Foto di Evelyn Flores

 

In un panorama letterario internazionale in cui le dicotomie di prospettiva letteraria e ideologica sono piuttosto rigide e, per lo più, conflittuali (metafisica e fisica, oggettuale e concettuale, salvifica o asfittica, mimetica o antimimetica), l’opera di Daniel Calabrese, nella sua vastissima gamma tematica e formale, riunisce gli opposti, ribalta il naturale ordine di comprensione delle cose e conduce il lettore (e sé stesso) alla radice polisemica della realtà.

Un cielo per le cose, tradotto da Emilio Coco con una suggestiva introduzione di Jorge Boccanera e pubblicato nella collana Labirinti – Sezione ispano-americana curata da Cinzia Marulli e Mario Meléndez per La vita felice, già dal titolo va alla ricerca di una verticalità strettamente collegata alla concretezza, ma non limitata alla sola dimensione empirica. Si può pensare alla spiritualità immanentista di Yves Bonnefoy per poter azzardare una similitudine concettuale, seppur completamente diversa negli esiti poetici.

La prima sezione dell’opera inizia con un suggerimento, quasi un monito: “Guadate in alto” poiché “la ragione è una corda inutile”. Anche il cielo, tuttavia, non mostra che dettagli realistici (un condor “lento e goffo”) che, oltretutto, lasciano cadere ombre sulla terra. “E il condor, mi chiedo/come un mangiatore di carogne/può arrivare così in alto” è il quesito che attanaglia chiunque creda o confidi nell’equilibrio esistenziale.

La narrazione si espande nel testo attraverso frasi brevi collegate da immagini antimimetiche dal grande potenziale non solo metaforico ma anche linguistico, che si appellano a una consapevolezza comune. “Diavolo pensatore”, “gregge violento”, “sacco di pioggia”, “buco preistorico” sono solo alcuni esempi di come l’armamentario lessicale di Calabrese si sottoponga a una continua rinnovazione senza cadere nella cripticità.

La sete, osservata nell’intermittenza snervante dei molti ricorrenti nostoi contemporanei, è un non luogo fisico e psichico che influenza lo stare in tutti gli altri posti del mondo, anch’essi dotati di una dimensione empirica e di una ideale.
Le suggestioni realistiche sono rese con onomatopee e lampanti scorci di visioni quotidiane calate in un immaginario che oscilla tra l’onirico e il surreale. Tali visioni, quindi, risultano decontestualizzate affinché si possano espandere in terreni concettuali non necessariamente collegati a livello materiale. Questa dualità di piani, non solo paesaggistici ma anche gnoseologico-interpretativi (verità e sogno, estasi e orrore, nostalgia e speranza), accompagna verso un piano di spaesamento, di profondo horror vacui.

I testi appaiono come parabole in versi dalle forme lunghe (ma non poematiche) e dall’andamento narrativo, ma non sembrano mostrare nessun intento didascalico o educativo. Emergono, tra i versi, ipotesi ben verosimili sull’umanità e sulla sua stanchezza di vivere e di progredire (da qui, gli avanzamenti e i regressi che,talvolta, diventano coincidenti). C’è come una forte volontà di riscrittura coscienziale del fenomeno etico, inteso in senso kantiano, il cui noumeno rimane inaccessibile tranne che per brevissime intuizioni di cui i versi sono testimoni e interpreti.

La realtà sembra essere risacralizzata attraverso l’epica della fattualità e l’inversione delle scene sacre o bibliche (“un banco di pesci avanza come pani/che si moltiplicano sulla terra/e galleggiano sull’acqua./É il giallo nero delle morti vive”), in un’ottica che non esclude ciò che non si può vedere ma lo osserva dal punto di vista terreno, interiore, umanissimo.

Immancabile l’interlocuzione con un tu femminile non definito ma ricorrente che fa da contraltare egoico e da pars destruens dell’io poetante, se attraverso la scrittura si intravede la ricostruzione del quadro antropologico dell’individuo proiettato nella pluralità creaturale di cui è parte integrante.

In un tale contesto espressivo si può notare, però, la presenza costante di accenni alla sensibilità umana che mostra come ogni ingranaggio esistenziale sia anche un atto volitivo, e non solo un meccanicismo comportamentale: “Nessuno ha dedicato tanto lavoro/a disarmare una tristezza”.
L’io poetante non teme di parlare in prima persona della propria frangibilità (“non è stato in un fiume/ma nella stessa terra dove sono annegato”), rievocando i toni accorati ed eroticamente politici della poesia amorosa sudamericana (Neruda, Bolaño) e quelli psicologici ed elegantemente ironici della versificazione d’amore francese (Éluard, Prévert).

La conoscenza “della polarità”, nominata ma volutamente non descritta, appare come la percezione – che non è una precisa visione – della condizione degli uomini, ed è come se potesse avvenire perfino un’inversione del senso del tempo, sia cronologico che filosofico, nel flusso di eventi e di correnti. Il tempo stesso, infatti, è un’illusione della vita, immortala l’apparenza delle cose, nasconde l’inafferrabilità genetica degli enti.

Compare ancora la pietra come oggetto funzionale all’atto dell’estrazione, ricordando il concetto pizarnikiano dell’”estrazione della pietra della follia” come sedimento emotivo e come nucleo materico, estremo ed essenziale nell’ecosistema umano. L’estrazione della pietra (della follia che, però, nei testi di Calabrese, trova un contrapposto indeterminato nel vuoto, come a voler mettere in risalto l’azione di estrazione e non l’oggetto ricavato) richiama anche l’immaginario medioevale e il famoso dipinto di Bosch che porta lo stesso titolo.

I titoli non sono semplici orpelli tipografici, rappresentano chiavi di volta dei testi, riferimenti necessari, talvolta sono anche elementi appositamente confondenti che vanno a specificare il senso per astrazione, straniamento o humor (“Metodo per calcolare il tempo”; “Una corsa con Platone”; “Strada senza uscita”).

Il contraltare della caducità non è la resistenza ma la consistenza del passaggio, il modo in cui l’essente occupa il suo spazio esistenziale, il “tempo per succede” nonostante la crudeltà dell’indeterminatezza a cui non ci si può sottrarre.
Ogni cosa fluisce in un “mare totale” che ingloba ma non assembla, e riconsegna “gli innocenti/quando hanno morso l’amo”. E, ancora, ogni evento assiste al suo ritorno: “Quello che è terminato/sta succedendo ancora”.
La brutalità della civiltà non può che emergere proprio da questo meccanismo di fluida ciclicità della vita.

È anche una poesia sulla poesia, quella di Calabrese che, analizzando l’ontologia umana, incorre nella scrittura in versi non solo come autore ma anche come osservatore attento della vita e dell’emivita della produzione letteraria all’interno della più ampia esistenza storico-antropologica dei popoli.

“Una corsa con Platone” ribadisce la dicotomia tra idee e cose, nonché la loro “marcia dialettica” in un frangente insieme ultra-contemporaneo (sigaretta, automobile) e inerente ad ogni tempo (una vecchia automobile/ferma nel miglior momento della sua vita”).
Anche il tema storico è proposto in una chiave di perduranza simbolica nel presente e nella vita privata. L’immancabile immersione nella storia assomiglia allo stato di inabissamento nel liquido amniotico.

Lo stile beat s’intravede nei testi come esperienza indiretta, come una suggestione latente che influenza l’ottimo bilanciamento tra immagini liriche/surrealistiche ed elementi piani e iperrealistici.

L’individuo, come io poetante, trasmuta in una alterità perennemente cangiante, esternalizza il sé negli occhi e nelle movenze degli altri, e si riconosce negli estranei per familiarità d’indole. Allo stesso modo, è come se ci si riferisse alla specie che applica il medesimo meccanismo di auto identificazione per straniamento, e lo fa con naturalezza, quasi per istinto. Paradigmatico il distico conclusivo del testo “Posizione”: “In genere, sono tutti questi/quando ho gli occhi chiusi”.

Se c’è un sottobosco di vita nel sonno, nell’immobilità, nell’immobilismo, nella noia e nella morte, è anche vero che “siamo immortali ma solo in piccola parte”, benché sia proprio quella parte minuta e nascosta che dà la possibilità di ridestarsi “dalla putrefazione” e di tornare a esistere “in un angolo del petto” di qualcun altro.

Anche nella scelta dell’organizzazione delle poesie nel libro ci sono un ordine emotivo ed uno simbolico. Notevole, ad esempio, che dopo l’elenco de “Gli odori del paese”, segua un testo dal titolo “L’enumerazione” che riproduce un altro censimento ma senza anafore.

Il poeta ammette di essere un animale dentro l’animale, un’anima nell’anima, la porzione che completa l’insieme: “Quest’animale in cui sono messo,/nei suoi momenti liberi scrive poesie/e poi dice: ho sognato”.

La divinità si presenta in molti sembianti, e sembra nidificare nelle incongruenze della vita.
Anche i topi, come i cani, sono molto presenti fra i testi, sono personaggi tratti da scene en plein air di simbologia eliotiana, in comune con opere contemporanee come L’isola dei topi bertoniana in cui l’animalità triviale, quasi orrida, insidia la civiltà e simboleggia la compulsione volgare del capitalismo e del consumismo sfrenato di cose e persone, pur senza il bisogno di giungere alle conclusioni radicali e provocatorie del realismo terminale che capovolge le similitudini e fa degli oggetti i nuovi soggetti del contemporaneo.

È peculiare come dal testo “Distanziamento” (termine molto diffuso in tempi recenti, per via di necessità spaventose), si arrivi a una comunione solidale fra genti: “Credo che tutti siano la mia famiglia”.

Anche le parole, nella loro bestialità erudita o erudibile, hanno una loro vita e un loro potenziale rivelatore, oltre il segno e il senso specifici.

In questa opera densissima di immagini capaci di stupire per la naturalezza con cui disarticolano e svecchiano figure e scenari quotidiani, le chiuse svolgono una funzione di trave portante ancorata dal basso. Se “la scena che non vedi è la morte,/ma anche l’eternità di un istante”, sarà nella complessità del combaciamento tra dimensioni oggettuali e spirituali che il largo respiro di questi versi, costantemente teso a vedere oltre l’abitudine e la noia, spinge a considerare ciò che è troppo minuto per poter essere descritto fuori dalla poesia.
Sono proprio i dettagli impercettibili che possono essere cantati solo nel verso, feritoia unica da cui passa “la delicata distruzione”. Ogni possibilità di riedificazione, d’altronde, transita dalla cruna della parola poetica. “Ascoltate. Ascoltate bene,/perché se fate attenzione/udirete quelle grida sempre più deboli”.

Che legame conserva la poesia sudamericana contemporanea con la storia passata e l’attualità?

La morte, più che l’amore, è per me il grande tema della poesia ispano-americana degli ultimi decenni. L’amore è un incantesimo, è un’arma di resistenza contro la dittatura della morte. Ma che cosa è la morte? A causa di un incidente, ho vissuto un’esperienza NDE (di pre-morte, nella sua sigla in inglese) che mi ha lasciato la certezza che esiste una vita immateriale separata dal corpo, così come possiamo separare l’idea della poesia dal suo oggetto. Si può cancellare una poesia, ma mai quel concetto che l’ha generata.

Il trauma mi fece percepire che la morte era diversa dal nulla e diversa dal vuoto. È l’assenza di contenuti che fa orrore a molti. Recentemente ho letto una discussione scientifica in cui alcuni sostenevano che la maggior parte dell’universo osservabile è vuoto, e altri li confutavano dicendo che è pieno di schiuma quantistica (turbolenze dello spazio-tempo). Poi ho iniziato a pensare alla fisica e alla poesia che si affacciano su un abisso condiviso. Per fortuna, la poesia non ha l’obbligo di dimostrare nulla. Quella volta mi sentivo cadere nel vuoto interiore ed era come un mare infinito con un orizzonte circolare, dove risalta l’assenza di luce e la speranza è sempre ai bordi.
Il mio rapporto con la morte rimane di una certa diffidenza. Pensiamo continuamente ad essa, ma il paradosso è sentirci protagonisti di un tempo finito, lineare. Un tempo che inizia, progredisce e termina, ma che, contemporáneamente, si percepisce come circolare, senza soluzione di continuità.

Il mio ultimo libro, che parla proprio della morte, inizia con questa frase: “Una vita non basta con una sola vita”, che oltre a cercare un legame tra l’individuale e il collettivo, intende dire che nulla garantisce che le esperienze di vita generino la consapevolezza desiderata negli altri (e ciò vale per tutti, anche per noi stessi).

A partire dalle dittature della seconda metà del XX secolo, con i loro orrori di repressione e tortura sulla popolazione civile, e con le sparizioni delle persone che hanno provocato una nuova tragedia collettiva, è stato impossibile per l’arte e la letteratura ignorare la situazione politica e sociale. Io stesso ho scritto un libro basato sulla mia esperienza come soldato adolescente, reclutato con la forza dall’esercito argentino, durante la guerra delle Falkland, che si intitola Battuta d’arresto (è stata appena pubblicata la traduzione italiana a Roma).

È emblematico il caso di Juan Gelman, poeta che per la sua genialità e il suo stile trasformò in arte maggiore ciò che in molti consideravano un semplice opuscolo, attraverso un afflato lirico e un modo di scrivere che trascinò intere generazioni. Marcelo Gelman, figlio del poeta, insieme alla sua compagna María Claudia García, che aveva solo 19 anni, furono rapiti da un commando militare. Marcelo è stato torturato e ucciso lo stesso anno del suo rapimento. I suoi resti furono trovati 13 anni dopo, in Argentina, all’interno di un tamburo riempito di cemento. María Claudia era incinta di sette mesi ed è stata trasferita in Uruguay nel quadro del Plan Condor, che era un’operazione politica repressiva coordinata dalle dittature del Cono Sud per eliminare militanti politici, sociali e studenti dell’Argentina, dell’Uruguay, del Cile, del Paraguay, della Bolivia e del Brasile. È stata detenuta fino al parto nell’ospedale militare di Montevideo. Lì è nata in cattività Macarena, la nipote del poeta, che fu adottata illegalmente nel 1976 da un poliziotto e sua moglie, che la registrarono come figlia propria. Di Maria Claudia non si seppe più nulla: scomparve. Ancora oggi non si conosce il suo destino.A sua volta, il grande poeta Raul Zurita è stato rapito in Cile da una milizia, che ha poi portato alla sua detenzione clandestina nelle stive di una nave di una compagnia di navigazione privata, legata al regime del dittatore Pinochet. Quasi un decennio dopo, sul retro della mappa, io sono stato reclutato insieme a migliaia di ragazzi e portato in Patagonia dai militari argentini durante la guerra delle Falkland. Nel mezzo del conflitto, mentre si attendeva il trasferimento sul fronte di combattimento, la tensione con il Cile aumentò. Poi hanno dirottato il mio squadrone verso la cordigliera, come fronte a possibili scontri con militari cileni. Scontri che, per fortuna, non sono mai accaduti. All’epoca non credevo che con il ritorno delle democrazie mi sarei radicato a Santiago del Cile, dove ho coltivato la mia vita letteraria, familiare e professionale, e ancor meno avrei immaginato che la poesia mi avrebbe legato al maestro Zurita.

Di tale portata era la tragedia vissuta da migliaia di persone legate all’arte e alla letteratura nei nostri paesi. È comprensibile che per decenni i temi della memoria, nel contesto delle dittature, si siano “presi” la poesia e l’arte latinoamericana. Gli autori non impegnati nella realtà politica ricevevano un certo disprezzo nell’ambiente culturale. Ci si aspettava da loro qualcosa che ci fa pensare alla famosa conferenza di Uppsala: “L’artista e il suo tempo”, di Albert Camus. Solo alla fine del secolo cominciarono a considerarsi nel Rio de la Plata alcune tendenze di poesia sorte dal linguaggio e lontane dai temi politici e sociali, ma sempre sotto sospetto del pubblico lettore, dei media e dell’accademia.

“Quest’animale in cui sono messo,/ nei suoi momenti liberi scrive poesie”. Torno su questo verso per chiederti di parlarci di questo straniamento quasi kafkiano della soggettività del poeta di oggi.

Sento che ci sono tre momenti decisivi nella creazione poetica. Il primo è quando la si concepisce, e questo è inspiegabile, nello stesso modo in cui sono inspiegabili l’amore o la fede.
Il secondo si verifica quando si realizza la poesia, cioè quando la si converte in linguaggio scritto, poiché questo è il modo di ricordare e di comunicare che edifichiamo collettivamente. Tutto ciò non è qualcosa di residuale. Dante, pur avendo scritto una delle opere monumentali della storia della letteratura, si lamentava perché le parole non erano in grado di esprimere tutto ciò che sentiva. Da questo punto di vista, la poesia nella sua prima fase è chiaramente superiore al risultato di quel secondo momento in cui viene scritta.
Tuttavia, successivamente alla scrittura, c’è un terzo momento in cui si espande di nuovo, dopo aver attraversato quell’imbuto che è la lingua, ed ecco il merito che ha una buona poesia: suscitare nel lettore tutto ciò che le parole, da sole, non sono in grado di trasmettere, affinché si completi, in chi legge, l’immenso senso che, sicuramente, non sarà mai identico alla percezione originale del poeta né a quello di altri lettori. Per questo si parla di arte, e non solo di un mestiere.

Non sono un autore disciplinato, non sono come coloro che pensano che basti avere tempo e sedersi a scrivere. Al contrario, sono molto interessato a quel “primo momento”, che di solito si verifica in uno stato amplificato di coscienza, simile al cosiddetto stato di frequenze alfa o di dormiveglia, dove il confine si sposta verso l’inconscio, verso l’onirico, e si mescolano le cose che chiamiamo “reali” con quelle che definiamo “immaginarie”. In Occidente, diffidiamo dell’immaginazione, per cui la gente è convinta che reale e immaginario siano cose opposte, o che illusorio e vero siano aggettivi esclusi, come se l’immaginazione non fosse parte della realtà. Ho sperimentato la meditazione con suoni binaurali in 8D che stimolano tale percezione.

Il verso che hai citato all’inizio della domanda, “Quest’animale in cui sono messo,/ nei suoi momenti liberi scrive poesie”, si completa con: “e poi dice: ho sognato”, che è parte importante dello stupore o, per meglio dire, di quella realtà leggermente spostata su cui si costruisce la mia poetica.

Coricarsi sulla terra e tornare a sedersi

Va bene quello che hai fatto ieri
e va bene quello che stai facendo adesso,
anche se insieme i pezzi
sembrano di vite contrarie.

Entrambi sappiamo che il mondo
è uno specchio che non bisogna rompere.

Un banco di pesci avanza come pani
che si moltiplicano sulla terra
e galleggiano sull’acqua.
È il giallo nero delle morti vive.

Questo sacco sempre più pesante
che trasciniamo, chiamiamo tempo
e ci conferma che sì,
che tutto va bene.

Il pezzo di cielo in cui ti sei vista
riflessa in riva alla palude
mi si è conficcato nel petto, è un vetro
scheggiato e mi fa male.

Molti camminiamo sull’acqua senza sforzo
quando chiudiamo gli occhi.

Pochi si azzardano a rimuovere
un vetro conficcato nel petto.

Nessuno ha dedicato tanto lavoro
a disarmare una tristezza.

Acostarse en la tierra y volver a sentarse

Está bien lo que hiciste ayer
y está bien lo que estás haciendo ahora,
aunque juntos los pedazos
parecen de vidas contrarias.

Los dos sabemos que el mundo
es un espejo que no hay que romper.

Un cardumen avanza como los panes
que se multiplican en la tierra
y flotan sobre el agua.
Es el amarillo negro de las muertes vivas.

A esa bolsa cada vez más pesada
que arrastramos, le decimos tiempo
y nos confirma que sí,
que todo está bien.

El pedazo de cielo en que te viste
reflejada a la orilla del pantano
se incrustó en mi pecho, es un vidrio
astillado y me lastima.

Muchos andamos sobre el agua sin esfuerzo
cuando cerramos los ojos.

Pocos se animan a remover
un vidrio incrustado en el pecho.

Nadie ha dedicado tanto trabajo
a desarmar una tristeza.

 

Metodo per calcolare il tempo

Quelli che vivono da questa parte della strada
s’intendono di compensazioni:
ogni volta che qualcuno passa diretto verso il Sud
annotano l’ora esatta
e lasciano cadere una pietra nel vuoto dell’essere.

Quelli che vivono dall’altra parte
conoscono la polarità:
ogni volta che qualcuno passa in senso contrario,
di ritorno,
l’annotano ugualmente,
ma estraggono una pietra dal vuoto dell’essere.

Così alcuni ne riempiono il vuoto
ed altri lo liberano.

Ogni tanto
quelli che ne hanno riempito il vuoto
passano attraverso il ponte vecchio (che era nuovo)
e aspettano pazientemente
che passino quelli che ritornano dal Sud,
uno dopo l’altro,
finché il vuoto è totale.

Método para calcular el tiempo

Los que viven a este lado de la ruta
saben de compensaciones:
cada vez que alguien pasa rumbo al Sur
anotan la hora exacta
y dejan caer una piedra en el vacío del ser.

Quienes viven del otro lado
conocen la polaridad:
cada vez que alguien pasa en sentido contrario,
de regreso,
anotan lo mismo,
pero sacan una piedra del vacío del ser.

Así unos llenan su vacío
y otros lo despejan.

Cada cierto tiempo,
los que han llenado su vacío
cruzan por el puente viejo (que era nuevo)
y esperan con paciencia
a que pasen los regresadores del Sur,
uno tras otro,
hasta que el vacío es total.

 

Una corsa con Platone

Prima di parlare alzava una mano
per afferrarsi il petto,
con il rischio di farlo in uno stile tragico,
e con sette boccate finiva una sigaretta.

Quella sera accese il motore
della sua vecchia automobile
e si coricò sull’erba ad ascoltarlo
più volte.

Un filo di ferro coincideva con l’orizzonte
dove si posavano uccelli enormi
e il filo della terra s’incurvava.
Quando alzavano il volo, all’improvviso,
il filo di ferro saliva e scendeva, tra il cielo e la terra,
in quella che chiamano la marcia dialettica.
E nessuno era capace di seguirlo.
Sette boccate feroci: un’altra sigaretta.

Il motore parlava densamente del silenzio,
come se la parte più scura dell’essere
accendesse con una chiave di contatto.

Una vecchia automobile
ferma nel miglior momento della sua vita.

Una carrera con Platón

Antes de hablar alzaba una mano
para sujetarse el pecho,
a riesgo de hacerlo en un estilo trágico,
y de siete pitadas agotaba un cigarrillo.

Esa tarde encendió el motor
de su viejo automóvil
y se acostó en el pasto a escucharlo
una y otra vez.

Un alambre coincidía con el horizonte
donde se posaban unos pájaros enormes
y el hilo de la tierra se encorvaba.
Cuando alzaban vuelo, de repente,
el alambre subía y bajaba, entre el cielo y el suelo,
en eso que llaman la marcha dialéctica.
Y nadie era capaz de seguirlo.
Siete pitadas feroces: otro cigarrillo.

El motor hablaba espesamente del silencio,
como si lo más oscuro del ser
encendiera con una llave de contacto.

Un viejo automóvil
detenido en el mejor momento de su vida.

 

Daniel Calabrese è un poeta argentino di origine italiana. Ha ottenuto con il suo primo libro, La faz errante, il Premio Alfonsina Storni. A esso sono seguiti: Futura ceniza (1994), Escritura en un ladrillo (1996), Singladuras (1997), Oxidario (Premio del Fondo Nazionale delle Arti, 2001) e Ruta Dos (2013 e 2017), a cui fu assegnato il Premio Rivista di Libri in Cile e che fu pubblicato nella prestigiosa collana Visor di Madrid con una prefazione di Raúl Zurita. La traduzione italiana è stata finalista tra le migliori opere straniere al Premio internazionale Camaiore. Il suo libro più recente è Ritmo d’Atessa (2022) che ha ottenuto il sostegno del Programma di Traduzioni dello Stato Argentino per essere pubblicato in Italia. La casa editrice La Vita Felice di Milano ha pubblicato quest’anno Un cielo per le cose (2022), tradotto da Emilio Coco. È stato incluso ne Il fiore della poesia latinoamericana d’oggi (Raffaelli Editore 2016) e nell’Antologia della poesia latinoamericana d’oggi (Di Felice Edizioni 2022). Sono stati pubblicati suoi libri di poesia in più di dieci Paesi e una parte della sua opera è stata tradotta in italiano, inglese, francese, portoghese, bulgaro, cinese e giapponese. È il fondatore e il direttore di Ærea. Revista Hispanoamericana de Poesía, ed è membro del Consiglio Internazionale della Fondazione Vicente Huidobro.

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