«Per una benvenuta dismisura». Estasi, voce e follia nella poesia di Claudia Ruggeri

di Germana Dragonieri

Hölderlin: “siamo un segno senza significato”: / ma dove le due serie entrano in contatto? / Ma è vero? E che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? / E perché e che fanno i grandi oggetti / e tutte le cose-cause / e il radiante e il radioso?

Andrea Zanzotto, La beltà 

Life’s […] a tale / told by an idiot, full of sound and fury / signifying nothing

William Shakespeare, Machbeth

Pallaksch. Pallaksch

Paul Celan, Tubinga, gennaio

Una comune radice indoeuropea (*bhl) tiene insieme le parole flatus (“fiato”, “soffio”, “respiro”, poi “suono”) e follis intorno all’idea di un fluire sonoro, ritmico, vocale (flumen, fluere, fluxus, flectere, flexio) ingovernabile: «il follis», ci informa Corrado Bologna, è infatti «il “mantice”, il sacco vuoto e quindi ripieno di aria sonora; da cui, per estensione metaforica, il “folle”, dal “movimento incontrollato”, l’uomo sacco, “ripieno di vuoto”» (Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna, 2000, p. XXII). Il folle è quindi l’uomo-vuoto che però risuona, che emette il flatum, la phoné, la voce: vale a dire il significante puro e libero che precede qualsiasi opposizione di distinti, qualsiasi significato. Il poeta è, in questo senso, un follis: qualcuno che non parla ma è parlato dalla propria voce; qualcuno la cui parola – lungi dal pretendere di affermare o distinguere, di «separare il no dal sì», per citare Celan (in Parla anche tu) – piuttosto si flette, oscillando indifferentemente tra il sì e il no, seguendo il flusso vitalissimo del significante: Pallaksch. Pallaksch[1].

Non è dunque un caso che una poeta della voce qual è stata Claudia Ruggeri (Napoli 1967 – Lecce 1996) apra la propria plaquette-poemetto inferno minore (1988-1990) con un ciclo di componimenti intitolato Il Matto (prosette). Tratto distintivo della sua scrittura – insieme a quell’ipercitazionismo che aveva suscitato nel dedicatario Fortini l’impressione, alquanto miope, di una poesia «ingioiellata», eccessiva e immatura – è proprio il predominio da lei accordato al suono-significante sul senso-significato, del quale restituiscono una traccia sensibile anche le registrazioni delle sue memorabili letture in pubblico. «Il mio fine», scrive la poeta in una prosa significativamente intitolata Elogio della follia, «non è quello di partecipare al lettore la genesi passionale dei miei versi, quanto l’indurlo ad ascoltare un istante di sé. […] Non è da cercare di comprendere il senso che io ho descritto con la parola, quanto il risalire ad un senso personale ed appassionato graziato dal solo ritmo».

Il senso graziato, salvato dal ritmo: così l’autrice delega alla tessitura fonico-linguistica dei propri componimenti – straripanti di figure di suono quali assonanze, allitterazioni, poliptoti, rime al mezzo, anadiplosi, omeoteleuti e spesso composti proprio in vista di un’esecuzione orale – il compito di creare una consequenzialità non più rinvenibile, perché programmaticamente occultata e stravolta, sul piano della punteggiatura, della sintassi e delle funzioni del discorso. Ne risulta una sorta di «scrittura ad alta voce» (Roland Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1974, p. 65): un dettato poetico privo di nessi logici, imperscrutabile e oscuro sul piano del significato, che chiede di essere ascoltato prima che decifrato, e che domanda al pubblico quell’atto di «compartecipazione» e «co-autorialità» che sempre si produce all’interno di una comunità d’ascolto, di fronte a una performance (Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 290).

«ormai la carta si fa tutta parlare, / ora che è senza meta e pare un caso…», recita l’incipit di il Matto II. «Parlare», «senza meta», «caso»: tre parole-chiave nella poetica ruggeriana, tutte contenute in quella radice *bhl, nello spazio semantico che intercorre tra il flatus e il follis. La poesia è infatti per l’autrice soprattutto un «suono mago» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]), un flatus follis: magico e mai padroneggiabile dettato, attività involontaria, impersonale e «senza meta» come la vita poetica del pazzo che, scrive Agamben a proposito di Hölderlin, è tale in quanto «vive secondo un dettato, in un modo che non è possibile decidere né padroneggiare» (La follia di Hölderlin, Quodlibet, Macerata, p. 223). «Soffriva di una mancanza di consequenzialità nel pensiero…», riferisce Thedor Vischer a proposito di un incontro col poeta tedesco (ivi, p. 130).

Sull’onda di una simile mancanza di consequenzialità e seguendo più il principio di casualità che quello di causalità, anche la poesia di Ruggeri non dice, bensì vive secondo un dettato: in essa la φωνή (“parola che non afferma e non nega, ma accenna”), la voce, il ritmo e il caos prevalgono sul λόγος (“parola che afferma” o “che nega”) il discorso, la sintassi, l’ordine. Come per Celan «Un fragore: è / la Verità in persona / entrata / fra gli uomini, / nel mezzo del / turbine delle metafore» (in Svolta del respiro), così anche per la poeta salentina il fragore e il suono prevalgono sulla metafora e sul senso quali portatori di una verità in persona, corporea e insindacabile, che non afferma ma piuttosto accenna, balbetta, canta.

Di questo predominio della voce sul senso è emblematico il gusto, mutuato in parte dalla poetica di André Breton e dei surrealisti spagnoli tradotti dal conterraneo Vittorio Bodini, per l’ecolalìa e per il suo corrispettivo retorico, l’anadiplosi: ovvero per la ripetizione di una o più parole della frase e/o del verso, tesa a simulare il «richiamo disanimale» del Matto, il linguaggio follis dei malati mentali: «non son non son castelli ma qui ma qui ti specchia»; «e il biancore il biancore che spossa» (in il Matto IV). Come il mantra della mistica buddhista o la “preghiera del cuore” del misticismo ortodosso – che prevedono la ripetizione incessante di una stessa formula secondo il ritmo del respiro, allo scopo di meglio «discendere dentro il proprio cuore» (Racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano, 1973, p. 16) –, anche le poesie-preghiere-lalìe ruggeriane agiscono più sul piano del corpo e del respiro che su quello della comunicazione funzionale, mostrando peraltro lo stretto legame tra oralità e orazione: «nel mio cervello elettrico / solo un circuito ancora regge il carico / quello della preghiera» (in Al padrone).

Pure l’eccesso di significati di cui la fitta rete intertestuale di riferimenti e citazioni carica la sua poesia, lungi dall’essere solamente il sintomo di un patologico horror vacui, risponde invece alla necessità profonda di neutralizzare i significati stessi, per farne nenia pre-/in-significante, melodia a servizio di un estatico “sapere senza conoscenza”. Come avviene nell’arte barocca – della quale l’autrice aveva peraltro un esempio vivo nella sua città (Lecce) e un eccellente interprete e studioso in Bodini –, anche nella sua poesia l’eccesso e l’iper-saturazione della pagina mirano a lanciare chi la scrive verso lo smisurato, l’infinito; se si vuole, verso un Dio che non è che «la parola che, in ogni civiltà, ha avuto la funzione di indicare esattamente questa dismisura» del sentire e del sapere umani (Jean-Luc Nancy, Federico Ferrari, Estasi, Luca Sossella Editore, Bologna, 2022, p. 14).

Proprio come le guglie barocche, i versi di Claudia sono una cosa stretta e altissima che trascina estaticamente verso l’alto: «e le sbronze testuali dove il verso inscenò / cose strette e altissime» (in [Napoli l’ebbi strana ed il porto]); «T’avrei lavato i piedi / oppure mi sarei fatta altissima / come i soffitti scavalcati di cieli» (in Lamento della sposa barocca). Verso l’alto – o verso il basso, indifferentemente: l’opera ruggeriana – rimasta inedita durante la vita dell’autrice e pubblicata integralmente solo nel 2020 con la curatela di Annalucia Cudazzo (Musicaos, Lecce) – racconta infatti da un lato di una catàbasi nel caos del proprio inferno minore (la depressione, la debilitazione fisica e mentale), dall’altro del tentativo di un’ascesa spirituale, che si intensifica a partire dalla seconda e ultima raccolta, )e pagine del travaso. qui per riudire la pazzesca evenienza del dattilo, la cui stesura coincide non a caso con gli ultimi e durissimi anni della sua vita (1990-1996). Un doppio e simultaneo movimento, insomma, verso quella che lei stessa chiama «una benvenuta dismisura» (in lettera al Matto sul senso dei nostri incontri).

Per capire (sentire) questa poesia vertiginosa e barocca, bisogna allora fare proprio l’insegnamento di Wittgenstein e «gettar via la scala dopo averla usata»: rinunciare al senso logico di ciascuna frase, dopo essere ascesi o discesi «per essa – su di essa – oltre essa» (Tractatus logico-philosophicus, 6.54). Il trobar clus, dotto e pluristilistico di Ruggeri – il cui registro poetico spazia agilmente dall’aulico al volgare, dal colloquiale all’arcaico, dalle lingue straniere al dialetto locale – è teso infatti non tanto a centrare un significato, quanto a moltiplicarlo fino a rimuoverlo, al fine di conservare l’equivocità del senso propria della lingua poetica: «mi tengo in limine. mi conservo l’equivoco / degli stili incrociati», si legge in [che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo]. Tenendosi in limine, ovvero non introducendo nella in-flessione della voce la pietra dura del significato, la poesia sprigiona infatti quell’«eccesso semiotico» che rende possibile «l’interminabilità del processo di attribuzione di senso» che la caratterizza come genere (Franco Bifo Berardi, Respirare. Caos e poesia, Luca Sossella Editore, Bologna, 2019 p. 21).

Era proprio alla Dismisura, al Vuoto, a Dio o un dio che Ruggeri parlava – e a quella figura-tarocco del Matto che è di tutto questo una sorta di simbolo totemico: «ò spensierato ò grande», si legge ancora in il Matto II. La sua scrittura è una lode allo spensierato, ovvero al senza-pensiero, all’insensato, al folle, il cui linguaggio non può che prendere forma di preghiera, canto o poesia: di una lingua, insomma, balbettante, innocua, anti-economica e smisurata. È infatti, a mio avviso, anche e soprattutto della lingua, della voce e della poesia il «folle volo» cui la poeta si riferisce – citando Dante – in uno dei suoi ultimi componimenti, e che presagisce il (non più metaforico) salto nel vuoto con cui si ucciderà, gettandosi dal balcone della casa dove viveva con la madre, a Lecce, il 27 ottobre 1996, a soli 29 anni: «e volli / il ‘folle volo’ cieca sicura tuta / volli la fine dell’era delle streghe volli // il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il libro» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]).

Sono versi testamentari, ultimi, che depongono per sempre la volontà di dire e quindi di essere: «mi tolgo / dal dettaglio di questi ultimi versi» (in …[(i tuoi occhi come colombe su ruscelli d’acqua]). L’omonimìa tra il corpo e il testo, tipico delle scritture performative e orali come la sua, si spinge nel caso di Claudia fino all’estremo più tragico: «E, vedi, il nostro corpo / il nostro corpo soltanto può dire: bianco, tellina, lontano / vento», recitano i versi altrettanto ultimi, scritti cioè a ridosso della morte, di un altro poeta che ci ha lasciati troppo presto, e altrettanto colpevolmente dimenticato dalla critica ufficiale (Antonio Santori, La linea alba, Marsilio, Venezia, 2007 p. 98). Finita l’era delle streghe, finito cioè l’incanto estatico dello scrivere-dire poetico, anche quel corpo che soltanto può dire si appresta a finire e si spegne, tirato giù – nel caso di Claudia – dal peso intollerabile delle malattie, della morte del padre e di alcuni amici (tra cui il poeta Dario Bellezza, portato via dall’AIDS nello stesso anno); soprattutto, dal peso dell’incomprensione e dell’isolamento intellettuali e umani che l’avevano spinta a definirsi una rosa-fungo che «non si addice ai prati».

Tirata giù, infine, da «un’immensa nostalgia» di altrove: come scrive in uno dei suoi ultimi appunti, l’autrice a ridosso della morte sa ormai di essere finita «in basso tra quelli che non sono più leggeri, ed hanno completamente abolito nei loro sogni la funzione del volo: quando si trovano nel vuoto non ricordano più che si vola e sono portati giù dalla loro immensa nostalgia» (in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. XXXIII).

“…

“mi tengo in limine, mi conservo l’equivoco
degli stili incrociati ché nel pieno rumore
dell’infrenabile selva, altro splendore, sai,
altre memorie, altro si lega si strega si ride;
prima della parola ò autore prima
della parola che ti erra e che ti erra
e che ti sbenda, prima che smazzata che ti mette
nella legge e tutto inizia
a muoversi non esprimendo non misurando delimitando a rito;
quale sicura sicura andatura,
quale percorso per entro inchiostri spinti
contraffarà l’ingorgo and so stay there my art
e questo libro senza controllo e questa ottava
inappagata questa mandragora murata, e nondimeno tu
dormi incastrata, qui, nella terra nulla dove la rosa
è un fungo e non si addice ai prati

[che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo], vv. 20-35, da ) e pagine del travaso, in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. 47.

[1] Pallaksch è una parola senza senso cui, stando alla testimonianza del suo primo biografo ed editore, Cristoph Theodor Schwab, Hölderlin attribuiva talora il significato di “sì”, talaltra di “no”.

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