L’editoria è un mondo strano e chi – come molti dei redattori di questo blog-rivista – ha avuto a che farci, lo ha imparato spesse volte sulla propria pelle. Ma anche in un ambiente insieme così esile e robusto, variegato e uniformante, talvolta accadono piccole e inaspettate sorprese. Ed ecco allora che una casa editrice di media grandezza – Interno Poesia, il cui fondatore e direttore Andrea Cati ha avuto il coraggio di dedicarsi esclusivamente alla pubblicazione di versi – decide di inaugurare una collana di autori pienamente novecenteschi, dimenticati o da recuperare, accompagnati da nuove introduzioni critiche e rappresentati da scelte testuali originali o inedite. Così, la collana, inaugurata da una selezione di poesie di Antonia Pozzi (Mia vita cara, a cura di Elisa Ruotolo, 2019), ha visto, negli anni, la pubblicazione di tutti i testi di Sergio Corazzini (Io non sono un poeta, a cura di Alessandro Melia, 2021), la riedizione del capolavoro di Cesare Pavese, Lavorare stanca (a cura di Alberto Bertoni, con note al testo di Elena Grazioli, 2021), il libro generazionale di Beppe Salvia, in nuova veste filologicamente condotta sui manoscritti originali (Cuore, a cura di Sabrina Stroppa, 2021), e così via. Tra i vari titoli, figura anche la più celebre raccolta di poesie di Guido Gozzano, I colloqui (1911), accompagnata da una selezione di «altre poesie» (I colloqui e altre poesie, a cura di Alessandro Fo, 2020), su cui è interessante soffermarsi a riflettere. In effetti, colpisce la presenza di un titolo simile nel catalogo, soprattutto perché uscito a pochi anni di distanza dall’edizione critica di Tutte le poesie di Gozzano, scrupolosamente curata da Andrea Rocca e pubblicata nella collana degli Oscar Classici della Mondadori appena nel 2016. Ma le due edizioni, per quanto Interno riproduca gli esiti testuali fissati da Rocca, sono molto differenti: al taglio tecnico e scientifico della più antica si sostituisce, nella più recente, un respiro maggiormente divulgativo, con lo scopo non nascosto di portare la poesia di Gozzano nelle case e nelle tasche di un pubblico il più ampio possibile, composto anche di non specialisti.

Tralasciando queste brevi, ma necessarie considerazioni di tipo editoriale, ci si può anche chiedere quale possa essere il senso di ripubblicare – per di più con un intento così divulgativo – i migliori testi del poeta Guido Gozzano oggi, negli anni Venti di questo millennio, a più di un secolo dalla sua morte. La risposta è in realtà molto semplice e immediata: le poesie di Gozzano ci parlano ancora. E la loro voce non è fioca, ma salda e sicura: arriva in un baleno al cuore delle cose e i lettori di oggi, trascinati dalla musicalità di un verso ben ritmato e sapientemente rimato, non possono che cedere al suo fascino, lasciandosi sedurre. Già alla metà del secolo scorso, nel settembre del 1951, Eugenio Montale, in un articolo dedicato a Gozzano a trentacinque anni dalla scomparsa, cercava di fare un bilancio circa l’importanza avuta dal poeta canavese nella lirica italiana del Novecento. Un poeta che ha avuto la capacità di entrare nel pubblico «familiarmente, con le mani in tasca», di confermarsi con rapidità come un moderno classico, grazie a testi intessuti di echi letterari, osservazioni mondane, situazioni narrative e personaggi romanzeschi. Un poeta che ha mostrato, pur nell’esiguità di una produzione limitata a due libri (La via del rifugio, 1907, e i già citati Colloqui, 1911) e a un cospicuo numero di poesie sparse, una certa lungimiranza nella capacità di leggere la realtà circostante e di intraprendere un discorso, tramite la poesia, che sapesse per la prima volta «attraversare d’Annunzio per approdare a un territorio suo» e gettare le basi per una nuova lirica possibile. Non fu il solo – e questo è chiaro –, in quell’inizio di secolo, a proporre un’alternativa alla lirica aulica delle cosiddette “tre corone” Carducci, Pascoli e d’Annunzio (e, a questo proposito, tra i tanti, vorrei almeno citare un libro a mio parere più che notevole come Poesie scritte col lapis di Marino Moretti, uscito nel 1910), ma fu senza dubbio il più riconoscibile e il più significativo. Per tornare un’altra volta alle parole di Montale, «quando si leggono a mente riposata I colloqui bisogna riconoscere che quella poesia è stata non la più ricca e la più nuova ma la più sicura di quegli anni. Sarà forse poca cosa, quella poesia; ma non si dubita mai ch’essa esista; mentre questo dubbio ci assale continuamente leggendo d’Annunzio e Pascoli, tanto più autenticamente lirici di Gozzano».

Nel suo saggio introduttivo a quest’edizione, Alessandro Fo si riferisce al percorso poetico di Gozzano come una «quête», e cioè come una vera e propria ricerca. Tale ricerca ha come termini chiave quelli dei titoli delle due raccolte, e quindi «via», «rifugio» e «colloquio», ma si destreggia essenzialmente tra i due poli tradizionali della lirica occidentale, vale a dire il binomio Eros-Thanathos, Amore-Morte. Ammalato di tisi, Gozzano rimaneva, almeno sul piano biografico, impossibilitato all’amore, negato alla morte. Si presenta allora ai lettori come un «guigozzano rassegnato a starsene nella sua casa/casella, ad autotormentarsi, fra l’assenza dell’amore (“Egli sognò per anni l’Amore che non venne”) e quella della morte (“Un giorno è nato. Un giorno morirà”)». La ricerca di Gozzano non può che partire, dunque, da una condizione di attesa sulla soglia – il luogo par excellence della poesia -, escluso insieme dall’amore-vita e dalla morte, in una condizione quasi pirandelliana di partecipazione e insieme di distacco dal mondo. La poesia diviene possibilità di salvezza, eventuale «rifugio» in cui inventare un nuovo ordine di circostanze necessarie, incastonate in un immaginario ormai standardizzato, ma veicolate con un linguaggio ancora codificabile. E questa ricerca sembra così scorrere parallela, su un piano di autobiografia cambiata, come si legge nella prima poesia dei Colloqui, che dà il titolo al libro:

Ma un bel romanzo che non fu vissuto
da me, ch’io vidi vivere da quello
che mi seguì, dal mio fratello muto.

[…]

Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte,

sorrido e guardo vivere me stesso.

L’approccio del ‘guardarsi vivere’, anche attraverso la scrittura, diventa opzione preferibile, in sostanza, al vivere veramente. Proprio tramite questo meccanismo, la poesia di Gozzano si costruisce di scene narrative, con descrizioni articolate e precise. I semplici pronomi – io, tu – diventano veri e propri personaggi, in un affollarsi di possibili alter ego e di esperienze vissute soltanto di sbieco o di passaggio. Come ha giustamente ricordato anche Pier Paolo Pasolini, «la poesia di Gozzano è tutta narrativa: anche quella in versi brevi e di breve taglia» e «se non è una vera storia che egli racconta, è comunque una ‘scena’ di vita reale». Si pensi a uno dei testi che Montale annovera tra «le sue poesie più sicure», Invernale, in cui una scenetta da dramma borghese, la situazione topica dell’uscita mondana – in questo caso una pattinata sul ghiaccio – si trasforma in un dialogo ancora una volta sulla soglia, capace di riassumere in sé tutta la forza oppositiva e insieme necessariamente legata del binomio Amore-Morte. A questa situazione narrativamente sospesa va poi aggiunto l’insieme di citazioni dantesche, che già dal titolo vuole fare eco a una situazione piuttosto infernale che invernale (d’altronde, in linguistica, /f/ e /v/ sono una fricativa sorda e una fricativa sonora, e condividono pertanto diversi tratti di somiglianza per cui, nella nostra memoria linguistica, quasi inconsciamente una richiama l’altra). La situazione narrativa, dunque, non impedisce un affondo lirico che tocca la sostanza delle cose, anche e soprattutto grazie all’abile scelta dei suoni (notevole il primo endecasillabo, in cui l’iterazione del suono /i/ crea sospensione e attesa, rendendo la crepa del ghiaccio, prima ancora che fenomeno di natura, elemento psicologico del personaggio protagonista). Ma vale senz’altro la pena riprodurre interamente Invernale, per godere a pieno dei suoi giochi linguistici e immergersi nella sua narrazione essenziale, ma totalmente efficace:

«…cri… i… i… i… i… icch…» l’incrinatura
il ghiaccio rabescò, stridula e viva.
«A riva!» Ognuno guadagnò la riva
disertando la crosta malsicura.
«A riva! A riva!…» Un soffio di paura
disperse la brigata fuggitiva.

«Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto,
le sue dita intrecciò, vivi legami,
alle mie dita. «Resta, se tu m’ami!»
E sullo specchio subdolo e deserto
soli restammo, in largo volo aperto,
ebbri d’immensità, sordi ai richiami.

Fatto lieve così come uno spetro,
senza passato più, senza ricordo,
m’abbandonai con lei, nel folle accordo,
di larghe rote disegnando il vetro.
Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro…
dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo…

Rabbrividii così, come chi ascolti
lo stridulo sogghigno della Morte,
e mi chinai, con le pupille assorte,
e trasparire vidi i nostri volti
già risupini lividi sepolti…
Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più forte…

Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,
rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!
O voce imperïosa dell’istinto!
O voluttà di vivere infinita!
Le dita liberai da quelle dita,
e guadagnai la ripa, ansante, vinto…

Ella sola restò, sorda al suo nome,
rotando a lungo nel suo regno solo.
Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;
e ridendo approdò, sfatta le chiome,
e bella ardita palpitante come
la procellaria che raccoglie il volo.

Non curante l’affanno e le riprese
dello stuolo gaietto femminile,
mi cercò, mi raggiunse tra le file
degli amici con ridere cortese:
«Signor mio caro, grazie!» E mi protese
la mano breve, sibilando: –Vile! –

Il personaggio-io è vile, gli manca la forza di una partecipazione attiva agli eventi che lo circondano. Ma uno strumento fondamentale, come si coglie già dalla lettura di questo testo, per la sopravvivenza del poeta e anche per la ricerca di questo suo tanto agognato rifugio, è senz’altro l’ironia. Gozzano abbassa il grado dell’io-poetico, muovendosi come «rasoterra», rifacendosi, in parte, alle humiles myricae del simbolismo pascoliano, ma di fatto negandone le possibilità interpretative e demiurgiche nei confronti della lingua e del mondo. L’io poetico di Gozzano, o meglio di quello strano «coso con due gambe / detto guidogozzano» (Nemesi), si percepisce come emarginato rispetto a una società in cui il fare poesia è più una vergogna che un vanto – come si legge nel celebre poemetto La signorina Felicita: «io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!». Ma lo stato subordinato del poeta, che preferirebbe forse una vita da «buon mercante inteso alla moneta», consente comunque all’io di esprimersi in rapporto con le cose della vita, di immergersi in un fluire altrimenti inafferrabile. Ancora una volta, Gozzano, pur sognando di poterne fare a meno, non può rinunciare alla «fede letteraria / che fa la vita simile alla morte», proprio perché altrimenti perderebbe una possibile «via» di salvezza. Di qui, però, proprio da questa posizione apparentemente di svantaggio, nasce il meccanismo dell’ironia gozzaniana, che si permette di capovolgere ogni situazione topica a vantaggio di un senso ulteriore delle cose. Perché il poeta possiede la capacità di conoscere il «male che s’apprende / in noi», di tratteggiarne i confini, di farci i conti. Un elemento, anche questo, che sarà molto caro a Montale, se si ripensa ad alcuni esiti della sua poesia. Ma l’ironia si dispiega anche in un abbassamento di grado di ogni sistema filosofico che pretenda di avere un posto di privilegio nella vita delle persone – a questo proposito si può citare la nota rima «camicie/Nietzsche», in cui il massimo filosofo tedesco di inizio secolo (e tanto caro, sebbene in una rilettura tutta personale, proprio a d’Annunzio) viene posto in rima con un elemento dimesso e quotidiano quale le camicie. Ma non è l’unico esempio: parte di questo meccanismo ironico è incastonato proprio nello strumento della rima, di cui Gozzano è grande inventore, al punto che anche un critico spesso restio a paragoni esagerati come Pasolini ha affermato che «non c’è dopo Dante un rimatore più abile di lui, né un più spregiudicato inventore di rime».

La poetica delle «buone cose di pessimo gusto» (L’amica di nonna Speranza) è quindi una strategia ben consapevole e che – come sempre nei grandi poeti – mantiene una coerenza sia sul piano ideologico sia sul piano formale per tutta la produzione di Gozzano, a partire dalla Via del rifugio fino ai Colloqui, passando per le diverse poesie extravaganti, di cui questa nuova edizione presenta una selezione molto interessante, della quale Fo dà motivazione nella Nota anteposta al testo. Oltre ad aver dato conto di alcuni esiti della Via del rifugio e del poema incompleto delle Epistole Entomologiche, Fo ha optato anche per alcune delle «poesie sparse» e dei «versi manoscritti», per i quali rimane valida la scelta gozzaniana di una via di fuga dalla realtà tramite l’intessersi di questo strano rapporto tra letteratura, ironia e vita. Si prenda, per esempio, un passaggio di una poesia come L’altro:

Buon Dio e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile d’uno scolare
corretto un po’ da una serva.

Non ho nient’altro di bello
al mondo, fra crucci e malanni!

Ancora una volta, nonostante l’abbassamento radicale dell’importanza dell’io, viene messa in luce la capacità dello «stile» – seppure «d’uno scolare» e «corretto […] da una serva» – di portare salvezza, tra «crucci e malanni» del mondo. È proprio la fede nella letteratura che, per ritornare un’ultima volta all’introduzione di Fo, «reinventa liberamente il viaggio; rigenera il mondo terreno e ne fa un universo. Per questa via Guido approda, immaginativamente almeno, alla felicità». Una felicità, però, destinata ben presto a fare i conti con la realtà. Gozzano dovette affrontare diversi «incidenti esistenziali», tra cui il peggioramento delle condizioni di salute, che lo avrebbero portato a un «inaridirsi della vena poetica», come testimoniato dall’incompletezza delle Epistole. Ma la realtà dei fatti è che, già in soli due libri, Guido Gozzano aveva già detto tutto ciò che avrebbe dovuto e avrebbe potuto dire, e con una voce talmente distinguibile che, per nostra fortuna, ci è ancora vicina. E che ancora risuona, in queste stanze.

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