È senza dubbio una cosmologia senza teleologia quella disegnata da Antonio Francesco Perozzi nel «suo personalissimo De rerum natura» (mutuo l’espressione da Carlo Tosetti), e cioè nella recente raccolta intitolata Lo spettro visibile (Arcipelago itaca 2022). Una cosmologia, la sua, cui obbedire («obbedisco» è la prima parola che leggiamo dopo il titolo), forse non con amore (l’amor fati, citato nella bella prefazione, è concetto prettamente stoico, non epicureo, e quindi presupporrebbe un atteggiamento finalistico), ma quanto meno con un certo senso del dubbio o di sospensione del giudizio, mettendo tra parentesi l’atteggiamento naturale con cui viviamo il mondo per porci al di là di esso e, per un breve istante, forse anche superarlo.

La raccolta si snoda in sei sezioni (Catabasi normale, Dalla soglia, Lo stato animale, Inquiete, Unità rocciose distinte, Chema) attraverso cui discendiamo al fondo dei tria regna della natura, quello animale, quello vegetale, quello minerale, in una klimax che progressivamente attenua via via il grado di percettività (e quindi di dolore) e va dal massimamente percettivo al grado zero della percettività (la sacca subatomica, il chema o dio). Questa discesa si sviluppa attraverso una struttura che passa, nei primi componimenti, dal nero di una notte le cui «ombre di fumi viola» si alternano alla luce lunare, all’albore del giorno per giungere infine nuovamente, in struttura circolare, all’oscurità dell’esosfera, al cosmo dei cosmi e alle ragioni intrinseche che lo governano  (cf. Per la nostra relatività). Il perozziano descensum ad inferos non può che rimandare a due illustri modelli della letteratura italiana da cui però si distingue nettamente: il viaggio di Dante nei tria regna dell’oltretomba e quello, ancora più vicino, del Laborintus di Edoardo Sanguineti cui la sezione Catabasi normale inevitabilmente rimanda. La celebre Palus Putredinis e tutti i luoghi citati da Sanguineti e che tratteggiano una ben definita cartografia lunare non sono altro, come la Catabasi normale di Perozzi, che l’attraversamento della banale melma della quotidianità. Ma se il viaggio oltremondano di Dante comincia di notte e finisce di giorno, e se la Nekyia di Sanguineti è una linea retta che conduce al di fuori dalla guasta e marcescente comune pratica di vita, prima attraverso Ellie (donna amata dal poeta che Perozzi cita a mo’ di omaggio nel suo Filosofia dell’ingombro) e, soprattutto, attraverso λ (in cui è da intravvedersi Luciana, moglie poi di Sanguineti), il viaggio di Perozzi si svolge, nella sua parte centrale, al giorno. Perché? Ma è chiaro: perché senza luce non si danno i phainomena i cui colori e le cui forme e consistenze dipendono dalla ricettività dei nostri sensori alle varie lunghezze d’onda della luce: «Ho appreso dalla cecità del mattino / la tecnica per votarli alla catena / dei fenomeni» (cf. Epochè). Senza luce non si darebbe lo spettro visibile. Diversamente da Sanguineti, i cui lacerti poetici chiamano in causa la psicanalisi e l’alchimia, la patristica e le comuni interazioni quotidiane, Perozzi, come dice bene il prefatore Pasquale Pietro Del Giudice, «attraverso la poesia, gioca con la fenomenologia e la scienza; lo spettro visibile, infatti, in fisica, rappresenta quella parte dello spettro elettromagnetico che cade tra il rosso e il violetto, includendo tutti i colori percepibili dall’occhio umano che danno vita al fenomeno della luce». Fenomenologia e scienza si unirebbero, dunque, ne Lo spettro visibile. Cominciamo dalla seconda.

Nella tradizione occidentale poesia e scienza (o meglio proto-scienza), volendo, nascono insieme, ai fini, naturalmente, della mnemotecnica (il verso cioè era usato in un contesto di fruizione aurale-orale): pensiamo al physiologos e taumaturgo presocratico Empedocle (fl. V sec. a. C.) di cui ci sono rimasti frammenti di un poema in versi esametri Sulla Natura di carattere fisico e cosmologico. Oggi però, quando il poeta si accosta alla scienza, vista la separazione che vige adesso tra scienze umanistiche e scienze esatte, egli/ella ci mostra, invece, il modo che il soggetto (o una pluralità di soggetti) ha di percepire l’oggetto o l’oggetto/soggetto. Ora, Perozzi, nei suoi versi (come nota Tosetti, il verso più utilizzato è l’endecasillabo, ma sono presenti anche settenari e doppi settenari), quando si avvicina alla realtà non usa nomi comuni, ma termini tecnici: il fico non è meramente il fico, ma è il Ficus caricus, della pianta officinale Saponaria Perozzi riconosce la foglia lanceolata, la foglia basale, la guaina, le stipole, la lamina, etc. (cf. Evento e struttura). Quello che infatti colpisce primariamente è l’utilizzo, per così dire, spontaneo e naturale di termini desunti, invece, dal lessico scientifico. È vero, come dice Roberto Corsi, che tale utilizzo sembra andare in parallelo con una tendenza ineluttabile alla diffusione del sapere scientifico, ma non credo sia soltanto questo. Io credo che sia anche un tentativo da parte del soggetto di superare la vaghezza e, per certi versi, la fugacità del transeunte tentando di raggiungere una maggiore acribìa definitoria, propedeutica alla vera conoscenza (e d’altronde, nella VII lettera, Platone inseriva il nome come il primo degli elementi che introducono alla conoscenza, essendo gli altri la definizione, le immagini visive e le percezioni). L’uso di termini tecnici diffusi in tutta la racconta sembra, in definitiva, voler dissipare le nebbie verbali e mettere quindi meglio a fuoco l’oggetto.

Passiamo ora al problema del phainomenon. La poesia di Perozzi si può definire «fenomenologica» in quanto pratica costantemente un atteggiamento di matrice husserliana, ovvero quello di mettere il mondo tra parentesi attraverso la cosiddetta epochè fenomenologica, una temporanea sospensione del giudizio di fronte ai fenomeni, di fronte al loro apparire integri e indivisi. Tale epochè impedisce un’analisi del mondo ingenua e diretta e schiude, invece, il terreno alla conoscenza di essenze (cf. Epochè, Alternanza di siccità e di piogge abbondanti, etc.). Accade, in questo tempo sospeso, che il phainomenon, cioè l’intero, si sdoppi da se stesso e produca oltre a se stesso una sorta di scia, una traccia visibile, eine Spur e ciò si verifica con grande evidenza in due componimenti: Lo spettro visibile e Inconfutabilità del tarassaco. In entrambe le liriche, il fenomeno, sia esso uno scarabeo o il tarassaco, si verifica/si manifesta, giacché accade in un dato spazio-tempo («Così chilometri nell’orizzonte uno scarabeo / si verifica», «Comunemente un tarassaco si manifesta») e lascia, come dicevo prima, una traccia, ma ancor meglio un’aura d’intorno, una aigle luminosa che Perozzi definisce o «spettro» (facendo leva sul doppio senso del termine, «spettro visibile» nell’accezione fisica, oppure come sinonimo di «fantasma» che, guarda caso, ha la stessa radice di φαίνομαι) o, più chiaramente, «esalazione della realtà» distante da essa un qualche secondo (cf. Lo spettro visibile, «Così chilometri nell’orizzonte uno scarabeo / si verifica: è lui, primavera di carne che / entra per sempre. È lui, è spostato / qualche secondo in avanti rispetto /al proprio spettro»).

Di pari passo, la forma della poesia di Perozzi risente grandemente, ai miei occhi, di questa attitudine a mettere fra parentesi il giudizio, di questo diktat che il poeta chiama «la sospensione dell’intero». Da un lato, infatti, l’impostazione dei versi de Lo spettro visibile sembra ricordare un certo impianto argomentativo proprio della poesia didascalico-lucreziana (un esempio eclatante può essere il componimento Inconfutabilità del tarassaco che è diviso in tre strofe dal titolo Ipotesi, Tesi e Dimostrazione, oppure un altro esempio può essere l’uso frequente di connettivi causali come i diffusi «perché» e «perciò»). Tuttavia, come accennavo, il dettato di Perozzi,  contrassegnato vieppiù da pochi giochi sonori (assonanze, consonanze e rime si collocano spesso in chiusa a mo’ di fuggevole arabesco) e da alcuni travestimenti in stile sanguinetiano («vuoto cosmico» muta in «nuoto cosmico», ad esempio), mostra alcune caratteristiche che ci rendono visibile e, per così dire, leggibile, l’epochè che il poeta mette in pratica con la sostanza dei suoi versi. Frequentissimi infatti sono gli enjambement, ma non solo: Perozzi utilizza un vasto bagaglio di altre tecniche per sospendere il discorso. Se in altri componimenti Perozzi destruttura le parole da un punto di vista morfologico o le separa tra un verso e l’altro o addirittura inserisce a fine componimento i puntini di sospensione o i due punti, nel componimento Lo spettro visibile (lo antologizzo qui sotto) tale sospensività è data, oltre che dai succitati enjambement, dalle parentesi e dai trattini, ma soprattutto da una sintassi che presenta rimarchevoli tâtonnement: un paio di versi in questo testo terminano in posizione rimica, e quindi in sede significativa, con un relativo straniante («…la strada che.», «…dentro cui.»). Alla sospensione del giudizio fa dunque da contrappunto la sospensione del discorso e viceversa, in modo tale che forma e contenuto trovino ne Lo spettro visibile felici equilibri. Infatti, nell’intreccio di poesia, scienza e fenomenologia che contraddistingue la raccolta, tali strategie stilistiche sospensive appena enucleate sembrano avere il lampante scopo di lasciare spazio al completamento personale e, quindi, al pensiero e, per i più pervicaci o, meglio, forse per i Don Chischiotte più coraggiosi, financo alla contemplazione eidetica, cioè conoscitiva, delle essenze, oltre la realtà e i suoi phainomena.

 

dalla sezione Catabasi normale:

Notturno

Oggi non posso stare dentro
sette metri per sette
non ho luce – un lumino
a farmi l’inverno e la luna
che è alta, Venere alta…

Sentimento vuoto questo
tempo: l’insegnamento?

Eccole una ad una le notizie,
le cronache disposte in fila:
compratele tutte – lasciatemi
niente se Venere
è alta, la luna alta…

Che uscisse un dio
(adesso)
da queste begonie:
gli offrirei il collo farei
io la vittima al sacro
convincimento che possa tutto
piegarsi a un giudizio

*

dalla sezione Dalla soglia:

Lo spettro visibile

È apparso il giorno come una cosa
frontale, e prima del previsto. Lecci da poco
si scartano dalla collina che è l’occhio
di noi, le case salite, la strada che.
Mai si sarebbe pensata tutta l’aria
– scarsissima – evaporata tra gli organi
che guardano fuori e appunto il fuori
ora così reattivo alla pelle, grosso, dentro cui.
Difficilissimo spiegare come (droga
degli angeli) si è fatta la pietra (reale), la valle
(reale), la scommessa ormai presa per viaggio.
Così chilometri nell’orizzonte uno scarabeo
si verifica: è lui, primavera di carne che
entra per sempre. È lui, è spostato
qualche secondo in avanti rispetto
al proprio spettro.

*

Epochè

Sono concretamente le cellule che muoiono
le parentesi.
Fidati – se puoi – e seguimi
lo sforzo di riconoscere i contro-pesi
che succhiano da dietro la zona dove
un gatto si sottrae e il giovane che vertebra
per vertebra sei stato non sei.
Ho appreso dalla cecità del mattino
la tecnica per votarli alla catena
dei fenomeni; so che si trova
sulla piega del pelo l’indizio
di ogni sua mancanza.
Adesso
posso lasciare sbrinarsi
la misura opaca, e sbrigliarsi
la monta estiva delle asine: tutta
massa, tutta raglio, tutta spinta, il lutto
dei vuoti cosmici sospeso.

*

Pianta, animale, vortice, Dio

Prima o poi si marcisce al sole,
si compare in quattro cinque maniere
di malattia.

Quella che indossi è l’animale,
un sicuro esaurimento di risorse
fiutate prodotte assunte con l’uso
delle mani del pensiero spesso.

Poi c’è la vegetale, un demonio
che trattiene sopendo la linfa e un segreto,
cava spuma dai metalli e sta
tutta la vita da una parte.

Il resto è minerale o agita
i frammenti della realtà antartica,
non solo: vortici dietro il cristallo
nascosti chiamarli chema oppure Dio.

Ci chiediamo che fare. Una risposta
– diciamo un quesito – nasce in chi obbedisce
al disordine, guarda di traverso e ricorda.
Prima o poi si marcisce al sole e fuori
da questo accadere non importa.

*

dalla sezione Inquiete:

Inconfutabilità del tarassaco

Ipotesi

Che ciò che è nato si chiama
anche oltre le scissioni fusto-ambiente.
Comunemente un tarassaco si manifesta.

Tesi

Che ciò che è manifesto si chiama
tarassaco. Dal momento che è nato
non possiamo farci niente.

Dimostrazione

Tra i vari esercizi di esalazione della realtà
c’è quello degli occhi, il più facile e piegato
alla logica-terrore delle scaglie venute a parlare:
schiuma (ci sei) / palpebra (morire alla volta).
Rivista la parete dei mondi ne è chiaro
il fallimento.
Più seducente e ultimo
è l’argomento della ragione, ma basta pochissimo
– una faglia, qualcosa che si sposta – che il tarassaco
ti muove sopra una nidiata di linfa, roba che esce
dagli schemi dei popoli, un atto di acqua e di tesi:
la vena che è frontale (radici), il silenzio
che stupido sa tutto della lingua (non l’opposto).
Fino a qui possiamo dire che ci siamo; nessuno
tra i vari esercizi di esalazione della realtà
scioglierà questa creatura.

*

Orgia

Si sparpagliano in agosto, le spore
che le felci licenziano a prescindere
se tu hai modo o no di vederle. Dentro le
pozze d’aria ci stagni tu e lo sperma
della sacra orgia vegetale – irradia
l’acero e sai che quelli in cielo sono
i suoi figli, i figli bicarpellari.

Continuamente il coito si consuma
nei silenzi a giro, nelle rivolte
planate dagli insetti in mezzo all’erba,
nella breccia del tifone che sparge
dappertutto un’esistenza a ricevere,
gli ovuli numerosi – viene al sole
per intercessione di api, la veccia,
persona entomofila, creatura
di un dio che senza scienza sapeva.

 

Antonio Francesco Perozzi è nato a Subiaco nel 1994 e vive a Vicovaro, in provincia di Roma. Insegna italiano nella scuola secondaria ed è autore del romanzo Il suono della clorofilla (L’Erudita, 2017) e della silloge Essere e significare (Oèdipus, 2019, prefazione di Francesco Muzzioli). Cura la rubrica Dialoghi per Poesia del nostro tempo, gestisce il blog di scritture “La morte per acqua” e suoi articoli, racconti, poesie sono apparsi in riviste e antologie. Lo spettro visibile (Arcipelago itaca 2022) è il suo ultimo libro.

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