Carlo Londero, ricercatore dell’Università di Udine, ha da poco pubblicato il saggio Sillabario per Morandini (Campanotto 2019), monografia dedicata a Luciano Morandini, importante poeta e intellettuale di area friulana. Pubblichiamo di seguito un’intervista di Carlo Selan all’autore.

 

Tito Maniacco, nel suo importante saggio storico sul Friuli I senzastoria (ultima edizione, Biblioteca dell’Immagine 2018) scrive: «Se il prete, l’intellettuale più organico espresso dalla civiltà contadina friulana, si ritiene legato a Dio (e alle gerarchie ecclesiastiche), quello laico non ha la capacità di Croce di sentirsi legato ad Agnelli nello stesso tempo in cui si sente legato ad Aristotele e Platone (è un dato che Gramsci non manca di rilevare, anche se, evidentemente, non intendeva stabilire un collegamento d’interessi materiali fra i due, quanto, piuttosto il senso di un legame organico fra cultura e forze economiche e politiche, legame consapevole e attento). L’intellettuale della provincia si crede, o presume di credersi, un uomo libero in una provincia dello spirito, di cui, a volte avverte la penosa oppressione materiale e spirituale e anela ad uscirne (e anche in questo è provinciale).»

Questo ritratto dell’ “intellettuale di provincia” vale, secondo Maniacco, per le figure di artisti e scrittori attivi in Friuli in un momento storico novecentesco o pre-novecentesco precedente al periodo della Liberazione, fase in cui invece anche gli intellettuali si trovano a doversi confrontare con i fatti, a dover intervenire. A tal proposito, parlando delle prime grandi assemblee e rivolte di braccianti agricoli in Friuli nel 1950, Maniacco scrive:

«Per la prima volta, accanto a politici come l’onorevole Beltrame del P.C.I, intellettuali, scrittori, pittori vanno sui luoghi della lotta. Questi uomini non sono né curiosi, né osservatori, né raccoglitori di pezzi di colore, ma reali partecipanti all’azione con i loro specifici mezzi professionali. L’intellettuale, cui la resistenza aveva eroso le fondamenta della “torre d’avorio”, si sente parte integrante del movimento di massa.»

Luciano Morandini, nato nel 1928, rappresenta senza dubbio una figura di intellettuale diversa da quell’ “intellettuale di provincia” di cui parla Tito Maniacco, una figura creatasi appunto in un contesto sociale friulano successivo alla liberazione. Si tratta di una generazione nuova di scrittori e artisti, la generazione di Giuseppe Zigaina, dello stesso Maniacco.

Che tipo di intellettuale e artista era Morandini? Cosa significava essere intellettuale per Morandini in un territorio come il Friuli quasi privo, per motivi radicati nella storia, di una tradizione intellettuale laica forte e capace di porre problemi, di mettere in discussione questioni?

CL – Pasolini sosteneva che in Friuli sarebbe dovuto arrivare il giorno in cui accorgersi «di vei na storia, un passat, na tradision» (“di avere una storia, un passato, una tradizione”). Morandini – che ha posto le parole di Pasolini in epigrafe al suo libro di versi e fotografie Dalla domenica dei silenzi del 1976 – ha agito esattamente in questo senso. Se oggi Morandini viene ricordato come poeta (questa è la dicitura incisa sulla lapide del cimitero di San Giorgio di Nogaro), la specificazione più corretta è intellettuale. Se oggi viene ricordato come un intellettuale tutto calato all’interno dell’ambiente friulano, be’, ecco, ciò non è corretto o, meglio, esprime solo una parte del suo essere pienamente intellettuale. A partire dalla prima metà degli anni Sessanta, egli era menzionato come uno dei maggiori tra i giovani poeti in Italia: nel 1963 Zanzotto si rammarica con Raboni perché né a lui né a Morandini sono stati assegnati dei riconoscimenti al premio Bergamo (Zanzotto li avrebbe premiati entrambi ex-aequo) e definisce il libro di Morandini Il prezzo (1962) «veramente degno di nota». Inoltre Morandini figura tra i collaboratori della rivista letteraria torinese «Momenti» (poi «Situazione»), rivista fondamentale per il neorealismo; in seguito è stato tra i redattori della redazione friulana della rivista. Il riconoscimento letterario e intellettuale di Morandini non è circoscritto agli anni Sessanta. Nel 1984 egli dà alle stampe il romanzo “autobiografico” San Giorgio e il drago (Studio tesi 1984): autobiografico tra virgolette, perché è lo spaccato di un mondo, quello della Resistenza, in fervente rinnovamento politico e culturale, (ri)visto, (ri)vissuto dagli occhi di un adolescente della Bassa friulana che a tratti si indentifica con l’autore, ma è specola di un’intera generazione. Il romanzo viene scelto per il premio Campiello 1984, supera varie selezioni ma all’ultimo non riesce a posizionarsi nella fatidica cinquina finalista. Ricordo ancora – ma potrei proseguire elencando altre frequentazioni letterarie italiane e non limitatamente friulane – che è stato Morandini a fare incontrare Sciascia e Zlobec (il poeta sloveno), incontro che ha dato avvio all’ingresso della poesia coeva italiana in Jugoslavia e a quella jugoslava in Italia. Ecco, mi pare che ridurre Morandini a un intellettuale esclusivamente friulano sia fare un torto alle energie che egli ha speso per contribuire alla crescita culturale, letteraria, artistica italiana. Eppure, ho detto che Morandini è stato capace di cogliere l’invito-sfida di Pasolini. Ciò non cade in contraddizione con il carattere – chiamiamolo così – nazionale di Morandini che ho appena ammesso. Tanto egli si è allargato a lavorare nell’Italia e per l’Italia culturale, tanto più ha saputo indagare e interpretare la propria terra, la Piccola patria in cui ha volontariamente deciso di vivere e di agire (in senso politicamente culturale). Tra articoli, saggi, poesie, radiotrasmissioni, interventi pubblici, polemiche politiche, egli ha letto il Friuli del passato recente e più remoto, ha dato una chiave di lettura del Friuli a lui contemporaneo, ha proposto un’idea di futuro Friuli possibile. L’intento di Morandini era quello di fare emergere come il territorio friulano dovesse prendere coscienza delle proprie capacità tout court culturali e fare aggio su di esse per divenire un centro culturale nevralgico e strategico. A me pare che egli volesse che il Friuli fosse in grado di fare (ma più in grande, in maniera collettiva e compartecipata) quanto egli faceva a livello personale: se lui riusciva a intessere profonde, durature e proficue amicizie, collaborazioni e frequentazioni, perché non avrebbe dovuto riuscirci un intero territorio geograficamente vocato a dialogare culturalmente? Mi piacerebbe che tutto ciò emergesse in modo chiaro dalla lettura del mio Sillabario per Morandini, dove ho dato voce a carte, documenti, manoscritti dell’Archivio Luciano Morandini (oggi custodito assieme alla sua libreria presso Villa Dora, San Giorgio di Nogaro) relativi agli anni 1969-1987.

 

Forse si lega alla domanda precedente un’interessantissima analisi che si trova nel tuo libro Sillabario per Morandini (Campanotto 2019) riguardo al concetto di neorealismo in poesia. Che cosa significa parlare di neorealismo, parola comunemente legata a un impegno e ad alcune intenzioni intellettuali riscontrabili in autori di prosa, laddove si fa riferimento invece allo scrivere in versi? Quanto importante è stato il momento neorealista per il Friuli e quali ne sono stati gli esiti principali?

CL – Alla voce Neorealismo del Sillabario per Morandini, faccio il punto sul neorealismo. Non ho potuto dilungarmi molto, ma credo che oggi quanto mai servirebbero degli studi non approssimativi né stereotipi su quella stagione. Sì, sono consapevole che il neorealismo letterario ha dato esiti alti e illustri (prevalentemente nella narrativa). Ma bisogna tenere a mente che, a parte i risultati celebri, il neorealismo tout court, quello che possiamo definire mediano, è un movimento privo di connotazioni esclusivamente o espressamente letterarie, che voleva agire dal basso sulla società, recuperando dall’ambiente popolare lingua e tematiche. Come ha scritto Roberto Damiani, sebbene il neorealismo avesse voluto colmare «le distanze da e con la massa, nella loro [dei neorealisti] aspirazione a compiere ‒ sullo stimolo della revisione dei valori conseguente alla guerra e alla lotta di Liberazione ‒ un’opzione di segno autenticamente popolare», in esso pesa «l’anima retrograda, la povertà delle sue formulazioni teoriche, la sua natura dilettantesca e le sue gravi responsabilità nella condanna alla provincializzazione della cultura letteraria del paese». In Friuli il neorealismo ha avuto caratteristiche diverse e più feconde. È noto che il gruppo dei neorealisti friulani ha cercato di imporre una direzione al proprio fare artistico e al proprio agire sociale. I neorealisti friulani hanno provato a darsi dei principi artistico-teorici attorno ai quali ragionare, su cui fare leva. Durante il secondo dopoguerra e con il movimento neorealista il Friuli, forse per la prima volta nella sua storia, si è accorto di avere delle potenzialità culturali, delle vocazioni artistiche. Per esemplificare lo scarto d’esperienze tra il neorealismo italiano e le peculiarità del neorealismo friulano, riporto un brano inedito di Morandini tratto dal testo di un ciclo radiofonico che sto per pubblicare con il titolo Voci del nostro tempo: «i neorealisti friulani rappresentarono, nella geografia nazionale del movimento, qualcosa di originale, di veramente a sé. Standosene lontani da ogni esagerazione polemica, cercando i giusti punti d’attacco nella tradizione e volgendosi a un lavoro d’autentico scavo nel loro universo contadino, seppero infatti gettare – in un isolamento che risultò creativamente proficuo – un’altra pietra fondamentale nella storia della poesia in Friuli e aprire un affascinante capitolo della storia della cultura friulana in italiano del secondo dopoguerra».

 

Come hai detto anche tu precedentemente, Morandini è stato un intellettuale “diverso” o forse maggiormente completo di altri anche perché, seppur profondamente legato nelle sue riflessioni a un luogo e un paesaggio (il Friuli), è comunque stato capace di spostarsi, di frequentare altri contesti, di farsi influenzare da tendenze esterne, dimostrando un’apertura notevole e non scontata.

Basta guardare brevemente la sua biografia: si laurea in Filosofia a Trieste con una tesi su Emmanuel Mounier (questo dice tanto sulla direzione verso cui stava andando il suo pensare ed il suo impegnarsi a livello artistico); tra il 1948 e il 1954 è vicino alla rivista torinese «Momenti»; tra il 1955 e il 1956 collabora con la rivista torinese «Situazione», e quindi, nel 1958, con «La situazione», diretta da Alcide Paolini; a partire dagli anni sessanta lavora come condirettore e responsabile della pagina culturale della rivista «Politica e cultura», attività che lo porta a interessarsi e a occuparsi, ad esempio, della vita politica e culturale di una città come Lubiana, riuscendo a intrattenere rapporti con un autore sloveno come Ciril Zlobec (attraverso il quale riesce a venire a contatto con tanta poesia di scrittori jugoslavi).

Credo sia interessante soffermarsi su quest’ultimo aspetto biografico di Morandini. Negli anni Sessanta e Settanta, per evidenti motivi di politica internazionale, non era affatto una cosa semplice riuscire ad avere informazioni e a recuperare materiali che riguardassero i modi e le forme dell’attività culturale e artistica nell’Est Europa (in questo caso in Jugoslavia). Morandini, oltre a introdurre in Italia le scritture di poeti notevoli che altrimenti non sarebbero stati conosciuti (come Ciril Zlobec), è stato anche ponte di collegamento per tanti intellettuali italiani che si interessarono all’Est Europa. Ad esempio, nel libro Luciano Morandini, Ciril Zlobec e Leonardo Sciascia : preludio alla storia di un’amicizia in nome della fedeltà al proprio èthnos (Olschki 2015) si parla proprio dei rapporti di Leonardo Sciascia con la Jugoslavia e dell’importanza di Morandini come tramite di questo legame.

Quanto è stata importante la figura di Luciano Morandini in tal senso? Com’è stato il rapportarsi di Luciano Morandini con l’Est Europa?

CL – Preferisco la definizione di Morandini intellettuale “diverso” perché “completo”, né solo l’uno o l’altro. Egli era capace di intessere relazioni personali che non andassero a suo solo vantaggio, ma che potessero avere delle ripercussioni sulla società. Ho accennato prima a Morandini che fa entrare in contatto Sciascia e Zlobec. Il primo frutto dell’incontro matura nel 1962: si tratta di una silloge collettanea a cura di Zlobec intitolata Letteratura e arte figurativa nella Jugoslavia del dopoguerra, pubblicata sulla rivista «Galleria» del numero di settembre-dicembre. A catena, seguono la Nuova poesia jugoslava, curato da Zlobec e pubblicato da Guanda nel 1966, e Sodobna italijanska lirika, pubblicato a Lubiana nel 1968. Di mezzo, ovviamente, c’è sempre Morandini. Per Morandini Zlobec (e viceversa: per Zlobec Morandini) è un punto di riferimento imprescindibile: lo coinvolge in riviste letterarie, in scambi culturali, in traduzioni, in mostre artistiche… Per la Slovenia jugoslava Zlobec è stato quello che Morandini era per il Friuli: un intellettuale capace di andare oltre i propri interessi personali e pensare alla collettività. Se oggi sussistono dei rapporti culturali tra Friuli e Slovenia, credo che lo dobbiamo a questi due poeti. Un altro gande amico di Morandini è stato Sarajlić, il poeta di Sarajevo. Tra parentesi ti faccio notare che, tanto per Zlobec quanto per Sarajlić, si tratta di due nomi di spicco, conosciuti e tradotti in tutto il mondo. Sarajlić che nel Settanta invita Morandini a partecipare alle Giornate della poesia di Sarajevo in qualità di rappresentante ufficiale dell’Italia; Sarajlić che viene a trovare Morandini a Udine; Sarajlić che intrattiene con Morandini un carteggio in cui si rivolge all’amico chiamandolo «fratello»… Morandini sa che la poesia, la letteratura, la cultura sono delle ottime basi per gettare dei ponti di dialogo e di pace tra popoli, per poter costruire un futuro migliore nel quale vivere consapevoli di ciò che siamo e di ciò che sono i nostri vicini, senza confini e ostacoli dettati da nazionalismi e particolarismi. Tutto questo è alla base del suo rapporto tanto con Sarajlić quanto con Zlobec: si tratta di conoscenza e di pace, di fratellanza e, sotto sotto, di libertà. Morandini ha partecipato a numerosi incontri, convegni, festival letterari e poetici in Jugoslavia, dove ha trovato degli interlocutori a lui simili, disposti a mettersi in gioco per dare la possibilità a tutti di vivere in un mondo migliore. Tra le sue mete va citata anche l’Austria e va ricordata, ancora in Jugoslavia, la frequentazione del gruppo della rivista fiumana «La battana». E si ricordi l’alta considerazione pubblica e sociale di cui godevano (forse ancora adesso) le poesia e i poeti nei paesi dell’Est. Ma, al giorno d’oggi, va tenuto presente che fino a non molto tempo fa spostarsi, viaggiare, intessere rapporti internazionali varcando i confini, e soprattutto oltre la cortina di ferro, non era una cosa così scontata né facile: oggi siamo abituati a passare i confini senza nemmeno prestarci attenzione, senza passaporto e senza controlli doganali alle frontiere…

 

Sull’opera poetica di Luciano Morandini potrei chiederti tanto e comunque molto materiale è già stato scritto a riguardo. A me interessa affrontare brevemente un aspetto forse marginale della sua produzione artistica ma estremamente interessante, ovvero la cosiddetta poesia verbovisiva.

Con poesia verbovisiva si intende definire tutta una serie di pratiche e sperimentazioni artistiche e letterarie compiute nel clima della Neoavanguardia, a partire dagli anni Settanta del Novecento. Esse cercavano di far dialogare la parola, il segno verbale, con l’immagine, mettendo in crisi l’idea di poesia come qualcosa da intendersi solo come linguaggio fruibile nella lettura e valorizzando invece la portata grafica del segno, delle lettere, della scrittura.

Riguardo alla poesia visiva, Roman Jakobson scriveva:

«La poesia visiva è un fenomeno di tipo sincretico. Occorre tener presente che il linguaggio parlato è primitivo, primario, rispetto al linguaggio scritto. Non c’è dubbio – tutte le statistiche dimostrano che è così – che non si può insegnare al bambino la scrittura prima di insegnargli il linguaggio parlato. Ma il passaggio dalla fase orale a quella scritta cambia, per certi versi, il carattere della percezione del linguaggio, perché quando leggiamo qualcosa non siamo più vincolati alla sequenza temporale. Possiamo tornare indietro con l’occhio, saltare parole o intere preposizioni, fare confronti sintattici; abbiamo insomma a che fare con lo spazio. Allora la poesia visiva non è che un seguito, un’estensione nella stessa direzione.»

Se si ragiona su quanto scrive Michel Foucault in un saggio come Le langage de l’espace del 1964, ovvero che:

«E se oggi lo spazio è per il linguaggio la più ossessiva delle metafore, non è tanto perché esso costituisce ormai l’ultima risorsa; ma è nello spazio che il linguaggio appena posto si dispiega, scivola su sé stesso, determina le proprie scelte, disegna le sue figure e le sue traslazioni. È in esso che si trasporta, che il suo stesso essere sì “metaforizza”»

allora ecco che si comprende l’importanza che la produzione verbovisiva ha avuto nella letteratura secondo novecentesca.

Morandini, legandosi probabilmente alla rivista Zeta pubblicata dalla sua casa editrice di riferimento Campanotto (gestita da Carlo Marcello Conti, poeta verbovisivo a sua volta) e intrattenendo rapporti con personalità artistiche importanti come Lamberto Pignotti, si è occupato di poesia verbovisiva producendo dei manufatti interessanti anche se poco conosciuti (una mostra di questi materiali, consultabili nell’archivio personale dell’autore a San Giorgio di Nogaro, è stata realizzata a Feltre nel 2017).

Presentaci questo ragionare sul segno e sul valore visivo della parola in Morandini.

CL – L’avvicinamento di Morandini alla rivista «Zeta» (di cui è stato direttore responsabile) non è la causa, ma il risultato del suo applicarsi anche nella poesia verbovisiva. Hai tratteggiato bene la poesia visiva, facendone emergere i dati di sperimentazione di intermedialità. Può sembrare singolare, ma Morandini non è estraneo alla sperimentazione, anche di derivazione neoavanguardistica. Cito ancora un passo dalla trasmissione radiofonica inedita di Morandini che sto per pubblicare in Voci del nostro tempo: «Alcuni poeti del gruppo neorealista continuarono poi, negli anni, ad approfondire le loro ricerche nonostante i passaggi dentro realtà ben diverse, seppur semanticamente modificate. Dall’interno di questo punto di vista fu ascoltata anche la “lezione” linguistico-culturale della neoavanguardia anni Sessanta, senza giungere agli estremi della disarticolazione e alienazione del “discorso”, alla riduzione d’esso a semplice “rumore”. Ciò perché quei poeti friulani non smisero di credere in una parola-poesia strumento di comunicazione di sentimenti e pensiero, per quanto negativi e sconsolati ormai fossero». Tra questi poeti c’è anche Morandini. Dalla fine degli anni Sessanta, la sua poesia si fa sperimentale nella misura in cui egli rivolge lo sguardo e il pensiero critico-razionale a ciò che col passare degli anni avverte come storture socio-antropologiche dettate dal lassismo dei cittadini (divenuti individui sempre meno partecipi di una comunità) soggiogati dal capitalismo. Ecco che la poesia di Morandini, di stampo squisitamente neorealista, si amplia a includere nello sviluppo poetico le fotografie che corredano i suoi libri. Ecco che le poesie, introdotte da titoli-didascalie, si fanno monologanti, dialogate, colloquiali. Ecco che dalla poesia dialogica è breve il passo verso la poesia scenico-teatrale, quella composta per essere rappresentata (dal vero o anche solo idealmente) da personaggi, da figure, da voci. Nessuno si è mai occupato di notare quanto sperimentazione ci fosse in Morandini, quanto fosse (più o meno presente) il debito della stagione neoavanguardista, quanti e quali siano i presupposti ideologici che spingono Morandini a proporre una poesia teatrale-sperimentale. Solo in pochi si sono accorti dell’evoluzione di Morandini, che peraltro torna a una poesia di stampo “tradizionale”, ma rinnovata, verso la metà degli anni Ottanta. Tra questi si annovera Gino Nogara che, nel recensire L’aringa d’oro (1974), ha scritto come lì si colga «la ricerca, riuscita, di integrare e fissare l’astrattezza poetica con strumenti di rappresentazione teatrale ed elementi musicali e visivi». Ecco, all’interno di questa sperimentazione va sicuramente collocata anche l’esperienza verbovisiva. Se Morandini è un intellettuale attento a tutte le forme con cui indagare la realtà, è chiaro che egli si sia cimentato anche con la poesia visiva. Magari non in maniera costante, magari senza dare contributi miliari alla storia del genere, però ha saputo dialogare (ritorna qui uno dei verbi simbolo di Morandini) con i principali protagonisti di questa arte, e mi riferisco a Pignotti e a Conti.

 

Poesia tratta da Monrupino (I quaderni del Provinciale 1957)

 

Il tuo nome è venuto con la bora,
piegato, schiena d’uomo aggrappato
alla terra tutta di pietra.
è bello il tuo nome nel cuore
più puro del vento alto nel cielo
canta l’amore tra le raffiche
violente contro la baracca
segno dell’uomo sulla strada.
Il cane che abbaia l’accompagna
impaurito tra la pietra e t’amo
nome di donna cresciuto nel sangue,
non c’è vita oltre il tuo viso.
Se la terra sussulta i tuoi occhi
sono la strada sicura,
la tua voce è il bosco che mantella
il monte, lo scoiattolo veloce
tra i suoi rami,
e si fa corpo, casa, pietra, strada
ogni giorno amata puramente
pagata senza colpa per il figlio
che pronuncia il nostro nome sorridendo.
T’abbiamo portata, donna, sulle strade
per la terra, per il frutto
sereno a primavera: sarà spuntato il primo fiore
da mettere all’occhiello, uomini di pace.

 

***

 

Poesia tratta da Il linguaggio della tensione (L’asterisco 1971)

 

A Biagio Marin

Un dio bellissimo muore tra i venti
dell’immaginazione

Dall’eremo di tutte le battaglie
scopre il suo volto malandrino
l’angelo simulatore

Qualcuno batte alla porta
l’amico scalzo a cavallo della stella
più tarda a tramontare porta conchiglie
una cesta di colore

I passi si addensano nell’imbuto del porto
tra vecchie storie di borghesi

La notte alta dilata i pensieri
se potessi porterei alle spalle il dosso
degli amori l’infelicità dei suoi ricordi
un ricamo di dolori

Amico lupo di mare
tra generazioni stordite
scoglio di poesia
vorrei per noi la pietas
di tutti i tuoi canzonieri

 

***

 

Poesia tratta da Fabula notturna (prefazione di Giovanni Raboni, Edizioni Kappa Vu 1996)

 

Pianta un salice diceva
Un salice dalle lunghe chiome
A lambire l’acqua del caro fiume
(Ricordi i fruscii della sera
E il suo dolce rumore?)
Pianta il verde segnale
La sconfitta piange con noi fraterna
Pianta un salice diceva
Sarà mosso da un soffio di memoria

 

Carlo Londero si è laureato nel 2011 con una tesi di laurea dal titolo “La luna è vostra” di Beniamino del Fabbro: un’edizione critica con relatori i professori Marina Marcolini e Rodolfo Zucco. Ha conseguito un dottorato presso l’Università di Udine lavorando al progetto Edizione genetica e studio critico della raccolta di versi Empie stelle di Giovanni Giudici con particolare riferimento alla sezione Creùsa.

 

Luciano Morandini è nato a San Giorgio di Nogaro nel 1928 e risiede a Udine. Negli anni Cinquanta ha fatto parte del gruppo dei poeti del neorealismo friulano.
Tra i suoi libri di poesia si ricordano Lo sguardo e la ragione (antologia, 1957-1978, a cura di Elvio Guagnini, Studio Tesi 1979); Piazzale con figure (Rebellato Editore 1983); Infrantume (Edizioni del Leone 1984); L’albero di Mantes (Campanotto Editore 1990); Fabula notturna (Edizioni Kappa Vu 1996, rappresentata nel 1997 al Mittelfest di Cividale del Friuli); Berlusconiane (epigrammi) (Edizioni Kappa Vu 1996); Lunario dell’insonnia (Campanotto Editore 2000).
È anche autore di quattro racconti lunghi: San Giorgio e il drago (Edizioni Studio Tesi, 1984, prima selezione Premio Campiello 1984); Lo sfrido (Edizioni San Marco, Venezia, 1989, riediti accorpati nel 2004 per la collana “Biblioteca del Messaggero Veneto” intitolata “Friuli d’Autore”); Gli occhi maghi (Campanotto Editore 1992); L’orologio di Saba (Campanotto Editore 1994). Nel 1998 è uscito, per Campanotto Editore, Promemoria friulano, la testimonianza di un’avventura intellettuale e artistica vissuta in Friuli dagli anni Cinquanta ai giorni nostri. Alcune sue opere sono state tradotte in sloveno, serbo-croato, tedesco e inglese.
Morandini ha collaborato con riviste e giornali vari e ha curato programmi culturali per la Rai regionale e ha collaborato a “Il Nuovo”, settimanale del Friuli-Venezia Giulia ed è stato direttore responsabile delle riviste “Zeta” e “Diverse Lingue”.

 

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