Proposizione n. 3

Non esistono i generi letterari; le categorizzazioni di genere hanno senso solo scolasticamente e tassonomicamente, con funzione pedagogica; non hanno senso nella natura unitaria della forma, che può distinguere al massimo fra prosa e poesia.

Nell’introduzione al mio libro di critica Da che verso stai? Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo, in Italia, oggi (Marco Saya Edizioni 2017), in particolare nel capitolo intitolato Miseria della critica nel tempo della Rete, scrivevo: “Altra grave pecca del critico letterario ai tempi della Rete è ragionare ancora malamente per generi chiusi; va benissimo, nell’ambito scolastico e per interessi puramente didattici, spiegare la letteratura per generi letterari, anzi appare in tal caso molto utile, perché per suo tramite riusciamo a definire le caratteristiche principali che differenziano un genere rispetto agli altri permettendone l’identificazione e la fissazione cognitiva; però, se continuiamo a considerare la letteratura soltanto all’interno di generi ristretti, non accadrà mai niente di nuovo, non ci sarà mai alcunché  di scientificamente aperto alla scoperta e all’innovazione. Insomma, ci aggireremo sempre e solo all’interno di categorie ristrette, classificatorie, aristoteliche, assiomatiche nel senso scientifico del termine: in una parola, ci impastoieremo definitivamente, e senza possibilità di scampo, nella castrazione immobilistica del circolo vizioso in base al quale l’opera è bella perché la bellezza fa l’opera, regredendo spaventosamente in una sorta di manierismo critico; e si sa, coloro che pensano la letteratura in modo aristotelico non possono far altro che renderne conto come possono, ovvero creando, semplicisticamente e spesso inconsapevolmente, una tassonomia cristallizzata e morta” (pp. 41-42).

Da ciò discende il fatto che l’unica distinzione valida tra un testo di tipo letterario e un testo non letterario è quella tra poesia e prosa. Questo (si badi bene!) non significa che la prosa non sia letteratura, bensì che, moliérianamente, siamo nella prosa quando facciamo un uso banale del linguaggio, laddove, invece, la prosa letteraria rientra nel vasto novero del poeticum in quanto tale. E vi rientra per la peculiare proprietà di detenere, patentemente, un’intenzione e una natura artistica.

Questo significa anche, per inciso, che non possegga consistenza né estetica né critica la distinzione tra generi letterari all’interno del poetico, ovvero che non abbia ragione di esistere la differenza tra lirica, civile, epica et cetera se non nei termini di una dimensione d’uso scolastico, ancorché performativo. L’errore crociano di stampo idealistico, che voleva rintracciare il principio estetico dell’intuizione lirica a sprazzi all’interno dell’epos (ad esempio, del poema sacro dantesco) e che pertanto distingueva, nel corpus dello stesso testo-organismo, tra poesia e non poesia, è volgare e segna la distanza tra il valore indubbio dell’estetica crociana in senso teorico e la sua messa in atto nella disastrosa pratica critica del filosofo di Pescasseroli. Per converso, l’errore dell’estetica e della critica di stampo marxista, che voleva far prevalere il contenuto sulla forma e per questo privilegiava la poesia civile in quanto “di contenuto”, segna in sé il disastro della distinzione tra poesia e prosa nei termini sopra detti, e quindi scade grossolanamente nell’impoetico, laddove, ancora peggio, non decada nel non-poetico senz’ulteriore definizione.

Di fatto, la distinzione esemplare tra poesia lirica e poesia civile non consiste che nell’esposizione di una differenza meramente contenutistica: si usa dire, infatti, che la poesia lirica esprime il sentimento e lo stato d’animo dell’autore mentre la poesia civile abbraccia una visione che travalica la pura dimensione umana per spaziare verso il sociale, il politico, in una definizione possibile che potrebbe darsi e dirsi come storicizzazione dell’eventum. In realtà, com’è ormai chiaro ai lettori, è la forma che identifica la natura estetica del poetico; pertanto, per qualificare la distinzione tra prosa e poesia, non si va al di là delle scelte formali, che storicamente definiscono la poesia epica come narrazione in versi (e che quindi abbisogna di un versificare ampio e disteso di contro alla modalità lirica, più stringata e libera). E non si va oltre le scelte formali nemmeno per distinguere la prosa letteraria dalla prosa in quanto uso banale del linguaggio: la prima, infatti, dice in modo poetico ciò che in modo non-poetico la seconda comunica immediatamente, ovvero senza la mediazione della forma artistica del linguaggio. Un semplice “ti amerò per sempre” come prosastico (e prosaico) uso banale del linguaggio è ben diverso dallo shakespeariano

Amore non è amore
Se muta quando scopre un mutamento
O tende a svanire quando l’altro si allontana.

Eppure, il contenuto concettuale è pressoché lo stesso: cambia solo la forma in cui tale contenuto è espresso: ergo, la distinzione tra ciò che è poesia e ciò che non lo è non riguarda il contenuto, bensì la forma; e fondata sul poetico, pertanto, è anche la prosa letteraria, in quanto esprime in modo formalmente ricercato, cioè letterario, ovvero artistico, ciò che, altrimenti, non si direbbe che in modo banale.

Diamo qui di seguito tre ben noti esempi lampanti di accampamento indebito della distinzione tra lirica, civile ed epica, distinzione valida ai fini dello studio e dell’esercizio, ma che non detiene valore discriminatorio dal punto di vista veramente importante: quello estetico-filosofico e, quindi, critico. Nel passo iliaco, Omero tocca vette di meditazione assoluta facendo esprimere ad Achille quanto e come il dolore rappresenti il collante universale dell’umano. Pasolini, d’altro canto, affresca l’umanità del sottoproletariato urbano degli anni del Boom Economico per il tramite di un “lirismo civile” rigoroso e passionale insieme. Infine, per esemplificare in che senso la prosa letteraria soggiaccia anch’essa al principio estetico del poetico di contro all’uso banale del linguaggio, abbiamo scelto un estratto del grandissimo Carlo Emilio Gadda dalla Cognizione del dolore.

Buona lettura.

Omero, Iliade, libro XXIV, vv. 525-551, Giulio Einaudi Editore 1950, traduzione R. Calzecchi Onesti.

Gli dèi filarono questo per i mortali infelici:
vivere nell’amarezza: essi invece son senza pene.
Due vasi son piantati sulla soglia di Zeus,
dei doni che dà, dei cattivi uno e l’altro dei buoni.
A chi mescolando ne dia Zeus che getta le folgori,
incontra a volte un male e altre volte un bene;
ma a chi dà solo dei tristi, lo fa disprezzato,
e mala fame lo insegue per la terra divina,
va errando senza onore né dagli dèi né dagli uomini
Cosí a Peleo doni magnifici fecero i numi
fin dalla nascita; splendeva su tutti i mortali
per beata ricchezza; regnava sopra i Mirmídoni,
e benché fosse mortale gli fecero sposa una dea.
Ma col bene, anche un male gli diede il dio, ché non ebbe
nel suo palazzo stirpe di figli nati a regnare,
un figlio solo ha generato, che morrà presto: e io non posso
aver cura del vecchio perché lontano dalla mia patria
qui in Troia siedo, a te dando pene e ai tuoi figli.
E anche tu, vecchio – sappiamo – fosti felice prima:
quanto paese di sopra limita Lesbo, la sede di Macaro,
e di sotto la Frigia e lo sconfinato Ellesponto
su tutti, raccontano, o vecchio, per figli e ricchezze splendevi.
Da che questo male, invece, i figli del cielo ti diedero,
sempre battaglie vi sono intorno alla rocca e stragi d’uomini.
Sopporta, dunque, e non gemere senza posa nel cuore:
nulla otterrai piangendo il figlio, non lo farai
rivivere, potrai piuttosto patire altri mali”.

 *

Pier Paolo Pasolini, Vanno verso le Terme di Caracalla, da La religione del mio tempo (Garzanti 1961)

Vanno verso le Terme di Caracalla
giovani amici, a cavalcioni
di Rumi o Ducati, con maschile
pudore e maschile impudicizia,
nelle pieghe calde dei calzoni
nascondendo indifferenti, o scoprendo,
il segreto delle loro erezioni…
Con la testa ondulata, il giovanile
colore dei maglioni, essi fendono
la notte, in un carosello
sconclusionato, invadono la notte,
splendidi padroni della notte…

Va verso le Terme di Caracalla,
eretto il busto, come sulle natie
chine appenniniche, fra tratturi
che sanno di bestia secolare e pie
ceneri di berberi paesi – già impuro
sotto il gaglioffo basco impolverato,
e le mani in saccoccia – il pastore migrato
undicenne, e ora qui, malandrino e giulivo
nel romano riso, caldo ancora
di salvia rossa, di fico e d’ulivo…

Va verso le Terme di Caracalla,
il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
che il feroce Frascati ha ridotto
a una bestia cretina, a un beato,
con nello chassì i ferrivecchi
del suo corpo scassato, a pezzi,

rantolanti: i panni, un sacco,
che contiene una schiena un po’ gobba,
due cosce certo piene di croste,
i calzonacci che gli svolazzano sotto
le saccocce della giacca pese
di lordi cartocci. La faccia
ride: sotto le ganasce, gli ossi
masticano parole, scrocchiando:
parla da solo, poi si ferma,
e arrotola il vecchio mozzicone,
carcassa dove tutta la giovinezza,
resta, in fiore, come un focaraccio
dentro una còfana o un catino:
non muore chi non è mai nato.

Vanno verso le Terme di Caracalla

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*

Carlo Emilio Gadda, da La cognizione del dolore, (Einaudi 1963)

Camminava tra i vivi. Andava i cammini degli uomini. Il primo suo figlio […] in una lunga e immedicabile oscurazione di tutto l’essere, nella fatica della mente, e dei visceri dischiusi poi al disdoro lento dei parti, nello scherno dei negoziatori sagaci e dei mercanti, sotto la strizione dei doveri ch’essi impongono, così nobilmente solleciti delle comuni fortune, alla pena e alla miseria degli onesti. Ed era ora il figlio: il solo. Andava le strade arse lungo il fuggire degli olmi, dopo la polvere verso le sere ed i treni. Il suo figlio primo. […] Il suo figlio: Gonzalo. A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inorridiva al ricordo: via, via!, dall’inane funerale le nenie, i pianti turpi, le querimonie: ceri, per lui, non eran scemati d’altezza tra i piloni della nave fredda e le arche dei secoli-tenebra. Quando il canto d’abisso, tra i ceri, chiama i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell’eternità.

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