Proposizione n. 7

la prosa è ciò che facciamo quotidianamente col linguaggio. È l’uso banale del linguaggio.

Quella che compare nell’intestazione del presente articolo è un’affermazione banale in sé. Ma seppure appaia immediatamente banale dirlo, non è banale o, meglio, è non banale pensarlo. Infatti, l’attributo “banale”, in matematica, è un termine metalinguistico con cui ci si riferisce a particolari istanze di oggetti, strutture, soluzioni (come gruppi, spazi, metriche), che si presentano caratterizzate da una bassissima complessità. Laddove con morfismo si vuole indicare, a sua volta, un’astrazione generalizzata di un processo trasformativo che modifica una struttura astratta in un’altra, non foss’altro che in sé stessa, mantenendo alcune – ma non tutte – caratteristiche strutturali della prima. Possiamo affermare, quindi, che il morfismo che deriva dalla banalità risulta, come dire, trasformato dalla banalità stessa, tale che, considerato il linguaggio come un insieme assiomaticamente finito, la sua cardinalità (ovvero l’insieme degli elementi in esso contenuti) è a sua volta banale; mentre, considerato il linguaggio come un insieme euristicamente indefinito, la sua banalità non sta nella numerazione, bensì nella qualità della selezione elementale che se ne fa.

Detto in parole semplici, ovvero, banali: un bambino molto piccolo conosce al massimo quattro parole: cacca, pappa, pipì e nanna, e intorno a quelle quattro parole organizza e vive il suo mondo, che è, banalmente e ovviamente, molto piccolo: i limiti del suo linguaggio, wittgensteinianamente, sono i limiti del suo mondo. Un adulto detiene (o meglio: un adulto adeguatamente alfabetizzato dovrebbe tendenzialmente detenere) un vocabolario molto più vasto. Quanto a capacità espressiva, l’unica differenza col poeta e con lo scrittore è la proprietà di linguaggio, consistente nell’uso libero e consapevole dei registri linguistici, che assumono finalità artistica in poesia come nella prosa cosiddetta letteraria.

Eppure, esistono diverse forme di prosa letterariamente intesa. Treccani online, nel darci la definizione etimologica di prosa, (“pròṡa1 s. f. [dal lat. (oratio) prosa, propr. «discorso che procede per tutta la riga»; prosa è il femm. di prosus, forma arcaica per prorsus «che cammina diritto»]”), ne cita alcune, tutte fondamentalmente classicamente o tradizionalmente intese: “P. d’arte: nel linguaggio della critica letteraria, la p. tipica dei frammentisti, in voga in Italia negli anni precedenti e durante la Prima guerra mondiale. P. ritmica: la p. animata da una cadenza liberamente musicale. P. clausolata: la p. d’arte classica basata sul succedersi di sillabe brevi e lunghe e sull’uso delle clausole metriche. P. poetica (o p. lirica): la p. che arieggia i modi e i procedimenti tipici della poesia. Teatro di p.: il teatro basato sulla recitazione, anziché sulla musica e sul canto, contrapposto al teatro lirico o melodramma”.

Non si tratta, qui, di generi letterari (categorizzazioni che, in senso estetico, lasciano il tempo che trovano), bensì di differenti declinazioni dell’istanza comunicativa di qualsivoglia forma d’arte che utilizzi la parola in quanto tale.

Nell’ultracontemporaneità che ha ormai superato i confini definitorii treccaneschi di cui si diceva, si sperimenta e si ricerca continuamente una nuova modalità comunicativa del linguaggio, non foss’altro che la comunicazione dell’absentia e dell’ammanco di senso: pur sempre, se l’intenzionalità è letteraria, si tratta della ricerca di una forma di comunicazione. Se, ad esempio, il tentativo dei ricercatori della prosa in prosa è quello di oltrepassare la figuralità come istanza del letterario attraverso una forma altra, letterale, purtuttavia l’intenzionalità permane patentemente letteraria, e inquadra nel letterario il superamento stesso dei generi e della significatività del testo non soltanto per la conformazione – libro pur sempre adottata, ma per la dimensione sociologico-letteraria all’interno della quale si trasmette il metamessaggio.

C’è poi il caso (e non è quello di cui si diceva sopra) in cui cacca, pappa, pipì e pappa possono darsi come o letterali o come letterari, oppure (in estetica tertium semper datur) letterali e letterari insieme. Eppure, come non basta dirsi fuori dal letterario per starne fuori davvero, altrettanto non basta dirsi dentro il letterario per starci dentro sul serio. È la rivincita del banale, operazione che non scardina avanguardisticamente un granché, che, anzi, incastona perline colorate spacciandole talvolta per zirconi, talaltra per diamanti. Un tale atteggiamento serpeggia, ad esempio, tra i poser, i poeti sedicenti e gli scrittori da social. Costoro, per così dire, fanno prosa come uso banale del linguaggio pensando di fare poesia, e spesso non lo sanno, non se ne accorgono oppure; oppure, peggio ancora, posseggono una ferita narcisistica tanta e tale da sommergere l’autoconsapevolezza della propria indisposizione artistica.

Se andassimo a indagare fin dove si spinga l’uso banale del linguaggio, ne rimarremmo stupiti: la sua estensione ormai sistematica, anche in virtù dei mezzi immediati di comunicazione globale oggi esistenti, non è banale (in senso banale, non in senso matematico). Ma siccome la banalità e la non banalità di un testo posseggono sempre e comunque uno statuto estetico, ovvero possono essere distinti, in qualche modo e in qualche senso, in base all’intenzionalità artistica posta alla base dell’agire testuale, va da sé che a tale distinzione non corrisponde sempre e comunque un’immediata riconoscibilità valoriale (come avveniva, invece, nella classicità di qualsiasi secolo e tendenza). Questo perché la normatività è infranta ormai definitivamente, con tutto ciò che di liberatorio e positivo questo comporta, ma anche con tutti gli inconvenienti del caso. Tra i quali: la mancanza di strumenti immediati atti a discernere ciò che è banale in senso letterario e ciò che non lo è, essendo solamente banale in senso banale.

E questo è uno dei problemi più scottanti di qualsiasi forma ultracontemporanea d’arte che si dia facilmente alla produzione e alla fruizione, ovvero che risulti inquadrata nell’era della sua banalità tecnica.

Diamo qui di seguito tre esempi di prosa letteraria che sperimenta sul discrimine del linguaggio, in tre modalità molto diverse, ma fondamentalmente accomunate dalla necessità impellente di incontrare il banale e farlo proprio e oltrepassarlo, vuoi con l’illuminazione (Rimbaud), vuoi con la frammentazione (Bortolotti), vuoi con la reiterazione (Garrapa). Teniamoli fermi come capisaldi del tentativo di dominare la banalità intrinseca di qualsivoglia descrizione del mondo.

Prosa d’arte

Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno (Tascabili economici Newton 1995)

«Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino dove si schiudeva ogni cuore, ogni vino scorreva.
Una sera, feci sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E la trovai amara. – E l’ingiuriai.
Mi armai contro la giustizia.
Fuggii. Oh streghe, oh miseria, oh odio, a voi il mio tesoro fu affidato!
Riuscii a cancellare dal mio spirito ogni speranza umana. Su ogni gioia per strangolarla feci il balzo sordo della bestia feroce.
Invocai i carnefici per mordere morendo il calcio dei loro fu­cili. Invocai i cataclismi per soffocarmi con la sabbia, il sangue. La sciagura fu la mia dea. Mi stesi nel fango. Mi asciugai al ven­to del crimine. E giocai brutti tiri alla follia.
E la primavera mi portò il riso orrendo dell’idiota.
Ora, recentemente essendomi trovato sul punto di fare l’ulti­mo crac! ho pensato di ricercar la chiave dell’antico festino, per riprendere forse appetito.
La carità è questa chiave. – Tale ispirazione prova che ho so­gnato!
«Resterai iena, ecc … , » prorompe il demonio che mi incoro­nò di così graziosi papaveri. «Giungi alla morte con tutti i tuoi appetiti, e il tuo egoismo e i tuoi peccati capitali.»
Ah! Ne ho fin troppo: – Ma, caro Satana, ti scongiuro, uno sguardo meno irritato! e aspettando le ultime piccole vigliacche­rie, tu che ami nello scrittore l’assenza di facoltà descrittive o istruttive, per te stacco questi pochi orribili foglietti dal mio tac­cuino di dannato.

*

Prosa in prosa

Gherardo Bortolotti Le avventure di bgmole, da Prosa in prosa /(Tic Edizioni 2009)

bgmole gioca a carte. Suona il telefono. bgmole si sveglia. bgmole esce dalla farmacia. bgmole butta lo scontrino del supermercato nel cestino all’uscita. « Senza dubbio », dice bgmole. Di ritorno da una gita, bgmole aspetta in stazione. bgmole starnutisce, per l’allergia. bgmole ringrazia la compagna, che gli versa da bere. bgmole legge Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre. bgmole stira una t-shirt di Morrissey e pensa a un vecchio amico. Al terzo incrocio, bgmole svolta a sinistra. bgmole spreme un’arancia.

Baciando la compagna, bgmole le tiene le mani sui fianchi. bgmole richiude il cassetto. Inizia a piovere. bgmole apre l’ombrello. Mentre si lava le mani, bgmole guarda l’immagine riflessa nello specchio. bgmole allaccia la cintura di sicurezza. Fumando una sigaretta fuori da un cinema, bgmole conta i mozziconi sull’asfalto. bgmole si sente la febbre e il mal di gola. bgmole, in bicicletta, supera un’auto che svolta. A casa di amici, bgmole beve una bibita. Il suo ospite chiede: «Vuoi del ghiaccio?». Dal suo angolo, in ufficio, bgmole sente due colleghi che parlano davanti al distributore del caffè. bgmole indica un portone. Senza occhiali, bgmole cammina tra le forme confuse dei mobili.

bgmole si avvicina l’altra sedia con un piede. bgmole sente delle voci concitate, per strada. La luce del sole riempie la cucina. bgmole asciuga il piano del tavolo. bgmole aspetta fuori da una biblioteca. Fino alla fine della galleria, bgmole trattiene il fiato. Quando bgmole apre la dispensa, scopre che il the è finito. Sotto casa, bgmole apre il portone. bgmole va a votare. bgmole conta i biscotti rimasti. bgmole fissa la sveglia per il giorno dopo. bgmole si toglie la camicia e la mette in lavatrice. Sul cornicione di fronte passa un gatto. bgmole ne segue le mosse.

Prosa desiderante

Gianluca Garrapa, Le cose (inedito, pubblicato su Argo OnLine)

Le cose che trovi per strada sono anche le foglie che cadono dagli alberi, ma sai l’origine e certo sono cadute da un albero vicino. Le cose che si accumulano ai lati della strada, a meno che non sia neve, è spesso, ancora una volta, foglie, insieme di foglie, mucchi di foglie, con il fascino, almeno per me, di ricordare il passaggio del tempo, l’autunno, la morte. E io amo la morte e senza la morte non ci sarebbe vita. Però le foglie possono anche essere di un albero lontano, ma capita di rado, d’altra parte la foglia non cade mai molto lontano dal proprio albero. Ma le cose che trovi per strada sono anche le macchine, quelle ferme, quelle di passaggio, quelle parcheggiate. E queste cose non sono affascinanti. Le foglie sì, le macchine per nulla. Ma chi sta scrivendo ora, e chi sta scrivendo ora non sono di certo io, o non del tutto io, ma qualcuno o qualcosa che mi abita da molto tempo, e insomma chi sta scrivendo è affascinato, che sia maschile l’egli che mi abita non ci sono dubbi e anzi è l’unico dato incontrovertibile, per quanto io sia attratto dal neutro più che dal femminile o dal maschile, e insomma chi sta scrivendo ora è attratto da quelle cose che stanno per strada ma non si sa cosa ci facciano lì. Le foglie e le macchine, mettiamoci anche le ombre e le persone, le pozzanghere e gli arcobaleni di benzina, oppure le bottiglie di vetro rotte o anche ancora integre semipiene di liquido accanto alla campana del vetro, oppure resti di spazzatura poco distanti dal luogo del loro seppellimento e cioè nelle vicinanze dei cassonetti quando esistevano ancora, dei cestini portarifiuti con posacenere per arredo urbano, e cioè nelle adiacenze delle case, lungo le vie, per le strade di ogni città o paese. Queste cose le vediamo, sappiamo ricostruire la loro genealogia dell’abbandono, e la loro provenienza. Le cose che trovi per strada non sono molto misteriose, puoi intuire quasi subito la loro storia triste di abbandono.

Le cose che trovi fuori dalla città e dalle strade urbane, nel fango della campagna, nel sottopassaggio che sopra ci passa la superstrada che collega Empoli a Firenze, a esempio, le cose che trovi lì hanno origini misteriose. Di queste cose egli, cioè non io, ma chi sta scrivendo, di queste cose misteriose e lontane dai luoghi del loro seppellimento, egli vorrebbe scriverne, per scoprirne appunto le origini, la genealogia del loro abbandono. Ma non ora, un’altra volta forse.

 

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