Fotografia di Luigi Grieco

 

Nella raccolta Tutta la terra che ci resta (Vydia editore 2022) Silvia Rosa affronta il tema dell’impatto del digitale sulle nostre esistenze e su quelli che, oggi e sempre, ne costituiscono i cardini: il rapporto tra la vita e la morte, il tempo.
L’io si declina alla prima persona plurale, a evidenziare come il suo dire attinga a un bagaglio di esperienza collettiva, in versi che denunciano la perdita di contatto con l’autenticità, l’anestesia generale che ottunde l’essere umano, non più dotato di percezioni, appiattito, bidimensionale. L’artificiale in tutte le sue forme regna incontrastato, si impadronisce di immagini, figure, visioni, come il buio e la luce, sottraendole alle loro suggestioni archetipiche; modifica la consistenza, la sostanza dei fenomeni atmosferici, come la pioggia; assume allegoricamente l’aspetto di animali totemici e divinità; trasforma e sfigura le forze istintuali. Perfino l’attività onirica si priva del suo valore metaforico-simbolico, configurandosi come puro automatismo fisiologico, meccanico. Il processo di meccanizzazione tocca la dimensione temporale, in un’osmosi che dalla sfera economico-produttiva arriva a interessare quella ontologica; determina l’univocità dello spazio, disegnando paesaggi urbani, attraversamenti di megalopoli che allungano le spire ovunque, in territori sia esterni che interni. Così l’abitare «in gabbie stile hi-tech» si traduce anche nell’abitare il corpo, nel suo elevarsi e nel suo declinare: «Dalla preistoria delle prime capanne di paglia,/del paravento di tende come un intonaco alzato/ alla schiettezza del nido, ricordano l’architettura/ difettosa dei corpi, quel loro disfarsi, uno sbiadire/ costante e inevitabile […]». Le città, come le case, sono assimilabili ai corpi: anche l’impiego di termini dalla doppia valenza, come «arteria», si rivela, in tale contesto, significativo. Il corpo sta smarrendo la sua atavica saggezza, la tacita chiaroveggenza capace di connettersi ai moti dell’anima, al dolore della mancanza, al godimento dell’indefinito. Il pensiero dominante porta a una perdita della consistenza materica, per cui le idee di leggerezza e rarefazione suonano qui volutamente prive di incanto. Ci viene mostrato con immediatezza come l’oggetto fruito sia subito rimpiazzato, dimenticato, gettato via, ad alimentare le montagne dei rifiuti, degli scarti, i nuovi reperti archeologici che raccontano di noi, in una sorta di antiepos, «l’epica della calca». Dell’uomo massificato – quel fenomeno che Elias Canetti, in una analisi interessante ancora oggi, faceva risalire al «capovolgimento del timore di essere toccati» – l’autrice pone in risalto il dato percettivo-cromatico, la «saturazione cromatica zero»: così nel primo testo della sezione significativamente titolata Un tono più vivo. La frequenza dei numeri arabi riflette un mondo in cui tutto è misurabile, spia della pulsione di controllo sull’incontrollabile; l’ingranaggio impazzito che ci vede ogni singolo momento incasellati in un numero, etichettati, controllati. Oltre il mito dell’efficienza, del traguardo presto raggiunto, urge allora infrangere le barriere che separano me dall’altro da me, «rompere il vetro», recuperare lo stupore, la meraviglia, il senso del viaggio.

Vale la pena sottolineare la ricerca di parole altre, parole in grado di dire appieno questo tempo. In Tutta la terra che ci resta troviamo vocaboli mutuati dagli ambiti della tecnica, dell’informatica, dell’anatomia; soprattutto colpisce l’esplorazione delle potenzialità della parola, l’ampliamento semantico che pare suggerire il rischio dello smarrimento del significato originario, umano. Questa trasformazione della parola poetica è inevitabile, se si vuole che essa contenga e restituisca il reale. E proprio le scelte lessicali conferiscono appieno densità e spessore al verso; sottolineano la meccanizzazione estrema del corpo, la perdita dell’incantamento del mondo; dicono della vita e della morte, perché, in fondo, la distanza prodotta dal digitale, depredando delle percezioni, è una morte dentro la vita; e la morte non si dà solo come dopo, ma è pure radicata nella vita stessa. Ecco che allora la raccolta di Silvia Rosa è anche una riflessione su eterne verità: sulle illusioni dell’esistere che baluginano tra gli abbagli dell’artificiale; sull’azione del caso, che, si chiami esso fato o algoritmo, regola arbitrariamente gli eventi dell’uomo e degli altri esseri sul pianeta. La presa di consapevolezza che la poesia intende favorire potrà forse fermare la progressione nei toni del grigio, salvare la terra che ci resta, imprimervi colori vivi e una dimensione umana.

 

da Tutta la terra che ci resta  (Vydia editore 2022)

Dentro una pozza di cielo
i pendagli degli alberi tremolano
in questo giorno che un calendario
ha nominato Primavera,
e risucchia in uno slargo acceso
tutta la terra che ci resta
Dove siamo, mentre la notte
entra sicura sulla destra e vira
al chiaro che svanisce? Dove vanno
le cose che si illuminano,
quando lasciamo un punto piccolo
di fuga per non dimenticare
di fiorire lungo la strada
del ritorno?

*

Certe mattine la città lancia un missile
di megapixel, i display allora si popolano
di istantanee in vari formati, per celebrare
l’epica della calca: quel rituale per cui andiamo
in collisione, convulsi, nel fermo immagine
– un imbuto – fino alla saturazione cromatica zero
dei corpi, alla ressa: i viaggi asfittici
sotto il manto stradale, alla ricerca di coincidenze
improbabili, la metropolitana come una talpa
di ferri che raschia il magma centripeto
della terra, e noi sopra a cavalcarla, in piedi,
gli appositi sostegni premuti contro il costato.
Nella concitazione dei social i millemila
selfie testimoniano sincroni il quotidiano
dei nostri hashtag, mentre a noi manca il fiato,
fuori dall’inquadratura, senza filtri speciali
per ravvivare il colore dell’incarnato,
renderlo quanto basta un tono più vivo

*

Forse il corpo residuale sa ancora
nella sua saggezza ormai inceppata
come schivare i chiodi delle tenebre,
il danno cieco e i suoi cifrari alieni
nascosti in ogni eclisse, inumare
la membrana che protegge gli animi
scavare giù al fondo con sguardo
rabdomantico mischiare metallo
fuso e acqua, rivoltare il senso
delle tombe perché guardino faccia
a terra, sentire scorrere nelle vene
il soffio analgesico del dopo, una specie
di speranza sospesa nella controra
del giorno, in un luogo imprecisato
radicarsi, avvertire sulla lingua
lo schiocco della perdita e nel torace
il conforto mite dell’insetto
che rimescola melma e ossa
e dà vita a un altro mondo

 

Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, sono apparsi in riviste, siti e blog letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue pubblicazioni: il volume antologico Confine donna: poesie e storie di emigrazione (Vita Activa Nuova APS 2022), di cui è ideatrice e curatrice; l’antologia foto-poetica Maternità marina (Terra d’ulivi 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; le raccolte poetiche: Tutta la terra che ci resta (Vydia Editore 2022), Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore 2018), Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2014), SoloMinuscolaScrittura (La vita Felice 2012), Di sole voci (LietoColle Editore 2010 ‒ II ediz. 2012); il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni 2013); il libro di racconti Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni 2010). È vicedirettrice del lit-blog “Poesia del nostro tempo”, redattrice della testata online “NiedernGasse”, collabora con il blog di letteratura “Margutte”, con la rivista «Argo» e con il quotidiano «il manifesto». È tra le ideatrici di “Medicamenta – lingua di donna e altre scritture”, progetto di Poetry Therapy che propone una serie di letture, eventi e laboratori rivolti a donne italiane e straniere, lavorando in una prospettiva psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita. Ha intervistato e tradotto alcuni autori argentini in Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici (edizioni Versante Ripido e La Recherche 2017).

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