Rainer Maria Rilke, rivolgendosi a un giovane poeta che gli chiedeva consiglio per ottenere l’agognato riconosciuto valore, gli rispondeva a riguardo: «C’è solo un modo. Guardi in se stesso. Esplori il fondamento che la chiama a scrivere […] Soprattutto, nell’ora più silenziosa della sua notte, si chieda: devo scrivere? […] Poi si avvicini alla natura. Come un uomo primitivo, cerchi di dire cosa vede ed esperisce e ama e perde […] Un’opera d’arte è buona se è sorta dalla necessità. Il suo giudizio si trova nell’origine: non ce n’è un altro» (RMR, Lettere a un giovane poeta, trad. Leone Traverso, Adelphi 1980).
L’opera di Enrico Barbieri sembra rispondere con sofferta lealtà a questa disposizione d’animo nell’intero suo percorso poetico, e ancor di più nella sua ultima silloge Meno di una pietra di calcare, ora data alle stampe per Delta 3 Edizioni (Letture Meridiane 2021). Il poeta incide il suo canto in isolata stele, da un teatro d’abbandono: al suo eremo non giunge, dal consorzio umano, alcun dispaccio, e la sua voce franta grida da cavità umbratili, senza attendere risposta che non sia l’eco di sé stessa.

Il senso d’ineluttabilità e d’impermanenza dell’umana condizione s’incarna qui nella singola, straziata creatura che fa inventario di disillusioni e durezze, tra reminiscenze familiari, diaspore etniche e inesausti rimpianti, dove i territori degli affetti sono divenuti giardini di croci. La poesia di Barbieri è un pugno chiuso contro il mondo, un grumo che non schiude e che non vuol perdere l’attitudine a ferire, convocando ogni propria rabbia a elemento propulsore, per mantenersi inconciliabile e contundente; il verso è teso, cupo, avaro di aperture, e percorre a volo radente contrade risentite, livide, dove nidifica la recriminazione.
C’è, nei versi di Barbieri, una lealtà tradita, un piglio risentito, corsi deviati, e potenzialità disattese e violate, che lo portano a gridare un’afflizione che non finge e non ammicca, che ruggisce un odio immedicabile, con sagoma fosca, girata di spalle. È in questi versi gettati nell’acqua «come una pietra di calcare», l’allegoria di continua sconfitta che ci fa umani: rinascere senza sosta, in indesiderate aurore, in pervicace corporeità e presenza, anime venute meno a loro stesse, nello smarrito ripetersi del tutto.

L’affinità con gli scomparsi porta al desiderio di farsi nulla, di divenire pietra e terra, dando subito corso al tempo, in una fatica del vivere che è croce e santuario: «Pare che quando si anneghi / ci siano dissonanze di strumenti / a fiato nella mente, dopo / viene una grande calma, credo / che dai metalli vengano a prenderci / dalle ferite negli elementi, / e poi non ci è dato sapere». Creatura liminare, il poeta, in attitudine semisommersa tra il tepore dei morti, l’incomprensibilità dei vivi, e il ritorno a una natura nuda, teneramente primordiale, che condivide la ferita del presente: «Trova il minimo nel reticolo delle rocce / verso la terra e in basso ancora fino / a rendere meno che bestiale il respiro».

Ed ecco il disfarsi dei corpi, delle generazioni, lo scomparire di glorie e vanità: «Resterà per tanto tempo / dopo di te, quel posto / di pietra, legno o vetro / ti è superiore, / come il vento solare / e il respiro della sabbia»; la lacerazione tra l’essere animale e il patire il proprio intelletto, la solitudine che costringe a discendere in sé, dolorosamente, nel proprio labirinto: «adesso devo implorare, pregare / e come ogni uomo ora sono preso / in trappola dal silenzio degli altri. / Abbandonata l’ombra sulla scena / dovrò scrollarmi questa terra / oscena e ingrata, priva del sacro, / e scavalcare nel tessuto privato / il mio confine, l’unico vero nemico», e l’alternativa, ancora più spaventosa, di lasciarsi nuovamente intenerire da un portato amore, nuova lama, illusione di senso: «Date fastidio! Datevi qui da fare! / Che si entra in un cerchio ottuso / e voi strappate ogni legame! / Prima che qualcuno vi possa / dire, con un ghigno: “Mio amore!”». Perché, se il dolore tende a scavare come gusci, è meglio ricoverarsi in un esoscheletro di rabbia, in una simulata cecità che grida all’inesistenza del tutto.

«Tutte le dimore sono sprofondate in mare. / Tutti i danzatori sono andati sotto la collina» diceva Thomas Eliot nei Quattro quartetti (trad. Elio Grasso, Raffaelli 2017), e questa sensazione del perduto, dello scomparso, del disatteso permea tutta l’opera di Barbieri. Ma questa poesia risentita, durissima, dischiude a tratti, suo malgrado, inaspettati recessi di dolcezza chiara, intatta, gracile come un ricamo di cristallo. Perché, se l’odio vero è trama silenziosa, il poeta qui ancora grida, recrimina e, nell’intimo, chiede. E dunque un territorio da attraversare, quello di Barbieri, portando in tasca un amuleto: l’esser consci che ogni gridato odio altro non è che un ustorio, inesaudito desiderio di amore.

da Meno di una pietra di calcare (Delta 3 Edizioni 2021)

Intorno alla casa non c’è niente,
e ho passato mesi a pregare
le rocce di sabbia vetrificata
l’arenaria sacra di San Michele
senza capire se fossero i sentieri
a crearmi e io a camminare
per miliardi di percorsi e stagioni.
Le libellule mi seguono al ritorno
e mia madre dice che in quella
roccia di vetro e sabbia c’è l’oro
e parla con la sua età di ragazza
e poi passo metà della notte
pur di non dormire per carità
di non tornare a vedere, a cercare
di rompere la roccia di sabbia e vetro
tra i latrati dei cani qui intorno
alla casa, dove non c’è niente altro.

*

La veglia è dolce, affilata
e scorre via dalle dita.
Sapete io ho un cane,
non posso parlare di libri
o cadere nell’erba,
perdere la mia forza fisica:
non sono la mia mente
e non sono il mio corpo
ma entrambi, allineati
forse nel torace del mio
Esopo, il cane che amo
e ho nominato da un libro,
il Dio è così semplice e i giorni
sono tanto affilati e dolci
che posso dormire
o correre e poi dormire
su una panca di granito.
Il cibo non mi serve così
tanto, basta il poco del Dio
di quelli chiusi fuori, ma ora
io ho chiuso fuori voi,
senza volerlo, non odio
ma voglio vivere qui, tra foglie
fraterne e zolle di carne,
tra parole e persone lontane.
Ma sogno i tuoi occhi
sogno i tuoi occhi e piazze buie
dove baciarti, stringerti
e averti con questa affilata dolce
veglia di ossidiana, là fuori.

 

Enrico Barbieri è nato a Pavia nel 1976, ha studiato alla Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e ha lavorato per anni in teatro a Milano, Roma e Londra. Ha insegnato teatro presso Centri di Recupero Dipendenze e per il CUT, il Centro Universitario Teatrale di Pavia. Regista di Woyzeck (Georg Büchner) nel 2005 e di Ci Chiamavano Banditi (Guido Petter) nel 2007 con gruppi di giovani attori. Come attore ha lavorato, tra gli altri, con Bucci, Andrée Ruth Shammah, Gabriele Vacis, Lorenzo Latini. Ha pubblicato Il tremore della terra  (CFR Edizioni 2014), Terra incognita (Zona Contemporanea 2015), Provincia (Giuliano Ladolfi Editore 2015), L’attracco (Giuliano Ladolfi Editore 2016), Ore nell’utero della bassa (Il Seme Bianco 2017), Meno di una pietra di calcare (Delta 3 Edizioni 2021).

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