da Sonetti bianchi (L’arcolaio 2022)

L’ospedale è nuovo. Mi piacciono le sue architetture, i suoi volumi, i corridoi larghi e ben riscaldati, i colori caldi degli interni, i giardini pensili o il bar interno così ricco e accogliente che ci berrei anche l’aperitivo, questo venerdì. Nel vecchio ospedale ero sempre agitato, in ansia. Qua no. Recitare, si sa, non è fingere.
Conosco la strada più breve per raggiungere la tua stanza. Evito le altre corsie, prendo un ascensore, seguo la linea gialla del corridoio, penso solo di sfuggita alle altre vite confinate in questo luogo.
Si fa sera, il travaglio dura da ore infinite, qualcosa sembra non funzionare. Quel medico che somministra il farmaco sbagliato, le contrazioni che rallentano, le ostetriche giovani che ti guardano sperando tu non colga il loro smarrimento. È chiaro, qualcosa non va, il tempo passa, è ormai notte.
Quel senso di impotenza si stamperà nella mia memoria. Forse potrà servirmi, o forse sarà stato solo un terrore inutile. Fuori, anche se siamo a fine luglio, è piovuto ogni tanto sul giardino del secondo piano, durante il pomeriggio.

*

Un pomeriggio, a casa da solo, ho pensato troppo. Cercavo notizie sulle incubatrici, sui bambini più fragili che spesso ne fanno esperienza. È così che ho letto in modo confuso notizie su Anna Smajdor, una ricercatrice in bioetica dell’Università di Oslo, che equipara la gravidanza a una malattia (per essere precisi la paragona al morbillo) e chiede al governo maggiori finanziamenti per poter debellare il parto e promuovere l’ectogenesi. L’uguaglianza dei sessi. La fine dell’età vittoriana. Il lessico per il futuro.
Poi Google mi suggerisce un link alle ricerche del prof. George Mychaliska. La placenta artificiale in grado di mantenere in vita i neonati estremamente prematuri sarà presto realtà. Un tubo endotracheale fisso farà in modo che il feto non inizi a respirare troppo presto e non danneggi i suoi polmoni prematuri. C’è sempre un’idea di bene all’origine.

*

La notte è andata. Così la mattina e il pomeriggio successivo, nello stordimento. Niente di quello che è successo nelle ore appena passate, in questo ospedale come nella città che lo circonda, entrambi pulsanti e inquieti, è condannato all’insensatezza. La possibilità del senso del senso. La possibilità di agire, modificare. O anche solo quella di accettare. Ho ascoltato ossessivamente, in questi giorni estivi di attesa e desiderio, alcune canzoni rock. Sempre le stesse. Sono perfette per questo momento quando, uscendo dal parcheggio dell’ospedale
verso sera, il sole si stampa sulle superfici metalliche, sui grandi vetri occidentali, sulle giunture e sui tubi fumanti. Le ombre fluttuano, le cicatrici, come i cieli, cominciano a svanire. È così che comincia, questo ballo finale.

*

Le preghiere esistono per mutarti
o rapirti. Accadono raramente
accordandosi al pianeta, muovendo
grammi di vuoto, i battiti d’un nulla,
le porzioni di un’eclisse. Vivono
usurando le solite parole.
Nella notte è successo un fatto ancora,
lo chiamiamo amore adesso, col fiato
che si fa caldo, che rinnova il salto
della fede, la speranza di un senso
che giungerà qui, presto. Penso questo
nei minuti fra una contrazione
e l’altra, una spinta, l’istinto senza
riserve, dare tutto, esserci, dare

*

Tremerà la morte, si farà pallida
quando nel suo grembo notturno – giorno
splendido e crudele – scivolerà
il tuo nome. Dove sarò, colomba
mia? Se tutto diviene protezione
e scarto dal giorno ovvio, se tutto
chiama a questo essere qui, per te vivo,
corpo e storia, stile perenne, inverno
del secolo – se tutto inizia questo
sorriso prematuro, quale grido
negli orli sentirò del cosmo? Un inno
perso, una musica grande che piega
i calendari, la stringa con dentro
la nostra nascita, il tempo e la luce.

*

Tutto quello che rimane negli anni
delle vecchie linee di un codice
scritte altrove, pensate da un altro
per altri scopi, nutre piattaforme
che lanciano anche stamani il solito
enorme e splendido attacco algoritmico
– New York Exchange o quello che sarà,
in altre città ventose, in futuri
secoli perenni di gioie cupe
e ignote; tutto questo nella pioggia
americana – segno dissolventesi
di un cuore realista – appare morto
se ti tengo in braccio, se ti porto
con me, sulla sponda opposta del fiume.

 

Gabriel Del Sarto ha esordito come poeta nel Sesto quaderno di poesia contemporanea curato da Franco Buffoni, nel 1998. Nel 2003 ha pubblicato la prima raccolta poetica I viali (2003 Ed. Atelier) ed è presente in diverse antologie fra cui L’opera comune (Atelier 1999), Poeti di Vent’anni (a cura di Mario Santagostini Ed. La Stampa, 2000) e Nuovissima poesia italiana (Mondadori 2004). Nel 2011 ha pubblicato la  seconda raccolta poetica: Sul vuoto, nella collana Nuova Poetica di Transeuropa e nel 2017, per i tipi di Nino Aragno Editore, ha pubblicato la terza raccolta Il grande innocente. Ha scritto alcuni saggi sull’uso e il senso della narrazione (storytelling) nelle pratiche di consulenza e formazione.

(Visited 258 times, 1 visits today)