In questo scritto vorrei prendere in esame il problema, sempre più ricorrente, della sincerità poetica, focalizzando, più in particolare, l’attenzione sulla relazione che sussiste fra la verità in poesia e l’odierno modo di avvicinarsi nel comporre poesie. Desidererei, inoltre, approfondire il concetto giapponese presente nella poesia haiku chiamato «makoto», la «verità poetica» che, come vedremo, è, e dovrebbe essere, un cardine per il modo di comporre le poesie haiku.

Se definiamo una poesia come una sorta di manufatto artistico ossia un oggetto comunicativo atto a riprodurre nel lettore emozioni e sentimenti propri del poeta, essa non potrà mai essere scevra da quell’intimità dell’anima del poeta che irrimediabilmente coinvolge il lettore. Il vivere deve precedere la poesia: questo, per un vero poeta, è forse l’unica cosa che travalica la poesia stessa. Non può essere altrimenti: le esperienze di vita del poeta devono confluire nell’opera d’arte, nella sua poesia affinché questa non divenga un semplice gioco linguistico o un vezzo. La poesia nasce da riflessioni sul proprio vissuto e, senza vissuto, non può esserci poesia. Si può, ad esempio, comporre una poesia sul tramonto, dell’esperienza che si è avuta di quel particolare tramonto, sulle emozioni provate se prima non si è vissuto in prima persona e in profondità tale tramonto? La risposta credo sia apodittica.

È dalla riflessione attenta sul quel personale e intimistico vissuto, proprio del poeta, che nasce e si origina la poesia più autentica e più vera. Questo particolare modo di concepire la poesia come uso artistico del linguaggio, come opera d’arte, è stato più volte ribadito, in Occidente, dai grandi poeti del Novecento. Su tutti ricordiamo, a tal proposito, Umberto Saba e Giuseppe Ungaretti, quest’ultimo ebbe a dire: «Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in un’opera d’arte se in primo luogo tale opera d’arte non sia una confessione».

La poesia come confessione, quindi, come capacità, da parte del vero poeta, di una sincera analisi di se stesso e del mondo: in altre parole è il saper discernere umilmente quanto non serve di sé al lettore e quanto, invece, è degno di essere elevato e può avere dignità letteraria. In questo procedimento l’autocritica e la capacità di saper scegliere giocano un ruolo fondamentale: ciò che distingue uno scrittore di versi da un vero poeta è proprio il fatto di saper scegliere le parole da dire o non dire, il soggetto da rappresentare o non rappresentare, il come presentare al lettore il testo poetico o come non presentarlo.

Il poeta italiano del ‘900 che più di altri ha insistito sul concetto della genuinità in poesia è stato Umberto Saba, tanto che la sua poetica è stata ribattezzata come «poesia onesta». Lo stesso Saba spesso soleva affermare che la poesia è «un esercizio di verità» e, messaggio ancor più forte, che «la letteratura sta alla poesia come la menzogna sta alla verità». Al di fuori dei confini italiani troviamo altri grandi poeti del Novecento che hanno evidenziato questo modo di far poesia o di approcciare a essa: Rainer Maria Rilke nel suo «Lettere a un giovane poeta» ad esempio, oppure Fernando Pessoa. Famosa la ripartizione di quest’ultimo nelle tre tipologie esistenti di poeta in base al suo sentire:

«Il poeta superiore dice quello che effettivamente sente.

Il poeta medio dice ciò che decide di sentire.

Il poeta inferiore dice ciò che ritiene sia suo dovere sentire.»

E il dire «ciò che effettivamente sente» equivale a imporsi la regola, inviolabile, di essere vero e sincero in primis con se stesso.

Anche in Oriente, in particolare nel modo di approcciarsi alla poesia haiku, troviamo un concetto simile espresso dalla parola «makoto» (誠; «ma», «vero» e «koto», «parola») ossia la «verità poetica» (fūga no makoto, 風雅の誠) che deve essere presente nella poesia haiku, tant’è vero che è stato elevato nel tempo a valore estetico proprio del genere poetico dello haiku. Centrale è la figura di Uejima Onitsura (1661 – 1738), il quale è ritenuto, assieme al Maestro Bashō (1644 – 1694), il «padre dello haiku». Mentre Bashō iniziò a comporre haiku (all’epoca chiamati «hokku») soltanto in età adulta dopo il 1670, Onitsura scrisse questo suo primo haiku alla tenera età di soli sette anni:

koi koi a iedo hotaru ga tonde yuku

«vieni vieni» ho detto,

ma la lucciola

è volata via

Tra l’altro, questo appena citato è considerato il primo vero haiku al mondo almeno secondo Reginald Horace Blyth, il più famoso degli specialisti occidentali di haiku.

Nella poetica di Onitsura gioca un ruolo cruciale la sincerità, il makoto appunto: lo stesso Onitsura ebbe a dire infatti «senza sincerità, non c’è haiku». Togliere a uno haiku il makoto significa snaturarlo. E snaturare uno haiku equivale a toglierne l’essenza: con la sincerità poetica, invece, l’oggetto preso in esame in un dato componimento sarà mostrato nella sua vera natura, senza astrazioni né ostacoli. Per far questo ci sono solamente due vie: lo studio dei Maestri («la via del makoto è lo studio dei Maestri» Bashō) e conservare la mente del principiante perché la mente del principiante è la più genuina come quella dei bambini. Oltre Onitsura anche Matsuo Bashō, con la sua Scuola Shōmon, fece del makoto l’emblema e il perno delle sue liriche, come è evidenziato da questa sua citazione: «Bisogna perseguire a ritornare al vero spirito della poesia attraverso la genuinità (la via del fūryū)». Questo implica anche che è possibile scrivere haiku non solo, ad esempio, sui tramonti, sui ciliegi fioriti, sulle farfalle, sui fiori, ecc. ma anche sullo sterco, sulle pulci su tutto quello che i giapponesi chiamano «futoi, 太い» (la grossolanità, la rozzezza), altro canone estetico presente negli haiku contrapposto allo hosomi (細身, la sottigliezza contemplativa). Questo proprio perché essere sinceri e veri non implica soltanto il ritrarre ciò che è bello o carino, ma anche quello che è rozzo e grossolano.

Non dobbiamo mai dimenticare che lo haiku è, prima di ogni altra cosa, una scintilla di spontanea e naturale comunione con il mondo che ci circonda, un approccio vivo e autentico con sé stessi e con l’Altro. Ora, mi domando: quanto siamo vicini, componendo una poesia in versi liberi o uno haiku, a questi principi di sincerità e verità poetica o, anche, al makoto giapponese? Sembra che molti haiku, così come molte poesie in versi liberi, siano frutto più di astrazioni che di un approccio sincero e spontaneo con sé stessi e con la Natura. Vedo troppe poesie, haiku e non, scritte a tavolino e frutto di astrazioni, troppe poesie prive di makoto: questo è molto triste.

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