le teste l’oscuro certo // così l’emisfero non visto umano / cade pur restando lento / nell’intervallo tra qui e mai», p. 44).
A fare da sostanza di contrasto speculare, ritroviamo, in incipit ad ogni poesia, il tu che martella ogni assunto e che rappresenta la voce di rimando visceralmente necessaria, visto che senza contraddittorio non c’è mondo, nessuna consistenza del reale, poiché «esistere è un andarsene in due» (p. 25). Le domande arrivano da entrambi i fronti della conversazione, ben distinti in un’alternanza tipografica netta, ma anche nella tonalità dei quesiti che mettono in evidenza una continua forza di trazione tra punti distanti, allontanati da rassegnazioni, ossessioni, specchi illusori che non ci restituiscono nulla di definitivo e sostanziale: la realtà esiste proprio perché continua a sfuggirci.
Se volessimo costringere Terza persona interiore in una fin troppo sintetica definizione, potremmo concludere che siamo di fronte ad un libro di abbandoni, propri e di chi ci tratteneva, ci stringeva un polso, parlava con la nostra voce, abbandoni per i quali tuttavia restiamo e resteremo qui a effondere parole, sguardi, sangue ed entusiasmi.

 

da Terza persona interiore (Transeuropa 2019)

 

5.


Non c’è che sparizione. Se torna
da uno schianto del mare questo corpo,
è alibi di un’anima sola, il suo cambiare
vapore con acqua, un infinito per la vita intera.

Saper rubare al ramo parole
di neve, quelle volute segrete,
il ceppo dove l’aria vale amore.
Parole come “mi manco”, oppure
“non ci sarò per sempre”; frasi, giri
di vite che nemmeno gli angeli o le turbe
dei gironi, né gli uomini possono fingere.
Come pure il giorno che si attende
di gentilezza alle palpebre chiudersi,
un sonoro essere del fruscio, prima
che sia vento, se compare ramo
come scritta la fibra sua farsi
questo pensiero, vorrebbe rubare
dal vento senza pensare. Ma poi chi
vedrà in volo, se il satanello o il bimbo
senza luce, sarà che vuol mancare
altrove sarà che lui esisterà rubato;
le parole sono poche e riordinano
i rami ad indicare che non siamo.
Rubarle non darà vita eterna

 

* * *

 

21.


Due volte si viene al mondo,
dice un ramo oltre la notte.
Per frusciare, sapere il vento
soffrire, come l’uomo distante
soffre del suo vivere amore.
Due volte accade questo,
un nascere che sa di baci,
oltre la morte sapersi perdere.
Il vento come ramo per la notte
sospinge un corpo nuovo,
e quest’amore che da solo soffia.
Due volte soltanto, e poi nuovamente.
Sarà due volte per durare
e per non dire all’uomo
chi è che lo ama, chi muove
dopo il suo corpo la vita.
Sarà due volte, ma forse è solo una
.

 

* * *

 

34.


Che bella la solitudine; pare
avere la stessa gloria del cielo
quando ritarda di un solo grammo
l’ombra di noi stesi sul prato;
col suo respiro come per cieca
forma già lontano, e l’aperto di un sogno,
sarebbe solitudine migliore
restare sdraiati a inventare un sole
che sia eterno per poi spostare
nuvole dentro il cervello.
Ma nel suolo non esiste sempre
questo suono di forme strane;
così il cielo non è che un buco
dove immaginare ci sia campo
e per un angelo anche la grazia
d’essere solo e col mondo insieme.
Però è bella solitudine sapere
il coro di dentro cantare chiaro
sopra le teste l’oscuro certo,
così l’emisfero non visto umano
cade pur restando lento,
nell’intervallo tra qui e mai.

 

Antonio Bux (Foggia, 1982) ha pubblicato, tra l’altro, Trilogia dello zero (Marco Saya 2012; finalista premio Montano, vincitore premio Minturnae), Kevlar (SEF 2015; premio Alinari), Naturario (Di Felice 2016; finalista premio Viareggio), Sativi (Marco Saya 2017; selezione premio Città di Como) Sasso, carta e forbici (Avagliano 2018; premio Alfonso Malinconico), e il recente La diga ombra (Nottetempo 2020). In spagnolo ha pubblicato 23 – fragmentos de alguien, El hombre comido, Saga familiar de un lobo estepario e in vernacolo foggiano la silloge Lattèssanghe (selezione premio Città di Ischitella – Pietro Giannone). Ha fondato e dirige il blog Disgrafie e alcune collane per Marco Saya Edizioni e per l’editrice RPlibri.

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