Supponiamo che un dato concetto faccia scattare nel cervello una corrispondente “immagine acustica”, diceva Saussure nella sua monumentale Linguistica Generale, giustamente citata da Simone Di Biasio in esergo alla sezione eponima del suo Panasonica (Il ponte del sale 2020). Ed è infatti tutta giocata sul rapporto tra significante e significato indotto (si parlerebbe di significanza, in altri luoghi) la partita che gioca Di Biasio, proponendo egli stesso nella nota d’autore che Panasonica è una lingua nuova, impastata tra il dialetto, l’italiano pratico e un inglese sonoro, partorito da tre generazioni.
Così tre lingue, tutte e tre masticate e rimasticate in un lungo labor limae, si trovano a guidare la partita a scacchi del lettore costantemente folgorato, durante la lettura, da quella “fonovisione” proposta come figura della narrazione di Di Biasio su La Balena Bianca dal sempre ottimo Michele Bordoni.
Ma c’è dell’altro: Saper dire è una ferita aperta, ci ricorda l’autore, e dunque non si può far altro che scivolare dentro le crepe del secolo e del tempo. Tutti, in questa generazione, siamo chiamati a questo lavoro di pazienza e vergogna. Predrag Matvejevic, nel suo Breviario mediterraneo, racconta la parola con cui i berberi, popolo sviluppatosi lontano dal mare, lo nominavano: Ilel. Allo stesso modo, con la stessa distanza qui convivono le tre lingue di Di Biasio, questo meridionale ostentato, l’italiano letterario, l’inglese internazionalista. Di Biasio inizia il suo viaggio parlando del Sud dall’inizio del Sud, dall’ancora-non-Sud. Da qui comincia a visitarne le case (jam a visita’ i sepulcr’), a giocare con i significanti (è un poeta, Di Biasio, che è stato bravo in questi anni a far progredire il gioco) e con i significati.
L’autore procede in una specie di inesausta e fremente curiosità che lo porta a ipotizzare mondi in cui i simboli possano sopravvivere a loro stessi (Il più grave peccato di cristo / è non avere toccato la vecchiaia / – cosa sarebbe stato oltre la croce?). In un testo in cui naturalmente salta all’occhio l’operazione linguistica, ma che tiene dentro, e vibrante, qualcosa d’altro. Un libro di poesia, quindi, un vero libro di poesia in un 2020 che sembra finalmente farci tornare ai testi, superati i divertissement degli ultimi tempi, che fa convivere il che polivalente con la polvere sui centrini, nelle case della guerra della calmezza.

A che volume vuoi che alzi il mondo?
Compi un gesto che vale una scultura:
con la mano pieghi il padiglione auricolare
come un calciatore dopo i fischi
e convogli il nonsentito nel canale uditivo
dove il buio delle voci va tra incudine e martello
sperando l’appenasentito pizzichi il nervo
e sia un segnale, la tua parabola colga
la parola, le strappi i petali del silenzio.
A che volume vuoi che alzi il mondo –
questa stereofonia della carne profonda?

 

Non rispondo più al telefono di casa
dalla notte che mostrò la tua regalità
il timore che sia ancora la tua voce
a chiedere “come stai?” perché collassa
ogni risposta, cadono dall’albero le ossa
ammonticchiate ai fili del vecchio apparecchio
singolarità spazio-temporale, santi e rosari
s’adunano per condurti a braccetto nell’origine
l’universo si fa sempre più stretto, denso e gira
gira come il tuo brodo di primordiale assenza.

 

I giovani deridono i vecchi per la lingua
la grammatica scorretta, l’italiano incerto
ma quando sale un’eco «che non finiscia mai»
la lingua dice piana una pagina strappata:
il secolo scorso i poeti scrivevano «io che andava…»
allora tu sei dentro i romanzi del primo novecento
altrove citata in una rara antologia di poesia.

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