Proposizione n. 5

La poetica differenziale è ciò che identifica e definisce il poeta cosiddetto outsider.

Definizione: Il poeta outsider possiede qualcosa da dire, e lo dice in un proprio stile. Egli è outsider perché non appartiene alla collettività poetica se non per scambio di opinioni e di visioni, e non fa gruppo. Il poeta outsider non è né un eremita né un misantropo, anzi vive nel mondo e per il mondo, solo ponendo in essere la propria personale visione delle cose, scambiandola continuamente con le visioni altre, in una osmosi entropica del linguaggio come sistema aperto che permette l’arricchimento attraverso continue determinazioni di senso aggiunto.

In questo senso, il poeta outsider, da un punto di vista sincronico, è colui che non si affatica a inseguire le poetiche diffuse e preesistenti e a farsi inquadrare in un filone, in una scuola, in una classe, anzi, le rifugge in quanto detentore di una poetica differenziale nel senso già esposto nelle precedenti puntate di questa rubrica. Da un punto di vista diacronico, infatti, l’outsider è colui che, dimenticato o semidimenticato ma non per questo dimenticabile, si aggira intorno a una definizione di letteratura che compete al campo della ricerca di una propria poetica personale, la quale lo fa risultare originale rispetto allo sfondo che, nel doppio campo imposto dai meccanismi perversi della sociologia della letteratura, emerge troppo spesso fino a farlo quasi scomparire. Questo meccanismo della sparizione prospettica dell’outsider induce l’esigenza, sempre più viva e necessaria, di una critica che sappia consentire il ristabilimento di un senso di giustizia estetica, nell’ordine di ciò che, fin dai tempi di Critica Impura, ho personalmente chiamato “l’emersione del sommerso”; attitudine un po’ alla Beppe Costa, per intenderci.

Il lettore, a questo punto, si chiederà: ma chi sono, più in generale, gli scrittori outsider? Chi può fregiarsi di questo appellativo?

La risposta non è univoca, ma su alcuni nomi siamo, più o meno, tutti d’accordo. Marta Barone, in un recente corso letterario online, ha dichiarato tali, tra gli altri, figure di narratori e di poeti come Marina Jarre, Alberto Savinio, Giorgio Manganelli, Tommaso Landolfi, Cristina Campo, Anna Maria Ortese e Goffredo Parise. Ovviamente, alcuni di essi sono da considerarsi più outsider rispetto ad altri quanto a notorietà presso il grande pubblico dei lettori, tuttavia si tratta di figure nient’affatto estranee agli studenti dei corsi di Storia della Letteratura Italiana Contemporanea. Ricordo che agli inizi degli anni Novanta, quando eravamo matricole universitarie, grazie a docenti come Walter Pedullà e Silvana Cirillo, approcciavamo con fervida passione scrittori come Manganelli, Landolfi, Pagliarani, D’Arrigo, Savinio, Delfini, Morselli, Gadda; genìa letteraria che in Italia non ha fatto (letteralmente) scuola, forse proprio in quanto incontrovertibilmente detentrice di una poetica differenziale talmente forte da emergere monoliticamente, senza bisogno di precursori o imitatori. Nonostante Raul Mordenti, già nel 2007, abbia dichiarato in suo segnante saggio omonimo pubblicato su Agalma La fine dell’outsider, è controevidente affermarne ancora la permanenza e la fondamentale funzione letteraria e sociale. Questo ci fa anche notare il salto concettuale insito in una possibile definizione differenziale tra “letteratura contemporanea” e “letteratura ultracontemporanea”: per la prima, il termine outsider identifica un autore relativamente noto ma fuori dalle scuole e dotato di una propria intrinseca poetica e originalità; per la seconda, outsider significa piuttosto “autore ignoto”, e di cui, quindi, nulla si sa riguardo la poetica o altro.

Vero è che il termine “outsider” possiede una polisemanticità afferente a campi differentissimi. Il dizionario di Google fornito da Oxford Languages, attestandone la derivazione da “outside”, lemma risalente al 1895, riporta, ad esempio, due accezioni per certi versi illuminanti, in base a cui “outsider” è: “1) Nel linguaggio sportivo, chiunque non sia considerato nella rosa dei probabili vincitori di una gara (estens., anche a proposito di una competizione politica, in una carriera, ecc.). 2) Nel linguaggio economico, appellativo dell’impresa che resta fuori di un consorzio o cartello costituito tra imprese affini”.

In effetti, in senso ultracontemporaneo, l’outsider è e rimane decisamente fuori gara: non può e non potrà mai vincere, essendo il suo destino quello di stagnare tra le fila di coloro che non salgono sul podio delle vendite librarie, della fama, della notorietà, delle conventicole, dei trust della poesia; certo, egli è pur noto alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, che si dannano spesso per ottenerne il degno riconoscimento come veri e propri paladini senza cappa e senza spada. La definizione di “scrittori irregolari”, in questo senso, riguarda anche la dimensione della poesia, già vessata da un’invendibilità commerciale che abitualmente la condanna (o la santifica, a seconda dei punti di vista) in nome di un permanente anonimato autoriale (della serie: «Carneade, chi era costui?») non solo presso il grande pubblico, bensì proprio presso il “pubblico” tout-court.

Eppure, il poeta outsider possiede una serie di invidiabili caratteristiche che ho cercato di spiegare a più riprese in vari articoli e, in via definitoria, nel mio libro Da che verso stai? (Marco Saya 2017), Tira magistralmente le somme a riguardo Enzo Campi, fervido autore della postfazione, poeta e critico outsider egli stesso, scrivendo: «Che il diverso, su cui qui si vagheggia, possa essere sovradeterminato in estraneo o straniero (quello che Caporossi definisce outsider) è cosa su cui bisognerebbe riflettere. Estraneo è colui che si differenzia dalle modalità precostituite della veicolazione letteraria, che resta sui margini, all’esterno del circolo (s’intenda qui sia un percorso, per così dire, tautologico e quindi votato alla ripetizione dell’uguale, sia il circolo inteso come gruppo, conventicola). Non si cura di rendersi riconoscibile e non si pone il problema della penetrazione all’interno di quel circolo, perché tale pratica lo porterebbe all’«appartenenza» a un sistema nel quale identificarsi o essere identificato, e quindi confuso e generalizzato. Straniero è colui che viene da fuori, da «un fuori», e che innesta un seme «personalizzato» all’interno del campo specifico in cui intende operare. Vorrei qui aggiungere che, per studiare al meglio una poetica differenziale, occorre fondatamente che outsider sia anche il critico» (p. 118).

In questo senso, nella stessa sede ho scritto che «Un critico outsider è impuro per definizione, per condizione esistenziale, per stato hegeliano delle cose», giacché egli si affida «al buon intendimento di chi, come direbbe Alberto Savinio, è un ipocrita in senso buono perché etimologicamente “osserva la realtà da dietro la maschera”, insomma al lettore – critico, a chi si picca nobilmente della capacità di disamina delle cose» (p. 19).

In tal modo, l’outsider, sia esso narratore, poeta o critico, assurge come detentore autorevole dello stigma fecondo e felice della diversità o, per meglio dirlo con un neologismo gravido, della differenzialità; e proprio in quanto tale, una volta individuato e scoperto, si distingue dalla massa condannata a un coatto e fantasmatico epigonismo. Santo, santo, santo sia il diverso/differenziale e chi lo (in)segue!

Si dia ora qualche elemento pratico. Ho scelto di proporre, qui di seguito, alcuni esempi di patente outsiderismo, sfacciato, gagliardo e benedicibile, sottotitolato personalmente da me. Vi si rintraccino, fin dalla prima lettura, le impressioni segniche di un’alterità più o meno perturbante. I tipi psicologici in cui gli outsider si manifestano al mondo, per passare dall’abuso di Freud a quello di Jung, sono diversi e molteplici: diamone qui alcuni per mezzo di definizioni che (per prevenire eventuali offesi) occorre prendere come boutade.

Buona lettura.

Ianus Pravo, o del po(rn)eta maledetto

inedito

Di limbo nella carne il sorriso
commisura e la forza e la forma,
deradica nel centro in frammenti
il metro fibrillare
cadente in un vuoto di voce.

Sorriso in unghie bianche
che stria fluidi rizomi di corpi,
vacilla nel ritorno
a bordo d’asse aprendo frazione.

Dalla forza a verme della forza
la linea che transita alla bocca
per il fuoco bianco per il rosso
sulla forza decomposta in linea.

*

Cristina Campo, o del perfezionismo solitario

da La tigre assenza (Adelphi 1991)

È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…

Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu, parola
che tramutavi il sangue in lacrime.

Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…

Torno sola

tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli

nella mia lieve tunica di fuoco.

*

Andrea Ponso, o del ritiro monacale

da I ferri del mestiere (Mondadori 2011)

Da anni e pietre cresce una polvere
dura che deposita gli intonaci
negli stomaci ciechi dei braccianti.
Le bisce si fanno grumo di calce
smossa sotto alle assi, grida rauche
di un percorso segnato tra i filari.
Viene la mano che cava i bulbi
dalla terra e li scuote dal torpore:
lavori consueti, moniti chiari.

*

Alberto Masala, o dell’impegno (in)civile

da Gaza (Heket Edizioni 2018)

Ecco, se mi adattassi a una poesia ragionevole,
se fossi previdente,
se provassi a portare una coscienza
che non comprende o non ricorda niente,
se potessi mentire
prudentemente armato di buonsenso,
rispondere a domande,
se potessi parlare, commentare
con opportuno distacco e leggerezza,
sostenere il discorso,
e un finale accettabile che ignora
quelle angosce oscurate…

*

Enzo Campi, o del Magister Ludi

da To touch or not to touch (La désistance) (Puntoacapo 2022)

to
touch or not         to
touch     che sia proprio questo il
problema?  e se non riesci a
toccarti, e se non riesci a
toccarmi, vorrei che tu fossi almeno
capace di fingere di ascoltare le
voci che trasudano dal libro delle
occasioni mancate: così, come che
sia o sarà, così, come lo è stato da
sempre, si trascina a stento, arranca e
balbetta, perde il contatto con
ciò che non era mai riuscito
toccare e genera il caso esemplare,
mai risolto, mai passato in
giudicato, mai trascritto negli
annali, per quanto la condanna sia
sottesa, fibrilla sotto il derma
svilito e oltraggiato che vorrebbe solo
dilatare quell’
attimo in cui decise di consegnarsi al
supplizio, e rientra
dalla distrazione, sì, anela la
distruzione, sì, favorisce la
distribuzione dei concetti abusati da
chi si crede edotto in materia di
crudeltà e si sottopone alla disseminazione,
abiura il sorgivo, cerca lo schermo,
ricalca la schermata, sì, forse è
proprio questo
il problema
o il problema,
non bisogna credere a
chi inneggia lo sfioramento, a
chi schiva qualsiasi cosa che non
presenti almeno
una crepa
o una crepa,
e adesso ascoltami, sì, tu che
ignori le lezioni di vita, tu che
dispensi colate d’
olio per far scivolare l’astante e
impedire il contatto, ascoltami:
il libro delle moltitudini inevase
arde nel primo fuoco, la
sferzata d’
aria disperde i lacerti
frammentando le parole, una
colata di cera ricopre i codici
celando alla memoria le voci di
chi un tempo conosceva il
gesto di condursi al di là, il
filone d’
oro si è esaurito da tempo
immemorabile, e adesso
smetti di ascoltarmi e guarda
dinanzi a te l’
azione che eccede il suo stato
inerte e si trasforma in un atto
la cui gravità rasenta l’
assoluto, guarda le catene che,
in un gesto di rivolta, liberano le
caviglie del testimone che, con un
gesto incauto e malsano, costruisce
una scatola all’
interno della prima stazione
depositandovi il suo giaciglio,
ecco, non abbiamo certezze da
spacciare come dogmi, la verità è
che non ci apparteniamo,
eppure una manciata di limo
con cui aspergere l’
anatomia primaria non può che
generare l’
affetto o l’
affezione, una stretta di
mano condita con un
abbraccio o una coltellata nell’
addome per saggiare la consistenza del
fiotto di sangue, une maille à l’
endroit et une maille à l’
envers, c’
est ça, fatevene una
ragione, facciamocene una
ragione, è solo una
questione di sapidità, disse,
ed ebbe perfino il coraggio di
ripeterlo ad ogni curva, ad
ogni giro intorno
alla torre
o alla torre,
tendendo la mano all’
impaurita babele, perdendo, per
strada, la lingua, sputando
fonemi impronunciabili ma
così accattivanti, così incattiviti
dalla durezza della nuova lingua,
quella acquisita
nel passaggio
o nel passaggio,
nel travaglio
o nel travaglio
da un livello all’
altro, da una guaina all’
altra, e non c’
è guaio o guado che possa
guastare l’
impalcatura che sorregge la
struttura, la macchina procede, disse,
tirare dritto per la propria strada è
sintomo di giustezza, basta aggirare il
profilo dell’
ombra che anticipa il passo, basta
sputare sulla saliva ancora fresca
rilasciata dal solito viandante, basta
schivare i ragni che si immolano
offrendosi come pasto al serpente,
è questo quello che si legge sul
libro delle lingue morte, di notte,
intorno al primo fuoco, aspettando che la
solita sferzata d’
aria imponga il suo credo spegnendo il
fuoco e silenziando le voci del
passato, bisogna che io lo dica, e
bisogna che tu ci creda:
una volta dato per certo il
linguaggio dell’
imbonitore, una volta decifrata la
crassa risata della schiera dei
buffoni di corte, una volta nascosto il
maltolto nell’
anfratto più oscuro della risibile
caverna, una volta destituite le
ombre dal loro presunto potere
salvifico, una volta esaurite
tutte le carte del mazzo, non ci
resterà che godere della nostra
stessa inutilità, reiterando ad aeternum il
canto della nostra voce devastata da
secoli d’inutili congetture,
la désistance: che impareggiabile emozione!

 

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