«Ti rendo grazie per tutta questa cianfrusaglia del- / la vita, in cui annego senza scampo da tempi im- / memorabili, mortalmente assorto nella continua / ricerca di minuzie»: così Zbigniew Herbert, nel suo lirismo logico, nel suo geometrico disincanto, esprimeva il vuoto di senso che abita il frastuono delle cose (Zbigniew Herbert, L’epilogo della tempesta, trad. Francesca Fornari, Adelphi 2016).
Il brulicare di una realtà caotica e dolente, continuamente lambita dal male è un tema centrale anche nella produzione poetica di Lorenzo Carlucci, che trova particolare compiutezza nella sua ultima opera, Sono qui solo a scriverti e non so chi tu sia. Qui, asettiche meditazioni sull’esistenza, prose dai forti cromatismi emotivi, note dissacranti, cronache di vita minima, apostrofi che scivolano, a tratti, nell’invettiva, si intrecciano a passi squisitamente cadenzati, in cui settenari, novenari, e altri metri cantabili ritmano «scenari dionisiaci e prerazionali» (come afferma Davide Castiglione, che magistralmente accompagna); ecco che prosodia e postura evocano allora una «primordialità o auroralità dell’esistenza» che sembra voler porre a latere inessenziali «sovrastrutture razionali e sociali», in favore di una «comunità» originaria; un’unione nell’armonia che – se pur minacciata da egocentrismo, emarginazione, squilibri di collettività o instabili pulsioni interiori – rimane la sola forza centripeta, riaggregante dell’umana confraternita.
Del paesaggio gremito e schizoide che fa da sfondo all’attuale, la scrittura di Carlucci si fa emblema: rifiutando «ipotesi unificanti» ma presentando un «molteplice e dissonante materiale» (Morresi), il poeta rinuncia a quella prospettiva unitaria e personale che, cercando in alcuni autori di dare una ideazione omogenea, si rende colpevole di una «(pre)cecità nei confronti di quanto, pur esistendo, non è formalizzabile all’interno di quel dato sistema» (Castiglione).
D’altronde Carlucci nasce filosofo, si struttura professionalmente nell’insegnamento della logica matematica applicata all’informatica, si occupa di critica d’arte e di poesia: ha dunque in sé quella pluralità di sguardo che lo rende sintonico, e quindi a un tempo abile e indifeso, di fronte alla contemporaneità, a quell’enorme fronte di avanzamento di informazione, tecnologia, visione ermeneutica malferma, terribilmente volubile, che accerchia la coscienza: una materia intellettuale e spirituale in continua evoluzione, commistione e metamorfosi che del nostro vivere è cifra spaventosa: «Questa grande / confusione i castighi i massacri le dominazioni questa grande / confusione impassibile inarginabile su questa impossibilità / di arginare fondare fondiamo come il maschio che trova un / punto d’appoggio per la monta come la femmina l’offre e / permette; la negazione della morte in un sacrificio alla morte».
Se tutto questo impatta senza decelerare su un intelletto formato e attento, forzato a coglierne ogni sfumatura, il risultato è un’opera come questa: sovrabbondante di stimoli sensoriali e concettuali, cangiante per metro, tono, registro, struttura, compendio musivo e iridescente di variegate inquietudini. Così il poeta stesso, in un esplicito passaggio: «Non credo si possa desiderare di fare qualcosa della propria / vita. Tutte le forme sono rotte. Canto».
Pure, appare quasi come una liberazione questa mancata possibilità di perfetta finalizzazione. Sui cocci di forme tentate e riposte, si eleva il libero canto della complessità: un appuntare, prender nota, alternando ritmi e accenti, mischiando durezze e inaspettate aperture liriche, mantenendo tuttavia l’attitudine dissacrante verso ogni luogo comune, verso ogni automatismo psichico o verbale: lo sperimentalismo della forma, con cadute al triviale e inattese elegiache risalite, ottengono quell’impromptu sismico e disturbante che fa intuizione desta, cambio di prospettiva: «Troppa carta per scrivere. tu produrre. tu tenere. dei crimini, / i più impuniti: i più efferati. per un giorno con chi pren- / de la corriera tutti i giorni. dai paesi per andare a lavorare a / studiare in città. sudare per mangiare e studiare per conosce- / re. una maledizione piena di grazia piena di rigore».

Che le «forme rotte» siano di natura esistenziale oppure letteraria, l’ordinario è ugualmente dismesso: nell’abbracciare nuove fisionomie, che siano destrutturate e spiazzanti, il significato collima: sulle macerie del non più percorribile, nasce un nuovo senza intenzione, con esistenza in sé. L’oggetto d’arte da prodotto diviene tracciato, da rifinito monolite diviene messaggio stratificato: né simulacro né residuo, piuttosto una creatura, che non intende celebrare le abilità – evidentemente notevoli – dell’autore, ma fare esposizione. In tal senso, il frutto poetico rivendica la propria «inermità» (Castiglione), anche al cospetto dell’obsolescenza, lasciando nei propri versi un precipitato di suggestioni (personaggi politici al tramonto, device tecnologici licenziati) appartenenti a un recente già sconfitto; e, d’altro lato, portando in sé espressioni verbali ormai in disuso: il prodotto letterario, per vocazione, sceglie di partecipare all’avaria che il tempo infligge al tangibile, affermando la dignità delle funzioni sincroniche della coscienza. Questo ex-presente non è ancora pacificato in un passato che sia altro da noi, ma aleggia alle nostre spalle come una nube di provvisorietà, ricordandoci che non esiste l’assoluto definitivo, ma solo l’esponenziale accelerazione, l’instabilità.
Alla stessa maniera, in altri aspetti l’opera nuovamente si espone, indossando affermazioni, termini o posizioni volutamente inconciliabili e respingenti, nell’intento di spostare l’attenzione da sé, e compulsarla sulla riflessione che vi scorre a latere: di nuovo, il capolavoro non vuole essere il testo scritto, ma l’autocoscienza che, mediante il disturbo, esso riesce a indurre: «Del male, non parliamo, andiamo a cavallo. Del tempo che / ci insidia i denti, ridiamo coi denti. Con la pelle godiamo dei / giorni che ci consumano la pelle. “Oh lima sorda”, pur senza / una condanna. // Cambiamoci le suole prima dell’invasione. Prima che sulle / nostre sponde appaiano i figli senza nome, tanti come / gabbiani. Perché le sponde non sono più nostre, ed è per / questo che vengono invase. Perché le sponde non sono più / nostre perché noi non siamo più noi stessi. Siamo bianchi, e / senza sponda. Andiamo bianchi alla liberazione del diventare / schiavi».
Il linguaggio ripidamente lirico, alternato agli inventari di deprecabili miserie – tra tutte, le trovate pubblicitarie ai limiti della perversione – e all’ironia che pervade finanche le rive più tragiche dell’opera, danno a Carlucci un timbro squisitamente eliotiano. La Terra desolata che il poeta qui delimita è un vortice di bassezze e di istinti primordiali, sempre su una soglia di allarme: «Anche lui tratteneva, come un maci- / gno appeso a uno spago, giù da un ponte, una lettera oltre il / balcone della Tour Eiffel, anche lui tratteneva, tenendo nelle / mani scure la pelle bianca della nostra amica, della sua mae- / stra, tratteneva se stesso, tratteneva la gola, il sesso, le parole, / in bilico tra il rantolo e il sorriso. […] così io cantavo e canto, per me stesso, per trattenere / il dolore, trattenere il riso. Per l’impossibilità di amarti sulla / strada per Craiova, dove i tuoi fratelli diventano zingari, un / giorno dopo l’altro[…] Tutte le cose belle ci sono date, dunque, solo per farci ancor / di più soffrire, dell’impossibilità, dell’incapacità di averle?»; con un baricentro meditativo che sembra portare sempre nei pressi del disgusto di sé: «E tutti di noi si lamentano – anche i nostri cani – / siamo sconosciuti nessuno ci ha mai incontrati / siamo come un fantasma senza immaginazione / siamo come una apparizione – sulla piazza maggiore / non conserviamo nessuna parola e non ci interessa la verità. / marciamo di fianco ai muli da soma / pensando pensieri asinini».
Al pullulare di un teatro sensorio proteiforme fa da contraltare una dolorosa inanità: la non pervenuta essenza delle cose induce una nostalgia senza centro, il cui oggetto rimane incompiuto: «Ho lasciato vuota la mia testa per te, mondo, e tu non hai / niente da dire. mi sono straziato il cervello prima che lo fa- / cessi tu, padre, tempo, e tu non hai niente da dire. ho sba- / raccato casa. idee opinioni affetti. ho sbaraccato casa e sono / naturalmente restato qui da solo. e tu non ti affacci neppure».
Struggente, nelle prose poetiche, l’uso delle anafore, che danno un sapore rapsodico al gesto: «Cantavamo per i bambini malati, ricordi, in un quartiere / popolare di Colonia! / […] Cantavamo per i bambini malati, Luca, ricordi, in Romania / […] Cantavamo per i bambini malati, non ricordo più dove, /Luca» e ai personaggi, attribuendo loro epiteti indelebili: «Cantavo in piedi, alla chitarra, alla tua sorellina, / che è troppo intelligente per distrarsi, toccavo la chitarra di / suo padre, dopo aver visitato la sua casa. Suo padre non è più / davvero un uomo e la sua casa è vuota, ma abbiamo lasciato i / disegni che teneva sulla porta, i disegni di tua sorella piccola, / che è troppo intelligente per distrarsi». Ma anche, la ripetizione, oltre che attributo ritmico ed esornativo, può essere intesa come cenno rituale (come Morresi, con intuizione sottilissima), e diviene così «dispositivo di coesione e contenimento del molteplice»: formula magica, tragico esorcismo, al cospetto del magma che ci assedia.
Il poeta si arma altresì di una consapevolezza principe: l’infinitesimo grado di comprensione umana di tutto ciò che lo circonda: «Il riuscire a / vedere l’uomo sullo sfondo smisurato di ciò che ignora non / può che generare pietà per una creatura così fragile immer- / sa in una non-conoscenza. Percepire anche sé stessi in tale / condizione (condizione umana) genera quel sentimento alto, / la compassione, dove la sola forma di oggettività permessa / all’uomo è raggiunta»; è qui che il contrasto tra la finitezza di anthropos – di ogni sua qualità e manifestazione – e l’interminato che lo ospita fiorisce in tenerezza: «Poveri passi d’uomo / sulla strada / la sera ed al mattino / e nuovamente / la sera ed al mattino / poveri passi d’uomo / nella bocca / poveri denti d’uomo / povera voce».
Si eleva, dunque, il mandato: generare un’opera che non celebri l’autore, ma cerchi di prescinderne: «E allora io ringrazio Cristo, che ci ha provato / dandoci il suo nome, la possibilità / di avere il nostro nome cancellato. / chi non ha ancora rinunciato al proprio nome / come potrebbe capirmi altrimenti, e io, da questo sprofondo, / come potrei farmi riconoscere da lui?».
Ecco la scrittura che spiazza e spaventa perché, nella vorticosa congestione che la scuote, ci somiglia: la poesia ora è mezzo, non fine, e si fa da parte: si fa seme di un miracolo condiviso, che sia di nuovo «comunità». Siamo creature sole e imperfette, in un mondo in corsa: sapere il mancato e rallentare a guardarsi, sembra dire Carlucci, è l’unico gesto davvero poetico che ancora si possa fare.

da Sono qui solo a scriverti e non so chi tu sia (peQuod 2021)

I bambini lottano nei prati, e noi ridiamo. Anche se poi non
siamo loro padri né a loro è dato di riconoscerci come tali.
Anche se da questi figli riceviamo soltanto il rifiuto.

Voi avete detto una parola di troppo, e siete stati presi. Avete
detto una parola di troppo a voi stessi. Di stanza in stanza,
senza pensare ossia senza guardare, senza esser disposti a
lasciare. Una parola di troppo avete detto, voi con la barba
o senza, e quella parola ha desolato il cuore, ha spento
l’orizzonte.

*

La desolata terra, la deforme, il dietro-le-vetrine, l’obesa li-
bertà, l’obeso amore, la diffusione dell’affanno e del respiro,
per le strade, il tentativo, la desolata animalesca angoscia di
un popolo che è insieme primitivo e decadente (“nato soltan-
to a morire”). Oh! Qui è la porta! Venite qui! Da qui si esce!
Da qui si esce!

*

Quando ancora tua madre era bella, chinava un sorriso al
vitello, lavorava tutto il giorno e la sera, lavorava il tuo cuore
con uno scalpello d’amore. Spiava gli affanni della tua picco-
la carne. Se non li avesse spiati, sarebbero ancora? sarebbero
stati? Oh, l’essere visti! Il vedere!

*

È bello ridere così, del nulla, e poi riprendere il cammino
lungo uno scoglio più acuminato e solo, sul profilo di un
universo che è fatto d’ombra, sfiorando braccia che sono di
papavero, occhi dolci come cenere umida, dopo le braci e
la pioggia. Dopo le braci del mondo incontrare il mondo,
candido e netto scritto con le lettere del cielo. Il cielo è una
lettera bianca la terra, la caduta del tempo, la dolce rapina
infinita, una carezza che graffia la pagina rossa dei nostri to-
raci nudi.

Cammina con libri legati con lacci di cuoio ai polpacci.

Raggiunge una terra che non ha nessun nome.

Incontra uomini appena riavuti dal pianto.

Bello è ridere, così, del nulla, sotto il manto del papavero,
sotto la pioggia invisibile del polline umano, sotto lo sguardo
mite di un impiegato alla fermata del tram, con le braccia
tatuate.

Ha scritto sui bracci tutti i nomi dei figli e si sa che ha scalato
i ripidi mari. Li ha scalati come la formica scavalca un muc-
chio di pietre.

*

Sulla spiaggia, un cormorano ed io. Osservo i suoi passi.
Sono trasceso dalla sua natura. Non c’è nulla di più profondo
che il guardare un animale di un’altra specie. Forse soltanto
il guardare un animale della stessa specie e di un altro sesso.
Forse soltanto il guardare un animale della stessa specie come
se fosse di un’altra specie. Forse il guardare sé stessi come
un animale d’altra specie. Guardando un animale di un’altra
specie si giunge al fondo di tutto quello che conta sapere
nella vita. Al collidere ed esplodere di somiglianza e dissimi-
glianza. Al collidere ed esplodere della ragione come facoltà
del dissimile e dell’immaginazione come facoltà del simile.

Lorenzo Carlucci (Roma, 1976) si è laureato in Filosofia, e specializzato in Logica Matematica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha conseguito un Dottorato di ricerca in Matematica a Siena e un PhD in Computer Science alla University of Delaware. È Professore Associato di Logica Matematica presso il dipartimento di Informatica dell’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato Semeyazah – il mio nome ha visto (1994) in playOn poetry (ADR 2002), estratti da Newark Concrete in If music be the food of love, play on (Scheiwiller 2004), La Comunità Assoluta (Lampi di stampa 2008) e Ciclo di Giuda e altre poesie (L’arcolaio 2008). Ha tradotto Il Dossier del Fauno in Stéphane Mallarmé, Erodiade e il fauno (Ladolfi 2016); con Laura Marino, ha curato la prima traduzione italiana dal latino del poema medievale Architrenius di Giovanni di Altavilla (Carocci editore 2019, Premio Geiger Opera Prima per la traduzione poetica nel 2021). Sue poesie sono apparse, nella versione inglese di Todd Portnowitz, su alcune riviste internazionali.

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