A chi mi tiene sveglio

Che cos’è l’insonnia?

La domanda è retorica conosco troppo bene la risposta.

È temere e contare nella notte fonda i secchi rintocchi fatali, è tentare con magia inutile una respirazione regolare, è il peso di un corpo che bruscamente cambia posizione, è stringere le palpebre, è uno stato simile alla febbre ma che certamente non è la veglia, è pronunciare frammenti di frasi lette molti anni prima, è sentirsi colpevoli di vegliare quando gli altri dormono, è cercare di sprofondarsi nel sonno e non potersi sprofondare nel sonno, è l’orrore di esistere e di continuare ad esistere, è l’alba dubbiosa.

                                                                                                                                                                        La Cifra, JORGE LUIS BORGES

 

L’insonnia dei corpi è l’ultimo lavoro di Paolo Castronuovo edito da Controluna – Edizioni di Poesia.
Il titolo lascia poco all’immaginazione ma l’epigrafe A chi mi tiene sveglio, in uno coi versi di Borges che immediatamente seguono, chiariscono senza possibilità di fraintendimenti che l’unica musa in grado di alimentare il seme letterario dell’autore è il non sonno.

Il tema non è nuovo in letteratura. Lo hanno affrontato prima di Castronuovo non solo Borges, ma anche (tra gli altri) Bertolucci, De Galeano, Char, Cioran, Simic, Bufalino, Pessoa, Yourcenar, Proust, Medina Reyes, Pizarnik. Ma forse la definizione più suggestiva e completa è quella di Pietro Citati. Nel saggio Kafka (Adelphi, 1987) Citati scrive Il sonno è la più pura e innocente delle divinità, una mite benedizione che scende soltanto sulle palpebre degli esseri puri […], perché la notte solo gli uomini buoni dormono, chiusi nel loro sonno come bambini, protetti da una mano celeste contro l’assalto degli incubi. Gli uomini insonni sono colpevoli perché non conoscono la quiete dell’anima e sono torturati dall’ossessione.

Kafka riteneva che gli uomini insonni fossero colpevoli perché irrequieti e torturati dall’ossessione – quasi a suggerirci che il troppo sentire, il troppo prestare orecchio a quanto intorno accade, rende alieni scatenando inquietudini e agitazioni interiori. Kafka si considerava un colpevole ma aveva capito che solo chi dorme sonni inquieti e agitati può entrare in rapporto diretto con le forze dell’inconscio. E, proprio perchè la sua ispirazione non veniva dall’alto ma dagli abissi, il grande scrittore praghese aveva finito per considerare l’insonnia una sorta di dannata benedizione.

Castronuovo condivide lo stesso destino di Kafka ma se quest’ultimo impiegava le ore della notte per scrivere convinto che chi lavorava di notte potesse essere considerato creatore del mondo (in quelle poche ore tra le dieci di sera e le sei del mattino, Kafka stabilì per sempre la sua concentrazione della letteratura e la sua idea dell’ispirazione poetica), Castronuovo, nelle lunghe ore notturne di non sonno, compie invece viaggi lucidissimi che paiono precedere nel loro ricco intrecciarsi l’atto creativo della scrittura (devo occuparmi del mio male/addomesticarlo nella gabbia del mio corpo; la notte è fonda come l’odore dei tuoi capelli/non c’è tempo migliore per le odi).

L’insonnia è per l’autore un momento di catarsi, di annullamento del sé, di rielaborazione in chiave critica di quanto vissuto alla luce del giorno (tra falangi e palpebre devo svegliarmi/ da quest’incubo/ nonostante stia portando a spasso il mio cerbero/per le vie del postmoderno; non mi resta che buttarmi su un letto/ e lasciarmi andare per gli affluenti/ della morte; l’insonnia ch’è vita di notte, il sonno ch’è morte/ il buio del giorno).

Ed è proprio in quelle lunghe ore di veglia forzata (l’insonnia è una foglia di borragine/che plana nella gola e provoca apnea) che si fanno presenza tangibile tutte le situazioni sospese e irrisolte (attendo un urlo che mi faccia ninnananna/mentre ti scopo puttana di un’insonnia/pagandoti in cambio di questi versi; faccio parte dei tuoi 1659 seguaci in questo nonposto/non c’è mai spazio necessario per gli sconosciuti; stanotte quand’era quasi l’alba/ ti ho sentita negli ultimi minuti dell’insonnia/attondare le lenzuola buie con le carni; accendo cerini sulla tua schiena / sui pori irti della tua pelle d’oca/ mentre sfili la maglia/ ti riscaldo con la frizione di /queste pugnalate in ferite già aperte).

La raccolta si compone di cinque sezioni le cui titolazioni richiamano elementi che col sonno sono in rapporto di prossimità e vicinanza: Palpebra di zinco, Carne visiva, Lenzuola al bitume, Crepe di rinunce, Il buio del giorno. E sebbene le suddivisioni interne alle cinque sezioni non seguano un criterio ontologico troppo rigido, appare lecito ipotizzare che alle poesie di ogni sezione possa essere associato un senso: la vista in Palpebre di zinco, il tatto in Carne visiva, l’odorato in Lenzuola al bitume, l‘udito in Crepe di rinunce, il gusto in Il buio del giorno – quasi a suggerire che l’insonnia è un fenomeno che contamina ogni aspetto della vita dell’autore, ogni sua modalità di approccio col mondo.

L’insonnia dei corpi è una raccolta scritta utilizzando la prima persona singolare ma con una evidente vocazione pluralista come dimostra il complemento di specificazione. Di chi sono i corpi che l’autore richiama nel titolo? Due le ipotesi legittime e immaginabili. Il termine corpi potrebbe intendersi riferito al corpo dell’autore nelle sue diverse proiezioni e rappresentazioni (non voglio sentirti più con nessun senso scappa insonnia, vai via/ io devo rimanere qui a rigenerarmi non posso farti vincere, il cappio è lì/ma io ti ammazzerò col cuscino; ma nonostante tutto rimango qui fino all’emicrania, all’alzheimer, alla prostatite, e al delirium tremens che mi prende e stupra sui cassetti) – oppure,  al contrario – essere un’allusione ai corpi degli altri, anche dei dormienti, come se ci fosse la consapevolezza  di uno stato di torpore diffuso dal quale occorre risvegliarsi (non so a chi e dove appartengo e/ forse non darlo a sapere è una salvezza/ ma almeno io m’accorgo che qualcosa/ in me cambia/ non come in voi a cui è stato lavato il cervello/con un secchio d’acqua mentre dormivate).

Nelle Note finali, l’autore non spiega il perchè di quel plurale ma fornisce una collocazione temporale dei componimenti: scopriamo allora che le poesie contenute in Palpebre di zinco, Carne visiva, Crepe di rinunce e Il buio del giorno sono quelle più risalenti (scritte tra il settembre 2016 e l’aprile del 2017) mentre quelle facenti parte di Lenzuola al bitume sono più recenti (e collocabili  tra l’agosto e il novembre 2017).

Sempre nelle Note finali vengono palesati una serie di riferimenti letterari che svelano la paranoia privata e l’allucinazione di massa, la scarpa slacciata e la metafisica dei costumi dell’autore (per dirla alla maniera di Andrea Inglese, così in Parigi è un desiderio) e cioè, Cucina cannibale, Lello Voce; Canti del caos, Antonio Moresco; L’âge d’or, Luis Buñuel; Pulp fiction, Quentin Tarantino; Metropolis, Thea von Harbou; Lincoln in dalivision, Salvador Dalì; The angel and the sodomizer, Carpathian Forest; Nostra Signora dei turchi, Carmelo Bene; A coney island of the mind, Lawrence Ferlinghetti. In chiusura vengono esplicitate infine due dediche: la poesia Le muse hanno disossato la gabbia dedicata a Franz Krauspenhaar e L’occhio affonda un tuorlo tra i tuoi seni  scritta in memoria di Georges Bataille.

In questo magma di citazioni e riferimenti, concludo con le suggestioni illuminanti di due maestri: l’insonnia è un’agenzia di viaggi notturni con poster che reclamizzano luoghi lontani, dove il mare è sempre blu, e così il cielo, dove ci attende un alberghetto bianco dalle persiane verdi, ogni stanza una creatura del crepuscolo, azzurrina e rosata (Charles Simic, Il cacciatore di immagini),  un’agenzia in cui ciascuno cresce solo se sognato  (Danilo Dolci, Il limone lunare, poema per la radio dei poveri cristi).

da L’insonnia dei corpi (Controluna 2018)

dalla sezione Palpebre di zinco
*
la notte è fonda come l’odore dei tuoi capelli
non c’è tempo migliore per le odi
tra le mie mani la tua pelle
imbastisce un filo logico
subliminale al profumo di un mare
che ci distacca
e fa di me il sommozzatore dei tuoi fondali
*
stasera ho un vuoto che mi tartassa tra le costole
come un martello pneumatico
isola il diaframma una bolla tra gli organi
faccio fatica a respirare e vivere
voglio scoppiarla come fosse l’aborto più violento
dopo il male del secolo
che s’impossessa dell’innocenza della mia tranquillità
*
faccio parte dei tuoi 1659 seguaci in questo nonposto
non c’è mai spazio necessario per gli sconosciuti
lo spaccio dei corpi amici che s’affiatano a leccare
ciò che s’incrosta sulla cucina cannibale di Lello

dalla sezione Carne viva
*
l’inguine è succulento
quanto la coscia che smagrisce alla caviglia
dove il pedale di una legnano
poggiata a un muro strapiomba in battigia ti smaglia nelle onde
di un pennello dalle setole rade
ti dipinge nell’estate
che oramai sa di cenere
e non avrà il profumo
delle tue gambe nude
*
dobbiamo sgombrare l’inverno evidenziare le parole con la luce aprire la finestra della strafottenza per uscire da questi veli su bare dare una forma più precisa ai versi perché la culla è un vizio ozioso che ci incolla seppur tra labbra a qualcosa di osceno per la vita
*
non c’è morbo, ossessione
ordine o castigo
quando rastrelli il prato
e quando la luce ti colpisce

io vedo carezze in
una pellicola surrealista
l’epoca d’oro che abbaglia
umetta le labbra prima di stupirmi

è un pennello che dipinge fili d’erba
fino alla punta secca
e li rende oppiacei e luminosi
come i papaveri

dalla sezione Lenzuola al bitume
*
Hai candeggiato le lenzuola coi tuoi piedi
quando hai varcato il sonno per entrare nel dirupo dove una casa
abbandonata ti ha reso meno sola in una pozza d’acqua nuda
io ero arrotolato in una bottiglia alla deriva un capodoglio incastrato
nel buco dell’ozono che cercava di parlarti di dirti di fuggire prima che
il tuo corpo s’abituasse alla routine e s’incastrasse nelle tue ossessioni
ma ero troppo distratto dalla statuarietà un marmo gelido per la
sopravvivenza ma etereo da assimilare
*
accendo cerini sulla tua schiena
sui pori irti della tua pelle d’oca
mentre sfili la maglia
ti riscaldo con la frizione di
queste pugnalate in ferite già aperte per far sì che l’elsa fermi le
emorragie della vita
che lenta fuoriesce e ti svuota
*
l’occhio affonda un tuorlo tra i tuoi seni
ne lascia scorrere l’albume fin l’ombelico
un miele lattiginoso scivola sui tuoi pori stretti
senz’attrito ti studio in pergamena
lungo le curve di una vertigine
la goccia scola dall’inguine all’interno coscia
devia nell’incavo del ginocchio
uno spazio labile che strapiomba
per il polpaccio illividito
dalla cavigliera di budella

dalla sezione Crepe di rinunce
*
respirare la tua assenza è rigenerante
non vedo corrimani consumati dalla fretta dopo averti abbandonata
nemmeno abrasioni di aorte o otturazioni
di qualsiasi orifizio
nessun danno neanche collaterale
solo un bene che mi apre un’altra porta
*
spogliati, devo scrivere
non sono un tatuatore ma
un corridore sulla via incognita delle palpebre mi basta una finestra stanotte
con la luna che miete l’insonnia come sfondo
è sfiancante arrovellarsi il cervello nelle coperte staccarle dal sudore e infreddolirsi
non avere temperatura nella crisi d’astinenza
perché non dormo mai

dalla sezione Il buio del giorno
*
se non fosse per la lotta che m’impongo direi che il mondo potrebbe bruciare
devo occuparmi del mio male addomesticarlo nella gabbia del mio corpo
ogni tanto farlo uscire per i boschi
o portarlo al guinzaglio con la museruola
non voglio addenti o insalivi gli altri
mostrarlo non sarebbe un vanto
ma neanche una vergogna
*
nella pozzanghera ho avuto uno spiraglio d’infanzia
l’incuranza di saltarci dentro e sentire le calze inzupparsi vedere la polvere depositata mischiarsi in superficie
e i pantaloni schizzati di spensieratezza l’odore dell’ozono che stura i bronchi pustole incise da pollici adolescenti raccapriccianti e liberatori
*
il mare non sta sempre ad aspettare
bisogna cavarlo dalla terra, inventarlo
attendere che il proprio pomeriggio si riempia
per poi guardare il tramonto,
l’oscurità della sera che pressa il sole nell’acqua
e ne spegne il fuoco
l’insonnia ch’è vita di notte, il sonno ch’è morte,
il buio del giorno.

Paolo Castronuovo, nasce nel 1986 e vive in Puglia.  Poeta e scrittore. Tra le sue opere in prosa e poesia troviamo: Labirinti (Stampalibri 2009), Filo Spinato (Scorpione 2010), Ambaradan (Libro d’Artista a cura dell’autore, 2014), Streghe Ignifughe (Lupo 2014), Labiali (Pietre Vive 2016), L’insonnia dei Corpi (Controluna 2018). È presente in numerose antologie e in varie riviste e blog letterari.
Nel 2011 ha vinto il premio nazionale di poesia Corpo di Donna. È stato membro di giuria di premi di poesia e cinema. Ha presentato testi importanti come L’addio (Giunti 2016) e Gli increati (Mondadori 2015) di Antonio Moresco. Alcune sue poesie sono state tradotte in polacco e spagnolo. Collabora con le case editrici del gruppo Lit, Il seme bianco e Controluna – Edizioni di poesia.

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