Gesualdo Bufalino a Comiso (1985). Foto di Giuseppe Leone. Per gentile concessione del maestro Leone

Parafrasando Shakespeare, nella Diceria dell’untore (1981) Gesualdo Bufalino battezza il «Riessere», un’espressione che molta fortuna avrà nella sua produzione narrativa e poetica, e che sarà spesso usata dalla critica quale snodo interpretativo della sua poetica. Lo stesso autore ne dà ragione in interviste e saggi, mostrando grande auto-consapevolezza stilistica e ribadendo l’intento lirico nello scrivere, fatto di necessità e godimento nel condensare i punti focali della propria opera in espressioni sintetiche ma densissime, luminose, fonde come voragini.

Il «Riessere», nella fattispecie, avvolge il caleidoscopico tema della memoria, la quale in Bufalino è primariamente legata all’«estasi di rivivers1 (Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, Milano, Bompiani, 2018, p. 82): l’ossessione per l’esperienza vissuta che riprende forma e si ripete, allestendosi come una stanza davanti agli occhi e animandosi sotto le dita di un giocattolaio dipinto come burlesco e talvolta sadico, attraversa tutta la produzione di Bufalino e raccoglie le istanze dell’autoinganno, della fantasticazione, dell’illusione, della delusione, del rimpianto, dell’oblio. Il rapporto tra la scrittura e la memoria si veste nei romanzi e nelle liriche di sembianze cangianti, sollecitate da un sempre diverso filone tematico a esso intrecciato, che di volta in volta è la questione dell’autobiografia e dell’autorialità, il nostos travagliato verso il sud, la guerra, il contagio, la speranza nella parola e la fantasticheria bonaria che spesso avvolge l’autoinganno. La ricerca di Bufalino – sono queste le parole da tenere bene in mente per seguire la strada tracciata dai «sogni della memoria»: ricerca, processo, tensione – corrisponde a un cammino à rebours seguendo una mappa che rimescola i luoghi e muta a ogni istante la legenda. Il soggetto – l’autore, il protagonista, sempre aggrovigliati – conosce i segni ma è incapace di ricollocarli, di renderli intellegibili e funzionali al raggiungimento dello scopo, appunto il «miracolo del Bis, il bellissimo Riessere» (ibidem).

È noto come la tensione verso il Riessere sia una lente interpretativa infallibile per i romanzi, declinata di volta in volta in chiave filosofica, memoriale, autobiografica, storica e sempre metaletteraria, ma per forza di cose è meno noto come tale processo agisca nell’opera poetica di Bufalino, a lungo trascurata dalla critica: anche nell’Amaro miele (1982; 1989; 1996), infatti, la lotta contro l’impossibilità del Riessere e il piacere dell’abbandono con il quale ci si può concedere ai «sogni della memoria» percorrono le pagine confrontandosi e scontrandosi, mentre il poeta le osserva, le manovra e le riassembla tentando di ricomporre uno dei rompicapi che tanto ama. Restano la consapevolezza e la responsabilità di prendere posizione, con il dubbio perenne che il non risolvere il quesito dipenda dal tentativo fallito dell’autore di distanziarsi totalmente da ciò che è scritto o che invece sia legato all’opposto fallimento nel comprendere appieno la propria interiorità e il proprio passato nei ricordi perduti e in quelli custoditi e mutati. A mettere un punto alla questione è il valore che tale processo acquisisce nel determinare l’autorialità e, traslando da protagonista ad autore, la poetica di Bufalino il quale, consapevole di tutto ciò, riconosce in questo non-finito – che mescola il dentro e il fuori, il passato e il presente, i ricordi vissuti e quelli sognati – l’autenticità dell’autore e l’attendibilità spiazzante della sua voce: «Riessere, this is the question. Poiché non c’è gesto o scongiuro che non deluda, e quel tanto che riesce a ripetersi sotto le palpebre, nell’atto stesso che illumina, acceca. Alla fine mi lascia solo parole» (ivi, p. 83).

Il passo della Diceria evoca l’incipit dello stesso romanzo e illustra con parole misurate ma evocative i sentieri contrastanti che si dipanano dal doloroso tentativo di gestire la memoria e di poterla guidare, addomesticare. Con questo tema Bufalino si confronta sin dall’inizio non solo perché è elemento necessario alla ricognizione e organizzazione del narrato/versificato, ma poiché per lo scrittore la comprensione e la padronanza di questo frastagliato e mobile materiale memoriale ha a che fare, prima che con l’autorialità, con l’identità. Una ulteriore coordinata fondamentale per addentrarsi nei testi e, nel nostro caso, nelle liriche di Bufalino, è l’altra fortunata espressione ripetuta incessantemente, ovvero «memini ergo sum» che, nel variare la formula di Cartesio, ridefinisce il quadro dei valori e delle ambizioni ultime per il soggetto secondo Bufalino: la morte prelude all’oblio eterno, la vera cancellazione del soggetto e dell’identità che – si riveda la citazione dalla Diceria – possono essere trattenuti solo dalle parole, le uniche che donino un sollievo e che conducano – o illudano di condurre? – verso «il bellissimo Riessere» (ivi, p. 82). Vale la pena, per sottolineare il nesso ma anche l’alternanza tra memoria, identità, scrittura e autorialità, leggere una riflessione di Bufalino sulla propria poetica e sul valore della scrittura: «scrivo per ricordare, ed è questa forse la motivazione suprema. Per sconfiggere l’amnesia, il silenzio, i buchi grigi del tempo, per compiere in me quello che una volta, parodiando audacemente Shakespeare, ho chiamato il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere. Essere o Riessere, ecco il problema. La scrittura me lo risolve, mi permette di cibarmi dei miei ieri come le iene si cibano dei cadaveri e così sopravvivere nel deserto» (IDEM, Conversazione con Gesualdo Bufalino. Essere o riessere, a cura di Paola Gaglianone e Luciano Tes, Roma, Òmicron, 1996, p. 9).

Nell’Amaro miele il processo di oblio come perdita di identità e quindi morte eterna – nell’esperienza biografica e sulla pagina – è al centro della lirica A Sesta Ronzon, dovunque si trovi (IDEM, L’amaro miele, Torino, Einaudi, 1996, p. 63), una donna incontrata e amata da Bufalino negli anni della guerra, la quale è parte di quel groviglio identitario che costituisce il personaggio di Marta – forse Sesta Arduini, forse Sesta Ronzon, ma sempre Euridice perduta.2 Nella poesia la figura della donna si muove agile come animata dal ricordo del poeta, che tenta in questo modo di trattenerla e di ricostruire l’esperienza con lei e di lei attraverso tasselli di memorie che tuttavia faticano a trovare il loro posto. In questo gioco del trattenere di cui sempre è vincitore l’oblio Sesta partecipa come elemento dimenticato e dimenticante e si allontana sempre più rarefatta, lasciando di sé prima la sagoma, poi la voce – l’elemento che nel processo di dissoluzione resiste più a lungo –, poi nulla.

A Sesta Ronzon, dovunque si trovi

Forse un fruscio di bicicletta ancora
col sabato dolce ti svia
per alberi e bivi di pioggia
e trepide nebbie di fuoriporta,
angelo forestiero, passeggera
colomba inventata e perduta.
E forse già immemore t’allontani
dal viso che fu nostro, e nel giro
delle tue gambe lunghe, nel volo
lieve della tua gonna di cotone,
un altro anno, un’altra storia si consuma.
Ma io qui rimasto a contare
le cicatrici della sabbia, le collere
dell’acqua che s’annera, io così povero
da non potere neanche me donare,
che cosa farne del tuo ricordo,
dei colori di te che si scancellano?
Una figura almeno per i miei viaggi a mani vuote,
malinconica voce anniversaria,
versi da leggere solo una volta,
scritti dietro una busta.

Di ciò che il poeta ha condiviso con Sesta rimangono solo dei versi destinati a consumarsi, precari, caduchi, versi «scritti su carta da macero» (ivi, p. 181), come Bufalino aveva definito le liriche dell’Amaro miele nella nota alla prima edizione. Ancora una volta restano solo le parole, ovvero i ricordi tramutati in testo – sempre sotto l’effetto quasi allucinatorio della memoria. Per lo scrittore la corrispondenza è diretta ed è, anzi, uno scambio ambivalente, tanto che si potrebbe parlare di omologia: le parole che formano il testo scritto sono risultanti del processo di creazione autoriale così come i ricordi sono perennemente sottoposti all’azione soggettivizzante e deformante della memoria, che si evolve con il mutare del soggetto, tanto è vero che i ricordi per Bufalino si possono definire «sogni della memoria», espressione che usa come sottotitolo o piuttosto titolo alternativo del suo secondo romanzo, Argo il cieco (1984). Tale equivalenza è indispensabile per riconoscere i costituenti della poetica bufaliniana e per vederli agire nei testi tenendo a mente l’approccio metaletterario.

Questi aspetti si riscontrano in modo evidente nella poesia Exegi monumentum… (ivi, p. 138), pubblicata originariamente in Bluff di parole (1994). Sulla scorta delle citazioni colte da Orazio e Montale – dalle Odi (III, 30) del primo e dagli Ossi di seppia (Portami il girasole ch’io lo trapianti) del secondo, con tanto di rima in absentia nel penultimo verso tale:Montale – il poeta racconta di un monumento eretto da lui con le parole, il quale tuttavia non pare affatto aere perennius. Nella breve lirica Bufalino fa prevalere una visione decisamente pessimistica e confessa la seduzione dell’oblio; allo stesso tempo, conferma la sua concezione del rapporto tra memoria e scrittura, nonché tra arte e vita: l’identità del soggetto/protagonista coincide con l’autore e la sua vita – il permanere della sua identità – con il destino dei suoi scritti.

Exegi monumentum…

Exegi monumentum di sabbia e di cartapesta.
Non dico fra mill’anni, che pure all’eterno
è più corto momento d’un battere di ciglia,
ma fra venti, fra dieci si scorderanno di me.
Mi manderanno al macero e chi s’è visto s’è visto.
Felicissimo esito: come diceva quel tale,
svanire è la ventura delle venture.

L’amaro miele è attraversato e plasmato dall’operazione creativa che Bufalino mette in atto emulando l’azione della memoria e l’acquisizione della materia autobiografica come materia di racconto da poter (ri)elaborare, smontare e riassemblare è un dato di fatto di tutta la sua opera, dimostrato anche dalla presenza nella raccolta di poesie scritte originariamente per altri testi o in essi contenute parallelamente, di frequenti e funzionali auto-citazioni, di ri-narrazioni degli stessi eventi, di ri-significazioni di simboli, lingue, modelli letterari e, infine, di riconfigurazioni di luoghi, personaggi, ordini cronologici. Questo processo di creazione laboratoriale che apparentemente ha la forma di una mescolanza caotica di istanze biografiche e fittizie, ha una matrice consapevole e volontaria che, ancora una volta, si impernia sull’azione deformante e, per certi versi, rivelatrice della memoria. L’elemento istintuale creativo agisce in modo simile a essa: di questo l’autore può essere consapevole, ma è un processo che può controllare ed esaminare solo fino a un certo punto.

Più estesamente, la memoria ha sui ricordi e, in generale, sulle esperienze del soggetto un’azione deformante, influenzata da infiniti fattori che contemporaneamente agiscono al di fuori del controllo di lui e che, inevitabilmente, lo portano a custodire dentro di sé un’impronta di tali esperienze sempre soggetta a evoluzione e variazione – cause ne saranno, giusto per fare degli esempi, l’invecchiamento del soggetto, la mancanza o presenza di supporti per registrare più compiutamente un evento, i suoi sogni, speranze o delusioni, il mutarsi della sua percezione fisica rispetto al sensibile, l’evolversi delle relazioni con gli altri partecipanti di un ricordo, la fusione di più ricordi tra loro e così via. Per questo per Bufalino l’oblio è la morte: perché nella perdita del ricordo c’è la perdita di qualsiasi traccia, conscia o inconscia, sensibile o immateriale, dell’identità, senza la quale Bufalino sembra non concepire l’esistenza. Le parole sono la testimonianza e il segno visibile di ciò che è stato e di chi è stato, ed è da esse che si può far ripartire il meccanismo sperando di innescare l’azione del miracoloso Riessere. In questo senso Bufalino descrive i ricordi come sogni piuttosto che riproduzioni/rappresentazioni fedeli del passato, perché sono sottoposti a processi di rielaborazione che hanno dell’onirico e del favolistico. Il processo creativo funziona allo stesso modo: il materiale di partenza corrisponde al dato biografico e a quello d’invenzione mescolati e intrecciati fino a non poter esser più distinti. Seguono rimaneggiamenti, riscritture, creazioni di simboli e ricorrenze interne, rielaborazioni che percorrono liriche e romanzi in sequenza o in contemporanea, nomi che si sovrappongono, personaggi che si ritrovano, luoghi che si sostituiscono, lingue che si mescolano e citazioni rimaneggiate e poi furbamente segnalate. A governare questa mole di materiale narrativo sta l’autore, che su di essa agisce come fa la memoria sui ricordi, coinvolgendo anche se stesso, amalgamandosi a questa creazione sconsiderata che tende verso, ricerca e insegue nient’altro che «il miracolo del Bis» (IDEM, Diceria dell’untore, cit., p. 82). Questo comporta la creazione di miti personali e/o localmente e generazionalmente condivisi, di auto-mitobiografie, di «fantamemorie» (IDEM, Conversazione con Gesualdo Bufalino. Essere o riessere, cit., p. 37) e di «parabole d’una vita immaginaria»3 (IDEM, Calende greche, Milano, Bompiani, 2016, p. 229), come recita un significativo passo di Calende greche. Ricordi di una vita immaginaria (1992), opera che esplicitamente lavora sull’autobiografia in tal senso ma che non può essere affatto descritta come canonica autobiografia né, d’altra parte, come opera romanzesca. Quest’impossibilità di definizione del genere si collega in modo estremamente consapevole, per quanto riguarda Bufalino, con l’idea che, essendo il processo deformante della memoria infinito, anche quello della scrittura deve esserlo: è noto che lo scrittore concepiva le proprie opere come potenzialmente infinite e che più volte si è detto dispiaciuto di averle date alle stampe, decretandone così una diffusione in una forma fissata univocamente.

La vera rivelazione e ribaltamento di Bufalino è che questo processo non ha come risultato una versione falsa o falsata della vita, del testo o degli eventi storici e biografici, ma ne è anzi la versione più autentica, perché corrispondente all’espressione più intima della soggettività e – in virtù di quanto detto finora riguardo alla corrispondenza tra memoria e scrittura – dell’autorialità. Il soggetto-autore rivendica tutto ciò e ci tiene a precisarlo, servendosi ancora una volta del metaletterario per dichiarare la propria posizione sulla corrispondenza tra arte e vita: «gli sarà lecito durante gli anni o giorni a venire disfare o rifare ininterrottamente, insieme con quella del libro, la trama della sua vita e truccarne il bilancio come più gli pare e gli piace» (ivi, p. 230).

Nella poesia, questi procedimenti si ramificano intrecciandosi al contenuto dei romanzi e, anzi, costituendo insieme a essi la materia di cui Bufalino si fa demiurgo: non a caso Curriculum (IDEM, L’amaro miele, cit., p. 137), inserita nell’edizione dell’Amaro miele del 1996, era prima apparsa in Calende greche, e rappresenta un’ulteriore riflessione attraverso il testo scritto sulle fasi della propria biografia che, in verità, sono un rimando alla biografia di ogni uomo. Si noti anche Poscritto, dopo molti anni (ivi, pp. 119-120), che tenta ancora una volta di ricomporre il quadro dei ricordi alternando immagini, sensazioni, dialoghi e suoni mentre la memoria fa preda – la sua azione sul vissuto del soggetto, anche se riconosciuta, non è mai accettata pacificamente fino in fondo – di nomi, volti e voci e sembra che, pur avendo ricordato e cantato e narrato e con questo inseguito il Riessere, le parole perdano la loro potenziale funzione eternatrice. Altro esempio è Aneddoto (ivi, p. 154), poesia che riprende un fatto più volte narrato da Bufalino e variato, la quale aiuta a comprendere la concezione di una narrazione aperta alla mescolanza – derivante necessariamente della messa in discussione – di vero, simile, verosimile e del puramente immaginario o finzionale, da paragonare ancora una volta all’attività della memoria.

Curriculum

Si stupisce del gioco che s’inizia.
Tutti i sensi appassiona all’avventura.
Si cinge una corona surrettizia
nella clausura delle quattro mura.

Cresce in voce, in statura ed in malizia.
Scopre in un grembo caldo la paura.
D’esistere s’affligge e si delizia.
Si flagella, bestemmia, prega, abiura…

Triste in ilarità, lieto in tristizia,
dei suoi giorni la callida giuntura
adombra in ardue sillabe di Pizia.

Sanguina all’alba da una piaga oscura.
Stremato dall’assidua milizia,
si misura con l’ultima impostura.

Poscritto, dopo molti anni

Se qualcuno stasera è infelice come me,
qualcuno come me, sprangato in una stanza,
dopo aver visto due volte lo stesso film,
solo con un baule di parole sbagliate,
di ricordi bugiardi, in un paese di neve,
fra due lenzuola bianchissime, solo;
se qualcuno stasera è come me nel mondo
uno straniero che domani se n’andrà…

Amico che di là dei monti
per ascoltarmi stringi gli occhi come una volta,
ricordi i balli prima della guerra,
e Jole e Minia e la signora forestiera,
ricordi il sole del trentanove
sui nostri visi brutti, le nostre risa di poveri,
l’intercalare «Quien sabe?» di moda tutta un’estate,
finché significò qualcosa…

Poi la luna si chiuse nei pozzi,
l’unghia d’inverno recise
i mazzi di robinie spruzzolati di sangue,
migrarono gli uccelli dai nidi delle caserme…
Chi guarirà dentro di noi tutti quei morti
che palpano con mani cieche
la notte smisurata che li mura?
Chi nel nero tizzone risveglierà una guancia
per ripetere «t’amo» al ponte della Bettola?

Giorni più neri altrove m’aspettavano:
mi punse il petto la febbre
con lunghe aguzze scapole di vergine,
scaltro venne un sensale
a contare i miei passi, il mio respiro…
Insolente proposta di esistere,
inutilmente al balcone
il grido del gallo un’alba mi chiamò.

Da allora chiuso nel mio cunicolo, e pieno
d’un minuto rancore, d’un bambino rancore,
come un guardiano di faro infedele
vivo in attesa d’un naufragio, m’affeziono
ai minimi relitti che la tempesta mi porge,
dirigo sugli scogli ogni barca che mi cerca,
rido da solo strofinandomi le mani…

Dio, tu dici, o chiedi in silenzio:

a guisa dei poliziotti dei romanzi,
ho fiutato nel mondo le Sue peste;
in piedi e in ginocchio, beffato e beffardo,
l’ho ferito e chiamato, l’ho perduto e cercato,
ma il delitto dentro la stanza chiusa
s’è ripetuto ogni volta, all’improvviso…

E poi…ma addio, addio, le parole non servono.

Aneddoto

Un giorno lungo il mio mare, in una casa di pescatori,
mi chiusero in una stanza per una colpa qualunque.

Composi un gioco lunare
con un fante di cuori
e tre bottiglie piene di vascelli.

Fanciulle allibite sull’acque
mi portarono l’Orsa Maggiore.

Con loro Arlecchino ridendo
ventagli, violini, conchiglie…
spaventato e felice lo guardavo.

Infine venne mia madre e mi prese per mano.

In seno all’inglobamento e al rimodellamento dell’elemento autobiografico nel narrato, i «sogni della memoria» si situano spesso nel cronotopo della Sicilia, ovvero da un lato un tempo passato antecedente alla guerra e a ogni conoscenza di un mondo al di fuori dell’isola, un passato identificato come un’età felice, innocente, di comunione con il proprio esistere in un tempo e in un luogo; dall’altro, nello spazio di tutta l’isola, ma soprattutto del microcosmo di Comiso «città-teatro» (IDEM, Comiso città-teatro, in IDEM, La luce e il lutto, Palermo, Sellerio, p. 128), un caleidoscopio di tipi umani, una mappa di luoghi perduti tra l’incantamento e la rovina. Nell’Amaro miele – e nell’opera tutta di Bufalino – la Sicilia è davvero un cronotopo e la sua presenza nella raccolta non è solo dettata da una necessaria ingerenza biografica, ma da un valore funzionale dell’isola che, attraverso ogni sua manifestazione – letteraria, mitica, metaletteraria, linguistica… si potrebbe continuare a lungo – agisce nelle liriche come una vera e propria funzione retorica e narrativa, veicolando precisi messaggi e alimentando, da protagonista e ordinatrice, un immaginario biografico, letterario e mitico destinato a perenne moltiplicazione – tratti simili ha l’epopea linguistica di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca (1975), tratti simili hanno le poetiche degli altri scrittori siciliani, soprattutto della stessa generazione di Bufalino. La ‘funzione Sicilia’ – come ho definito nella mia tesi magistrale questo procedimento, questo espediente – parte dall’Amaro miele come fulcro del narrare lirico di Bufalino e si estende a tutta la sua produzione, concepita come opus perpetuum, come materia gorgogliante perennemente in fieri. Afferma lo scrittore: «Per me l’opera è sempre aperta e cammina in progresso» (IDEM, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, con un profilo di G. Amoroso, Taormina, Associazione culturale “Agorà”, 1989, non venale, p. 148).

Nelle seguenti poesie la Sicilia si manifesta sotto aspetti diversi, sebbene si riconoscano in tutte i tratti fondamentali del rapporto dello scrittore con l’isola, alcuni dei quali abbiamo menzionato sopra: in Parole da lontano (IDEM, L’amaro miele, cit., p. 45) il poeta fa un’apostrofe alla terra natìa, annunciando un ritorno che porta con sé le sofferenze sperimentate durante la guerra e la permanenza in sanatorio ma insieme testimoniando un attaccamento fortissimo all’isola. La Sicilia bramata è un cronotopo intriso di «luce e lutto» – fortunatissima espressione bufaliniana sui contrasti e le contraddizioni che sono essenza e struttura dell’isola –, una terra personificata che offre bellezza e amore fino all’ingordigia ma che è anche capace di manifestarsi in forme violente: a essa Bufalino anela, a essa preannuncia un nostos necessario – il nostos di tutta la letteratura siciliana – ma contraddittorio, dolceamaro, drammatico. In Compianto dopo la guerra (ivi, p. 51) Bufalino prosegue l’apostrofe alla Sicilia e la percorre nelle ferite lasciatele dalla guerra, mappando l’isola secondo luoghi, elementi del paesaggio, sensazioni, sapori e suoni che si riverberano in domande incessanti le quali, tuttavia, rimangono senza risposta. Infine, Al fiume (ivi, p. 55), una dichiarazione d’amore verso l’isola e verso il microcosmo comisano, un ricongiungimento alla terra natìa nella vita e nella morte, nella lontananza e nel ritorno, a partire dall’apostrofe all’Ippari, fiume che costeggia Comiso. La lirica racconta la ricerca di un’identificazione, di un’agnizione completa con se stessi e con il proprio passato, che sono tutti custoditi nel letto dell’Ippari, al quale appunto il poeta ha «consegnato la sua infanzia»4 e dove la sua vita ha continuato a scorrere, raccogliendo come un nastro tutti i suoi giorni in attesa del suo ritorno al fiume e, quindi, di una nuova unione con l’isola.

Parole da lontano

Il forte sonaglio, l’astuta chitarra
non fanno che strepitarmi dentro la testa:
isola mia, ridammi le tue feste
pompose e intrepide come una sciarra;

sbarrami in viso le streghe pupille,
la luna in collera, la luna dolce;
al primo fermo colpo di selce
rompimi il cuore che già vacilla.

Io tornerò per sempre sulle tue strade,
ai pozzi tuoi murati dall’agave e dal cardo,
alle tue dissennate serenate.

Ritroverò mia madre seduta sulla porta,
si cingerà la fronte con la cupa coccarda,
griderà tutta la notte la mia morte.

Compianto dopo la guerra

Sicilia, madre mia, che t’hanno fatto?
I tuoi orti vanno in rovina,
né più riodo all’alba la fonte
cantarmi la sua frase paladina,
ti sfregia una piaga la fronte.

Ma luna sconfinata eri, celeste
pace di lave a fiore di dirupo,
e da lontano mi nutrivi gli occhi
per tanta esule notte
assediata dal lupo.

Ora non hai che il colpo di scirocco
di taglio sul crinale
bianco di sale, e polverose spoglie
di bisce nelle grotte
che il grido del corno gremisce.

E dentro sei nera d’uccisi:
hanno bocche di calce, aride nocche,
sul capo odono pietre come un mare
crescere, e un grave esercito di visi
e di piedi passare.

Chi dunque ruppe gli spalti felici
dove ieri venni con fiato di vento?
Che armento di avverso ciclope
confuse sulla sabbia
i vecchi sentieri solenni?

Madre, consenti al prodigo deluso
che prima della fine
quelle larve famose in sé ritrovi,
e poi s’abbatta col suo cuore chiuso
sopra il tuo cuore di spade e di spine.

Al fiume

Ippari vecchio, bianchissimo greto,
a te ho consegnato la mia infanzia,
l’empia novella t’ho raccontato.
Come serpi nelle tue crepe
stanno tutti i miei giorni ad aspettarmi,
sotterrata nell’acque tue
c’è la pietra del mio cuore.

Ippari vecchio, fiume di vento,
voglio un’estate venirti a trovare.

Quanta rena di tempo è volata
fra le tue sponde di luce veloce,
quante tacquero trecce scellerate
ai davanzali che non scordo più.
Ah moscacieca d’occhi e di scialli,
ah vaso mio di basilico scuro,
bocca murata dell’amor mio!

Ippari vecchio, fiume ferito,
fammi sentire la tua voce ancora.

Per strade rosse me ne sono andato,
per strade nere ritornerò;
col guizzo estremo d’aria fra le labbra
da lontano il tuo nome griderò.
Arrivare potessi alla tua foce
di crete pigre, di canne dolenti,
dove ti cerca sterminato il mare.

Ippari vecchio, zingaro fiume,
dove tu muori voglio anch’io morire.

In questo breve percorso all’interno dell’Amaro miele sulle tracce del Riessere, abbiamo descritto una memoria multiforme, seminatrice di tracce cangianti, ingannevole eppure rivelatrice, onniveggente come Argo – per ribadire ancora la cura bufaliniana nella scelta dei titoli – tuttavia cieca, vittima del suo stesso incantesimo, differente eppure inseparabile dal soggetto che abita: non una memoria che registra, riordina, archivia, ma una memoria creatrice, generatrice, incline a rimescolare e a contaminare, a «confondere», come il soggetto/autore, «le fantasie dei sogni con le menzogne del giorno» (IDEM, Calende greche, cit., p. 63).

Quella verso il Riessere rimarrà per sempre una tensione, una meta tanto più irraggiungibile quanto più apparentemente vicina, legata al binomio arte/vita che, rimescolati insieme, possono essere opus infinitum. Perché bisogni, come una necessità fisiologica, perseguire questa ricerca, soffrire e sperare e disperare, Bufalino non lo dice, non vi trova risposta. Ma nel finale di Argo il cieco innalza per la necessità di questo ri-cominciamento una preghiera alla vita, abbracciando le sue «ragioni» e coltivando «minuzie di speranza» (IDEM, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, cit., p. 153) nel tentare l’inseguimento impari del «miracolo del Bis» (Diceria dell’untore, cit., p. 82). Quale via? Quale mezzo? Quale destinazione? «La preghiera di Argo», dice Bufalino, «invita a ricominciare. Come nel Cimitero marino di Valéry, il faut tenter de vivre» (IDEM, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, cit., p. 131).

Bisogna tentare di vivere e di ri-vivere e per far questo Bufalino mette in campo i suoi mezzi, la memoria e la scrittura, e li offre al lettore perché lo segua in questa ricerca – sì, a tratti proustiana, ma con notevoli e decisive differenze – non solo di un temps perdu ma, come lo scrittore di Comiso scrive parafrasando Valéry in Tommaso e il fotografo cieco (1996), di un «temps toujours recommencé» (IDEM, Tommaso e il fotografo cieco, Milano, Bompiani, 2016, p. 162).

 

1 Corsivo dell’autrice.

2 Quello di Euridice perduta è un modello letterario centrale nella Diceria e ricorrente nel resto della produzione di Bufalino. Lo scrittore, tuttavia, gioca con i binomi perdere/custodire e oblio/memoria e risignifica il mito offrendo la variante – anche autoaccusatoria – di un Orfeo dispettoso, malevolo e «vigliacco che si volta di proposito», laddove la Marta del romanzo è «un’Euridice soccorsa solo per finta» (IDEM, Diceria dell’untore, cit., p. 200).

3 Corsivo dell’autrice.

4 Corsivo dell’autrice.

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