Nella foto: Emily Dickinson

A prescindere dai tempi che corrono – e quelli che stiamo adesso vivendo sono fatti di lampi di guerra, di morti innocenti lungo confini inventati e, ben più vicini a noi, di omicidi folli e ingiustificati – alcuni autori della storia della letteratura mondiale sono in grado di rimanere dei veri e propri fari puntati sulle zone d’ombra del nostro vissuto quotidiano, sulle nostre psicologie individuali quanto collettive. La loro grande virtù è quella di poter essere costantemente risignificati, tramite i loro testi, in nuovi contesti e nuovi orizzonti, rimanendo in grado di dirci sempre una parola necessaria, ricercata. E così sembra, ancora a rileggerla oggi, la parola che ci ha lasciato l’autrice par excellence della letteratura americana degli ultimi due secoli, Emily Dickinson (1830-1886), che si può adesso riscoprire in una nuova, elegante traduzione, portata a termine da Silvia Bre e approdata, con il numero non esiguo di circa trecentocinquanta testi, al bel volume di Poesie edito nei Tascabili Einaudi lo scorso marzo. Quello della Bre è un percorso lungo e meditato, spinto da una «totale naturalezza» verso il colloquio con la poetessa di Amherst, passato attraverso la pubblicazione di tre «centurie» di testi, nel corso di meno di un decennio, nella prestigiosa collana Bianca della Einaudi: Centoquattro poesie (2011), Uno zero più ampio (2013) e Questa parola fidata (2019). Nella sua selezione, Silvia Bre si muove come un rabdomante, scegliendo le poesie in base a «dove si posano gli occhi», evitando i testi più tradotti e inflazionati, ricercando da una parte la sfida dell’ignoto, dall’altra la necessità di porre le tracce di un proprio percorso interno al vasto mare magnum della produzione dickinsoniana – composta da più di 1700 poesie, cui l’autrice non ha mai dato una sistemazione definitiva all’interno di un canzoniere complessivo né ordinandola in singole raccolte.

Durante la sua vita, in effetti, Emily Dickinson non ha mai pubblicato in maniera organica le sue poesie. La scrittura è stata per lei sempre un’attività quotidiana e privata, se si esclude l’apparizione di pochissimi testi – per altro spesso stravolti in fase editoriale – su alcune riviste locali. E questa dimensione privata coincide con la dimensione complessiva della vita di Dickinson, che, a partire dai suoi venticinque anni, non ha messo più piede fuori dalla casa di famiglia, la Homestead di Amherst, in Massachusetts. Opposta, nella sua stabilitas loci, a un poeta invece girovago – e altrettanto fondamentale e fondativo nella storia letteraria americana – come Walt Whitman, Emily Dickinson ha ritrovato nel dettaglio, nella ripetizione ossessiva dei motivi naturali, nell’osservazione tagliente di uno sguardo inquieto il dono della poesia come folgorazione, come rivelazione estatica e totale, in un contesto fatto di pose quotidiane e abitudini casalinghe. Già dal 1858, incominciò a raccogliere in fascicoli i suoi testi, poi accatastati in bauli e cassetti, dove sono rimasti fin dopo la sua morte. Ma la sua era una «still – Volcano – Life» (601), una «tranquilla – vita – da vulcano», in cui dietro all’apparenza placida e calma delle cose si nascondeva il terremoto dello stile («A quiet – Earthquake Style») e la rivelazione, continua, della poesia, che è in lei magma vivo e sempre inaspettato, sorprendente, capace di catturare, nelle pieghe del già detto, un mistero altrimenti indicibile.

Radicata in pochi nuclei essenziali, la poesia di Emily Dickinson affronta così le principali soglie dell’umano (amore e morte), passando attraverso tematiche proprie del suo tempo (il rapporto tra uomo e natura), non senza permettersi affondi ben radicati in argomenti di filosofia, di morale, di teologia. Ma al centro del suo discorso rimane la poesia, via di fuga da un reale altrimenti arido e opprimente e via di salvezza verso una conoscenza autenticamente altra e personale, meditata. La poesia sembra riassumere in sé, per Dickinson, il senso di tutto l’universo, come si legge in un meraviglioso incipit (569):

I reckon – When I count at all –
Firts – Poets – Then the Sun –
Then Summer – Then the Heaven of God –
And then – the List is done –

But, looking back – the First so seems
To Comprehend the Whole –
The Others look a needless Show –
So I write – Poets – All

*

Reputo – se mai li conto –
primi – i poeti – poi il sole –
poi l’estate – poi il cielo di Dio –
e poi – l’elenco è chiuso –

Ma, ripensandoci – i primi sembrano
talmente includere tutto –
che gli altri appaiono una sfilata inutile –
così scrivo – poeti – e stop –

Dickinson scrive per la mancanza, si dedica «all’assenza assoluta» (Bre), vivendo in pieno l’inquietudine di chi è sospeso tra due opposte tendenze: da un lato, il vitalismo della natura, il panismo, dall’altro l’obbligato pessimismo di una formazione ricevuta negli ambienti del puritanesimo più fanatico. In questa contraddizione, Dickinson s’inserisce con uno sguardo in grado di generare pensiero, talvolta sfidando le mitologie contemporanee e le ortodossie di qualsiasi tipo:

They shut me up in Prose –
As when a little Girl
They put me in the Closet –
Beceause they liked me «still» –

Still! Could themselves have peeped –
And seen my Brain – go round –
They might as wise have lodged a Bird
For Treason – in the Pound –

Himself has but to will
And easy as a Star
Look down upon Captivity –
And laugh – No more have I –

*

Mi rinchiudono nella prosa –
come quando da bambina
mi mettevano nello stanzino –
perché mi preferivano «tranquilla» –

Tranquilla! Avessero potuto sbirciare –
vedere come frullava – la mia mente –
Potevano con simile astuzia chiudere un uccello
a tradimento – nel recinto –

Basta che lui lo voglia
e libero come una stella
guarda dall’alto il carcere –
e ride – Io non facevo altro –

Tutto è visto, nella sua poesia, come dal buco di una serratura, ma l’animo è quello di chi è «libero come una stella», ed è in grado, da solo, di generare interi mondi possibili. Il suo pensiero è a serpentina, ora fluisce ininterrotto, ora si muove a sprazzi e lampi, ma rimane sempre fedele a sé stesso, sempre in cerca di una qualche verità. Ricorda, per immediatezza immaginifica e densità di pensiero, alcuni passi celeberrimi di Lucrezio. Effettivamente, anche la sua poesia possiede «una tensione concettuale» in grado di «trasfigurare i dettagli concreti di partenza con la forza di una allucinazione spietata» (Luperini). Colpisce, poi, della poesia di Dickinson, la sicurezza e la consapevolezza che manifesta nell’uso di strumenti linguistici e metrico-prosodici. Il suo ordo non è regolato da una punteggiatura tradizionale, ma mima le folgorazioni del pensiero attraverso i trattini, veri e propri squarci sintattici e insieme pause prosodiche efficaci, in grado di isolare singoli termini o sezioni di frase, dando loro rilievo patetico e serietà drammatica. La sua è una parola concreta, che accorda dimensione carnale e dimensione spirituale:

A Word made Flesh is seldom
And tremblingly partook
Nor then perhaps reported
But have I not mistook
Each one of us has tasted
With ecstasies of stealth
The very food debated
To our specific strength –

A Word that breathes distinctly
Has not the power to die
Cohesive as the Spirit
It may expire if He –
«Made Flesh and dwelt among us»
Could condescension be
Like this consent of Language
This loved Philology

E con altrettanta consapevolezza di linguaggio e di mezzo espressivo la traduce Silvia Bre, servendosi di un italiano depurato dei vari arcaismi e traduttismi nei quali s’incorre fin troppo spesso nell’ottica scolasticizzante e talvolta banalizzante di tanta editoria italiana. Silvia Bre si pone «al servizio» di una poesia e di una poetica altra, ma «con ritmi rispettosi anche se non adesivi, mantenendo intatti i fatti con i fatti, i non detti con i non detti» (Amato). E tutto ciò emerge chiaramente, ad esempio, nella resa della poesia appena letta: una vera e propria reinvenzione in lingua italiana che a buon diritto va considerata uno dei punti più alti di Bre-poetessa prima ancora che di Bre-traduttrice:

Di rado una parola è fatta carne
e con tremore condivisa
e forse allora neanche viene riferita
ma se non vado errata
ognuno di noi ha gustato
con estasi furtive
proprio il cibo trattato
secondo nostra forza specifica –

Una parola che respira nitida
non ha il potere di morire
coesiva come lo spirito
potrebbe spirare se Lui –
«fattosi carne e disceso tra noi»
potesse essere condiscendenza
come questo consenso della lingua
questa amata filologia

Ed è inoltre un ottimo punto d’approdo, su cui fermarsi a meditare.

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