Laboratorio di Poesia, a cura di Alfonso Maria Petrosino, esce l’ultimo venerdì del mese su ‘Poesia del nostro tempo’. Vengono commentati i versi dei poeti del Laboratorio online e scelta la poesia del mese.

Dimitri Pasquali ha inviato tre terzetti dal tono religioso, ognuno dei quali ha una coerenza metrica. Ungaretti disse che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando essa è una bestemmia; questi invece sembrano frammenti di salmi in traduzione libera, punte di iceberg la cui parte sommersa consiste in un kierkegaardiano tremore. Le cellule che rimandano alla letteratura religiosa (l’invocazione diretta “Signore”, il sintagma “per bocca di dio”, le locuste della piaga biblica) controbilanciano le espressioni più oscuramente poetiche e quindi originali come “schegge di buio” e “nel sonno della sabbia”. Si vorrebbe (cioè, vorrei) uno sviluppo e un contesto maggiori, per una maggiore comprensione, ma è probabile che sia questa la sola forma possibile; così come chi bestemmia lo fa sussultando tra un’amara constatazione e uno sfogo, qui la preghiera sorge tra il bianco della pagina e il nero dell’inchiostro: poche e già troppe parole.

Come schegge di buio le locuste
consumano a morte la gioventù
avvampano nel sonno della sabbia

***

Di vita in vita ho camminato
affinché il tuo messaggero
mi divorasse il cuore, Signore

***

Viene a stanarmi in una prova di naufragio
il sogno vecchio di altre vite, dalla tua fronte
sorge limpido; ti pronuncia, per bocca di dio

Le poesie di Maria Bochicchio cominciano spesso in fieri, con un “Ma” o, come quella riportata qui di seguito, con un “E poi”: sembrano così cominciare già iniziate. Un ottimo espediente, questo, per renderle ancora più ampie di quello che sono. Non teme la miscela di anacoluti ed elenchi, espressioni ordinarie (penso in particolare a “salvare il salvabile”) e profondamente inconsuete (penso invece a “osare l’alba”): l’effetto calderone è riuscito grazie all’unità di discorso, tutto emana da e tende alla voce che parla. Ci sono perle, che restano irrisolte ma cionondimeno memorabili, come (in un’altra poesia) il variamente interpretabile “nervo doppio dei giorni” o come nel finale di questa le lacrime sospese.

Spiegami la notte

E poi di colpo cadere
spandere
nel timore d’adagiarsi
tradurre un poco
smozzicare l’inconfondibile,
salvare il salvabile
risalendo alla fonte.
Riconoscere che ciò che leggiamo
si trova già un poco dentro di noi
un poco più a fondo,
scavare
dentro tutte le identità della lingua
nell’intimità di un pensiero
che non è un posto
ma a un posto ormai ci somiglia,
sul quale scivolare in punta di coltello
per affinare i sensi
distinguere gli aromi
in cerca di parole impossibili,
sostituire un significato
rassegnarsi a un’impronta,
e poi miseramente fallire
osare l’alba
disimparando una voce,
la devozione dell’esserci
la consapevolezza dei limiti,
interpretare da sola
quello che la notte non dice:
i fanali spenti sotto le lenzuola
e l’avidità della fronte,
che smiccia da capo
una nostra volta al risveglio
dall’altro lato della gola
dove ogni tanto le lacrime,
e sarà come morire.

Come poesia del mese ne scelgo una di Simone Migliazza, perché – questa come le altre sue – crea un equilibrio perfetto tra precisione dei ricordi e vaghezza. Indica luoghi assoluti con riferimenti concreti: anche le sedie sembrano metafisiche. Le stagioni risultano al contempo astronomiche ed esistenziali, plastica e marmo riescono a individuare le differenti consistenze visive come se fossero tratti di pittura stesi con pennelli diversi. Parla d’infanzia, magari la sua, ma sembra quella di chiunque.

L’infanzia contornata di bandiere —
le parole portate
al centro della stanza
nel cerchio del calore, tra le sedie.
Le voci che si mescolano
il lavoro del fuoco
assieme ai vetri, ai legni
— Resistere all’inverno.

D’estate, nelle sere,
si crede con la musica
tra tavoli di plastica.
C’è da mangiare, da bere. Si dicono
cose da palco al fumo delle griglie.
Avanza fede per qualche anno. Poi

la storia che finisce
— la casa abbandonata
i simboli in disuso
i disegni sui marmi raggelati.

 

Alfonso Maria Petrosino ha pubblicato quattro libri di poesia, Autostrada del sole in un giorno di eclisse (OMP 2008), Parole incrociate (Tracce 2008), Ostello della gioventù bruciata (Miraggi 2015) e Nature morte e vanità (Vydia 2020). La sua poesia, che descrive luoghi e situazioni in relazione a un paesaggio urbano e all’umanità che lo abita, si avvale di una metrica precisa e raffinata. La redazione di Poesia del nostro tempo ha scelto Alfonso Maria Petrosino per impersonare la figura del maestro, capace di leggere attentamente e suggerire soluzioni, anche ai neofiti della poesia, proprio per la sua capacità sia di aderire al “canone”, alla tradizione, che di frequentare i nuovi palcoscenici della poesia, dagli happening e performances al poetry slam, essendo stato campione indiscusso di queste scene per molti anni.

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