Prima immagine di un buco nero (Sagittarius A*, al centro della Via Lattea)
Elaborazione dell’Event Horizon Telescope (EHT) – 2019

 

«Provo a raccontare come sono fatti i buchi neri, che vediamo nel cielo a centinaia. Cosa accade sul bordo di queste strane stelle, l’orizzonte, dove il tempo appare rallentare fino a fermarsi e lo spazio sembra strapparsi». Parafrasando Carlo Rovelli (I buchi bianchi, Adelphi, 2023, pag. 15) vorrei provare a raccontare cosa scrive la poesia italiana sui buchi neri che si vedranno pure nel cielo a centinaia, per chi ha strumenti idonei, ma ancora disertano, salvo presenze sporadiche, le pagine dei poeti. Ciò nonostante la possanza delle possibili metafore, quali il vuoto e il nulla, la morte e il tempo, l’inimmaginabile buio, la mostruosità per la mente umana di una dimensione aliena.

Non entrerò, né potrei farlo da profano, nelle questioni più strettamente tecniche. Nel permanente scostamento-avvicinamento, tipico della Scienza, tra Verità inseguita e verità raggiunte, oggi sappiamo che i buchi neri non sono una rarità e che forse costituiscono, insieme alla materia oscura e all’energia oscura, capisaldi per la comprensione dell’universo. Questi “mostri”, come spesso, sintomaticamente, sono chiamati, dove la densità della materia e la forza delle distorsioni gravitazionali sono talmente enormi da trattenere la luce e fermare il tempo, furono ipotizzati sulla base della teoria della relatività generale formulata da Albert Einstein nel 1915 e delle successive elaborazioni, a cominciare da quelle di Karl Schwarzschild, nel 1916.
Il termine buco nero fu coniato nel 1967 da John Wheeler ed è solo del 2019 la prima immagine[1] di un buco nero, al centro della galassia Messier 87, a 55 milioni di anni luce dalla Terra, e del relativo orizzonte degli eventi, cioè di quella “superficie” dello spazio-tempo oltre il quale cessa di essere osservabile, dall’esterno, qualsiasi fenomeno (evento), dove cioè il tempo si arresta.
«Quello che lì sarebbe un istante/ per noi sarebbero milioni d’anni»[2], scrive Bruno Galluccio nella sua opera fondamentale, in termini di poesia scientifica.
Se il buco nero di Schwarzschild possedesse la massa di una galassia, l’orizzonte sarebbe situato a una distanza nell’ordine di cento miliardi di chilometri dal centro; se invece avesse la massa del Sole, allora l’orizzonte disterebbe circa tre chilometri dal centro; infine, se avesse la massa di una montagna, l’orizzonte sarebbe situato a un decimo di miliardesimo di centimetro!

In un breve testo, ascoltato ancora da inedito (ricordo dove, ma proprio non saprei quando, potrebbe essere un po’ dopo il 2005…) per la prima volta mi imbattei nella citazione dell’orizzonte degli eventi in poesia. Si trattava, ovviamente, di Maurizio Cucchi che allora argomentò sul concetto e che incluse successivamente quei versi nella sezione di Vite pulviscolari (Mondadori, 2009) titolata proprio L’orizzonte degli eventi. Nel secondo dei frammenti della sequenza vi è il verso che dà origine al titolo:

L’orizzonte degli eventi, di Maurizio Cucchi [3]

*
Carissimo, mi dici che ti atterrisce
quasi fisicamente, che ti ripugna
l’idea dell’infinitamente piccolo.
Ma come darti torto? Eppure
è solo questione di scale, rapporti , microscopi:
solo questione di noi.

*
Sono già lì, sull’orlo del Maelström,
all’orizzonte degli eventi.
Potessi darmi un valore
che non fosse pulviscolare…

Di ben altra polarità, in un ipotetico asse tra parola letteraria e parola scientifica, è il testo che chiude la raccolta Camera su vuoto (Einaudi, 2022) di Bruno Galluccio[4], laureato in fisica e tra i più significativi artefici dell’osmosi tra scienza e poesia, dove i sintagmi «paradigma teorico» e «ipotesi» rinviano (sia pure in un simbolismo convenzionale e ormai inadeguato) agli algidi ambienti del ricercatore piuttosto che alla simbolica scrivania del poeta.

*
esistono forse scorciatoie per spostarsi nello spazio-tempo
un paradigma teorico suggerisce
che il buco nero sia l’inizio di un ponte che collega il continuo
del tessuto cosmico con un punto situato
lontano nel tempo e nello spazio
capace di sfociare istantaneamente
altrove come una galleria

in un’altra ipotesi il buco nero potrebbe sfociare
in un buco bianco iniziatore di universi

anche il desiderio è la scena
e il punto che si chiama fuori dal quadro

in quali modi hai pronunciato la sua ultima vertigine?

Voragine che tutto inghiotte, buio irredimibile, distorsione e arresto del tempo (“vittoria” sul tempo?) – demone tremendo e onnivoro per gli umani – sono concetti di smisurata potenza nel reale che inevitabilmente traslano con altrettanta forza nel simbolico e nel metaforico.
Così Gesualdo Bufalino ne colse il senso sublime e dannato: «”Buco nero”, che metafora  giusta per chi volle essere stella e non è più che un rimasuglio di luce, incapace di sortire e di propagarsi, sigillata per sempre a consumarsi di sé!»[5] e il filosofo ignoto Guido Ceronetti ne coniò una sua personalissima definizione: «versione astrofisica della visione gnostica del Regno delle Tenebre».[6]
Ma certamente il più celebre – e anche più precoce – utilizzo al tempo stesso scientifico e simbolico del nero corpo spaziale lo fa Primo Levi. Abbiamo già esaminato la sua poesia Le stelle nere in un precedente articolo[7]. Ricordiamo qui soltanto la precisione di alcuni versi:

«Le legioni celesti sono un groviglio di mostri,
[…] orribili soli morti,
Sedimenti densissimi d’atomi stritolati.
Da loro non emana che disperata gravezza,
Non energia, non messaggi, non particelle, non luce;
La luce stessa ricade, rotta dal proprio peso
[…]»[8]

ma è significativa una rilettura con la lente che lo stesso scrittore torinese mette a disposizione in uno degli ultimi articoli pubblicato su «La Stampa» il 22 gennaio 1987 e titolato “Buco nero di Auschwitz”. Laddove asserisce che Treblinka e Chelmno «non fornivano lavoro, non erano campi di concentramento, ma ‘buchi neri’ destinati a uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere ebrei».

Note

[1] In realtà l’immagine nasce per computer graphics dalla sincronizzazione e dall’incrocio dei dati di otto radiotelescopi, distanziati sul globo terrestre, e viene battezzata Põwehi, cioè “sorgente oscura di creazione senza fine”.

[2] Bruno Galluccio, Camera sul vuoto, Einaudi, 2022, p. 129

[3] Maurizio Cucchi, Vite pulviscolari, Mondadori, 2009, p. 37-38

[4] Bruno Galluccio, cit., p. 130

[5] Gesualdo Bufalino, Il malpensante, Bompiani, 1987

[6] Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo, Adelphi,1979

[7] L’esplorazione spaziale nella poesia italiana. Parte prima: la Terra vista dalla Luna, in Poesia del nostro tempo, 5/6/2023 – https://www.poesiadelnostrotempo.it/la-terra-vista-dalla-luna/

[8] da La ricerca delle radici, Einaudi, 1981, in Primo Levi, Opere complete I-II, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, 2016, II, p. 706

 

(Visited 250 times, 1 visits today)