“Qualcosa ci ferma / lungo il ritorno a casa”… Si apre così quest’opera prima dell’autore torinese Jacopo Mecca, nato nel 1992. Poesia, scrive Francesco Iannone, “fatta di schegge, di muti frammenti che si concedono alla seduzione degli sguardi. Sono rinvenimenti dello stupore e della meraviglia”. Un interessante poemetto che è soprattutto punto della situazione, riepilogo dell’identità invisibile, e che attraversa diversi fantasmi di un’esperienza frammentata e discontinua, probabilmente alla ricerca di una realtà impossibile da decodificare, da normalizzare, da ridurre a un comune denominatore. Procede per risposte logico-razionali ben definite: scavare nella terra, stare nella geometria del mondo, darsi una direzione, compiere un preciso atto di fondazione.
Il poemetto, come detto, si apre nei primissimi versi tirando in ballo un “ritorno a casa”, un tornare che è però consapevolezza (“Tutto è già lì / prima di noi, ma solo ora morde lo stomaco / come un crampo che non accenna a diminuire”). Il passo più complesso e difficile è quello della scelta, l’ultimo strappo prima di lasciare una traccia, seppur potente.
Ci sono luoghi, compagni di viaggio, incontri… Poppi, Stia, le foreste casentinesi, la comunità di Romena, Siena e le sue fonti. Ci sono ombre fragili, riflessi sul muro, (“Di qua, qualcosa esita e ripete / di stanza in stanza la pausa di chi resta”), si percepiscono distintamente “rumori del luogo che si assesta per le scale”. Si percorre con disinvoltura e coraggio “lo spazio vuoto / tra le pareti e le parole”. I muri sono protezione e separazione, risuonano come intercapedini vuote amplificando suoni e rumori, sprigionando paure e tremori.
Lungo questa ambivalente faglia delle stanze interne, il grimaldello potrebbe essere persino una semplice forcina, apparentemente innocua, eppure “prima freccia / negli inizi di un assalto”. Appaiono, saltando fuori quasi dal nulla, figure inattese: “Sul lungolago a pelo d’acqua si sgrana mossa / una sagoma dal bordo della riva. / Si fa avanti tra la nebbia e l’autunno”.
Si respira una diffusa precarietà d’equilibrio: “È questo cedere che fa tremare… – ti ho tenuta / come acqua nella conca di una mano”. Affiorano macchie dall’intonaco, diventando volti dalle sembianze minacciose e allarmanti, “come in un dipinto di Goya”. Sullo sfondo o negli angoli, come nei quadri, “accadono per davvero le cose”. Nella dimensione del frammento si celebra la liturgia contemporanea della distanza quasi incolmabile tra generazioni e tra individuo e individuo… Raggiungerli sembra impossibile, come del resto riuscire a chiamarli fratelli.
I tre testi che indossano il medesimo titolo della silloge, solchi I, II e III appunto, rappresentano quasi un concreto atto di fondazione di un modo nuovo di fare poesia, che sembra voler rinunciare ad ogni a capo per assecondare soltanto il margine del foglio, il perimetro tangibile della pagina. È un ritorno nudo e crudo al lavorare la terra, al raccontarsi proprio nell’atto fisico del fare.
“La terra è bassa e le ginocchia si lamentano”. Ci si sporcano le mani, anzi ci si segnano e ci si feriscono nella presa stretta della mano forte. “Così si traccia un solco”, in un primo colpo di zappa che suggerisce una precisa direzione da seguire. Per costruire i filari nei campi. Per disegnare parole che si dispieghino in versi concreti, prendendosi tutto lo spazio necessario.
Con questa silloge, composta da 12 testi, elemento caratterizzante della collana Il Leone Alato della Fallone Editore, Jacopo Mecca compie un passo ulteriore, che fonda e delinea la propria specifica voce, dopo già essere peraltro stato inserito, dai curatori Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello, nell’antologia Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta edita da Ladolfi. Ai suoi testi, anche in quel caso, venne giustamente riconosciuta la capacità di donare slanci, accensioni, ben oltre la semplice testimonianza diaristica.
Il suo slancio poetico, difatti dimostra di creare semmai “solchi”, quasi fossimo in un antico rito di fondazione. Versi consapevoli e lungimiranti. Testi classici nel dono evocativo del racconto e ambiziosi e nuovi nel loro materialissimo e meccanico solcare la pagina da parte a parte, dove la pagina diventa un campo coltivato dal quale, da lettori attenti, siamo chiamati ad aspettarne pazienti e a raccoglierne i frutti. Al momento giusto.

da solchi (Fallone Editore 2021)

VI

Non serve chiedersi quando ci sia finita
in questo spazio cieco lungo il fianco
del letto e la parete, sul fondo
di questa faglia che ha per fine il pavimento,
non serve chiedersi come ci sia finita una forcina.
È forse un segno breve di te
uno spessore minimo caduto per caso
ora che non è ancora una mattina d’estate
tra i resti persistenti dello schifo
di tutti i giorni che non dà odore:
carcasse di insetti, polvere e capelli.
Una tua forcina come la prima freccia
negli inizi di un assalto.

SOLCHI III

Ora prova tu. Sbaglia. Prova la presa sul manico:
la mano forte ferma davanti, l’altra dietro mo-
bile e libera sul contraccolpo. Non a parole, me
lo hai insegnato a gesti, dal sudore, dal ruvido
dei palmi. Così si traccia un solco: con posizione
misurata e il primo colpo di zappa che a fil di
spago taglia una direzione da seguire.

Jacopo Mecca è nato nel 1992 a Torino, dove vive. Sue poesie sono apparse su Atelier e su Poetarum Silva. È tra gli autori inseriti nell’antologia Abitare la parola (Ladolfi 2019) curata da Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello. solchi (Fallone 2021) è la sua opera prima.

Davide Toffoli (Roma, 1973) è docente di Lettere presso l’IIS Einstein-Bachelet. Collabora con varie riviste di settore. Ha pubblicato le raccolte poetiche Invisibili come sassi (Libreria Editrice Urso 2014), Ogni foto che resta. Camminatori e camminamenti (ivi 2015) e L’infinito ronzio (Controluna 2018). Figura tra gli autori de Il libro degli allievi. Per Biancamaria Frabotta (Bulzoni 2016) e Passaggio a mezzogiorno (Isola 2018).

(Visited 456 times, 1 visits today)