Foto di Dino Ignani

 

 

Hoc animi demum ratio discernere debet / nec possunt oculi naturam noscere rerum (Lucrezio, De rerum natura IV, 384-385). È l’esergo la prima voce a parlare ne La materia dei giorni di Marco Corsi (Manni 2021) e lo fa con un rimando al quarto libro del De rerum natura, un libro dedicato all’esposizione della teoria epicurea dei simulacri, cioè le particelle di materia sottile che, secondo Epicuro, si distaccherebbero dagli oggetti e li replicherebbero in miniatura in maniera tale da raggiungere i nostri organi di senso. Le sensazioni che proviamo quando tali simulacri incontrano i nostri organi percettivi sono tutte vere – dice Epicuro – nel senso che esse funzionano da criterio di verità. Ma, esattamente come nella fotografia, che non può mentire, ed è la nostra mente che si deve attivare per interpretare una foto, allo stesso modo il passo lucreziano ci vuole dire che è proprio la mente, la ratio, a discernere, a conoscere la natura delle cose. Forse già possiamo creare alcuni piccoli raccordi tra il libro di Corsi e l’orizzonte di riferimento lucreziano e, quindi, procedere nell’interpretazione.

La ratio, nel poema lucreziano, svincola da ogni senso ulteriore, metafisico, e proietta l’uomo in un universo del tutto materialistico. È proprio il materialismo ad imprimere questo volume e lo fa a differenti livelli. In primo luogo, la filosofia alla base del libro è chiaramente materialista: «la vita, mi ripeto, ha il peso specifico / dell’aria, i segni della terra e del fuoco, / l’abbondanza dell’acqua, / venature finissime di sangue e corallo. // quasi fosse un frutto incessante del buio / giunge puntuale a compimento / l’architettura perfetta del carbonio / che ci unisce e ci separa / in epoche diverse».  Oltre al riferimento ai quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) che nel mondo antico e medievale rappresentavano uno dei filoni percorsi dai pensatori per spiegare la formazione degli esseri viventi (di certo non quello epicureo, ad essere precisi), Corsi fa cenno ai cicli di aggregazione e disaggregazione del carbonio che, com’è noto, permette di generare catene di molecole sempre più complesse e spiega ad oggi la nascita della vita dal punto di vista biologico. In secondo luogo, La materia dei giorni è un libro che tende a far di tutto materia del poetare e riesce felicemente nell’intento di saldare insieme dinamiche personali ed esperienziali da un lato (tematiche, spesso, a carattere intimistico), tensioni eco-antropologiche dall’altro (la parte centrale del libro ha come focus primario il global warming e le sue conseguenze ambientali ed esistenziali) e addirittura aneliti interstellari: «è dunque dentro, è fuori di noi / quell’andirivieni perenne / dei giorni, serpeggia come una febbre / poi all’improvviso si fa seme, / esplode in germoglio, in albero, / e di volto in volto, borghese o silvestre, / è tetto, è antenna, è satellite, / è guidatore di stelle interspaziale / lanciato in orbita con bianca navicella / per cercare una voce aliena». Ancora, il materialismo di Corsi si estende anche alla concezione stessa della poesia e alla forma stessa che prende la sua poesia. Mi spiego meglio. Sono disseminate nel libro, e soprattutto nella sezione Stretching, delle dichiarazioni di poetica evidentissime e che individuano il forte legame che c’è per Corsi tra poesia e materia, cioè tra poesia e realtà, colta nella sua più elementare concretezza.  Se, da un lato, il termine stretching sembra rimandare all’esercizio necessario per prepararsi ad apprendere la solitudine del vivere, la dissipazione del corpo, il ritorno nel «sonno primigenio», esso può essere anche visto come l’esercizio del poeta che – come si evince dal testo – mentre gioca in coppia con l’uomo, come «Castore e Polluce in cerca del cinghiale calidonio» (è interessante questo rapporto fraterno, ancora di più, gemellare), deve imparare da lui l’arte di «soffiare nel vetro per dare forma a ciò che è vivo e guardarci attraverso». Infatti, «qualora (sc. il poeta) si riveli sprovvisto della più elementare attitudine al vero, al verosimile o alla concretezza, non gli sarà concesso di scendere in profondità negli oceani, fra le minuscole radici dell’erba, in pochi centimetri d’asfalto». Esercitandosi all’uso poetico della parola, egli lavora col vetro, lavora cioè con una materia trasparente e leggera, quasi volatile ed aerea, la parola, e dentro ad essa soffia la realtà nelle sue forme nitide e flessuose, e però fragilissime. Il poeta mira quindi, secondo le proprie coordinate stilistiche, ad un netto realismo, ma, come afferma altrove, secondo la cifra particolare dello «stare basso delle cose»: una poetica, dunque, che mira alla mimesi del vero nella sua bassezza, termine non dispregiativo, ma che indica invece l’elementare, basica concretezza del reale, la sua materialità. Quali sono dunque queste coordinate stilistiche peculiari di cui fa uso Corsi e che rappresentano la sostanza della sua poesia (al di là degli innumerevoli echi letterari profondi e a fior di verso di cui essa è impreziosita)? La prima cosa che si nota di primo acchito è la natura prosimetrica del libro. Ma leggendo bene e rileggendo ancora, si realizza una certa compenetrazione tra le due varianti della poesia di Corsi. Da un lato, i versi, liberi, dal tono enunciativo, talora interrogativo, in alcuni apici quasi profetico e vaticinante, rispettano una sintassi, certo arcuata, ma sempre coerente e, soprattutto, a livello fonico-ritmico, rivelano strutture non marcate che collocano certi componimenti in una zona liminare al confine con la prosa lirica (l’opera, infatti, centellina parsimoniosamente rime, assonanze, consonanze). D’altro canto, la prosa tende alla poesia: «ora per entrambi, l’uomo e il poeta, è chiaro lo stare basso delle cose, di come lentamente risaliva dalla terra quella nebbia fitta di occhi e di ossa, e ancora con quale maggiore tenerezza cresceva l’erba sottile intorno ai corpi senza più calore. era il piumaggio di un astore, la cruda corteccia dell’albero raspata dal clamore del vento. vorrebbero ancora prolungare quella nota di ruggine e terra, risucchiarla in una sola molecola di fiato. giocare l’uno con l’altro a nascondersi nella trasparenza del vetro, nel freddo dell’epoca perenne, all’altro limite del vero. sono Castore e Polluce in cerca del cinghiale calidonio». In questo frammento, che presenta un lessico concreto ma immaginifico al tempo stesso ed è anche una dichiarazione di poetica (cf. supra), si insinua una qualche ricerca fonico-ritmica (da notare la triplice rima calore|astore|clamore con due cesure contigue e una prosecuzione a guisa di variatio), ma soprattutto sono evidenti le agglutinazioni sintattiche e  le enumerazioni sintagmatiche, di natura nominale e preposizionale. Esse sembrano rappresentare l’assedio della materialità (basti confrontare la pregnante concretezza dei vocaboli utilizzati), da cui uomo e poeta sono circondati e che il poeta riproduce in termini linguistici; tali accumulazioni, come poi sarà evidente nella sezione d’antologia, sono presenti sia nei testi in versi sia nei testi in prosa, la stessa materia si cristallizza in forme diverse.

L’esergo, come abbiamo visto, ci può dire molto, e si è rivelato essere un piccolo spiraglio di luce da cui desumere alcune coordinate ermeneutiche dell’opera di Corsi. Come si può dedurre dalla mia analisi, infatti, questo materialismo è multiforme e versatile, lavora a differenti livelli ove diversamente interpretato, dall’impianto generale del libro, ai riferimenti metapoetici, agli aspetti stilistico-formali che amalgamano prosa e poesia e tentano di riprodurre le agglomeranti concrezioni di cui consta il reale. Questa mi è sembrata la formula che meglio esprimesse il senso di questo libro, che, come la materia, pur non mutando in termini quantitativi, si presta ad esiti e trasformazioni inesauribili ed imprevedibili.

 

dalla sezione Stretching:

fissavo l’ombra sul muro e intanto
guardavo te sparire con tutta la specie
umana dei cordogli, chiedendo un linguaggio
più prossimo alla vita: ossigeno, globuli
rossi, piastrine, colesterolo, enfisema,
cattivo presagio convulso nel respiro,
doglia di parto inverso, artificio.
ma ora che vegli appena nel gioco cordiale
di peso e sovrappeso, avresti dovuto
dimagrire un po’, ti ripetevi, per inerzia o noia
lento lento retrocedi affabulando, squittisci,
gli occhi di radice immobile in secca
nel languore del reparto, mentre perdi peso,
senza più peso, tu dormi.

*

IV.

senza ossigeno, e verosimilmente senza ragione, se all’uomo tocca di muovere un passo il poeta si ritrae nella visione. aggiungendo peso alla prova, in memoria delle prossemiche virtù di Atlante, per far fronte allo sforzo, cerca di rianimarsi giocando di lima e di misura. un’estetica fragile, inservibile come le branchie fuori dall’acqua. nell’evoluzione della vita naturale tutto nasce in conformità alla regola, ma anche dall’impietosa selezione che sottrae l’antico al nuovo e viceversa. è un giro di sangue nel corpo, una cartilagine che ricorda l’atavico organo vestigiale. per lasciare traccia sulla roccia, per scrivere finalmente sull’acqua in piena pace, il poeta può imparare dall’uomo le regole della sopravvivenza, soffiare nel vetro per dare forma a ciò che è vivo e guardarci attraverso. qualora si riveli sprovvisto della più elementare attitudine al vero, al verosimile o alla concretezza, non gli sarà concesso di scendere in profondità negli oceani, fra le minuscole radici dell’erba, in pochi centimetri d’asfalto. non essere qui, non esser più, da nessuna parte. dovrà imparare a gestire con cautela la corrente ripida dell’abbandono.

dalla sezione Vuelvo al Sur:

(…)

è una chiara invasione e leviathan
morde la poca materia restante
tra classico e sperimentazione.
e non è concentramento, ’38, ’77,
qui non è alabama o florida,
carneficina nordica a utøya,
qui è la potenza del bianco che ribolle,
i pinguini in lenta processione
che sciamano segno per segno
a formare parole.

ecco, dunque, la terribile visione:
la voce è un grande vetro orizzontale
divorato dal peso del metallo, ma
nella miriade di teste e becchi gialli
nessuno diventa palazzo alto
con fontana, occhi di ghiaccio
allo xeno, erbe, rampicanti.
c’è una fila unita punto a punto
che si snoda per isole contigue:
beccheggiano, alzano la voce,
praticano l’arte dello zoo.
talvolta silenzioso riaffiora il verde
un verde senza concorrenza: il verde
è componente residuale
di vita mancata e plasma.
il verde è lichene smangiato da muffe
e predica dieta di amebe
nella testa del pinguino.
il verde è in pancia a leviathan
e alla balena naufragata sulla costa
che riversa silenziosa
un bolo di profumo bianco.

per questo solo il pinguino contende:
per la sua normale attitudine
di quieto spettatore del mondo
incapace di guardare
un punto fisso
all’orizzonte, gli occhi
non divisi dal becco.
il pinguino trema
nell’incipienza dei temporali,
scruta le perturbazioni, aspetta
che si venda a caro prezzo
la pelle dell’orso.

 

[insieme al crollo viene giù anche il mare. la luce in un attimo si abbassa. cade l’orizzonte sulla nuda ossessione. placca neuronale che sospinge la zolla morta, s’incunea e s’impenna. poi, gravida e assorta, la terra rinasce senza fiori come una macchia senza visione, mentre la lenza tira e porta a riva un nuovo dialetto. la fortuna guizza con una rosa di sangue sulla fronte. l’idea che con molta difficoltà potrà sottrarsi all’amo senza procurare ferita. quel fiotto imbellettato di tenera carne si dissolve nell’acqua marina, sciaguattando. poi rivolta la pancia verso la superficie, vita che continua nell’ombra. finché il sangue risale dalla fine verso l’inizio delle parole]

(…)

 

Marco Corsi nato in Toscana nel 1985, vive a Milano dove lavora nell’editoria. Ha curato alcune rassegne di poesia e pubblicato diversi contributi dedicati alla poesia italiana contemporanea, una monografia su Biancamaria Frabotta, un libro intervista con Franco Buffoni, e curato un volume di testimonianze critiche per Anna Cascella Luciani. Sue poesie sono apparse su importanti riviste e blog letterari. La sua prima silloge, Da un uomo a un altro uomo, nel 2015 è stata inclusa nel Dodicesimo quaderno italiano (Marcos y Marcos) e nello stesso anno ha vinto il Premio Cetonaverde Poesia sezione giovani. Nel 2017 ha inaugurato la collana “Lyra giovani” di Interlinea con Pronomi personali (Premio Maconi e selezione Premio Fogazzaro e Premio Ceppo). La materia dei giorni (Manni 2021) è il suo ultimo libro.

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