Immagine di Rahul Pandit

Intervento tenuto alla III ed. del Festival di poesia Paolo Prestigiacomo (2023) – San Mauro Castelverde

Il desiderio per lo scrittore e ancor più per il poeta, che non può sperare in un successo commerciale, si configura apparentemente come un desiderio di gloria letteraria. Spesso si scrive, fin dall’adolescenza, per compensare una frustrazione o disinnescarla prima ancora che ci investa. La poesia rischia di diventare un manto, una forma di cauterizzazione, che isola il desiderio e, mentre lo esaspera idealmente, lo assolutizza, lo separa dalla realtà.
Potrebbero in seguito giungere le prime gratificazioni a corroborare una simile dinamica, e tuttavia non tarderanno ad arrivare, se la vita adulta si manifesterà compiutamente e il processo di maturazione artistica non si arresterà, una serie di disillusioni, persino di sensi di colpa rispetto a quel primo, acerbo desiderio. La concupiscenza iniziale intuisce allora l’inganno su cui si fondava e una diversa forma di desiderio preme per emergere. L’ego subisce un processo di erosione interna. Spesso si manifesta anche uno strano, e a tratti persino inquietante, desiderio di scomparsa. È un momento pericoloso, per l’artista. Dante Alighieri riconosce la radice malata e dolente che, per superare questa crisi, il poeta deve fronteggiare: nel canto XI del Purgatorio stigmatizza il peccato di superbia e attraverso la figura di Oderisi da Gubbio rappresenta ogni artista che torce in peccato, che rende perversa, l’ambizione che pure muove l’arte verso la ricerca dell’eccellenza.
Ma che cos’è dunque, soprattutto oggi, la gloria letteraria? Quali forme illusorie di gloria rischiano di contaminare la scrittura, di intossicarla, di contraffarla irrimediabilmente? Che cosa sono l’eccellenza e la gloria, oggetto del desiderio del poeta? Desiderio, bisogno, frustrazione, felicità, vanità, gloria… Le parole si richiamano, i concetti formano costellazioni. Così nel mio discorso ricorrerò, direttamente o indirettamente, a questi termini nodali.

***

La felicità è un diritto?
Ci sono addirittura costituzioni che si avvicinano a sancire questo principio. Non la Costituzione Italiana, come ci ricorda in una poesia Franco Buffoni:

Alla Costituzione Italiana

Le costituzioni, recita il mio vecchio
Dictionary of Phrase and Fable,
Possono essere aristocratiche o dispotiche
Democratiche o miste.
Ecco, per te che non prometti
Di perseguire l’imperseguibile
– La felicità degli uomini –
Vorrei non pensare davvero a quel “mixed” Che
ricade sugli effetti salvando i presupposti:
Di te che prometti il perseguibile
Vorrei restasse il lampo negli occhi di Gobetti, Già
finito per altro in poesia.

Se la nostra Costituzione non s’illude di perseguire l’imperseguibile, la nostra società occidentale ci educa, ci forma, ci plagia secondo il presupposto implicito che sì, la felicità degli uomini è un diritto. Il sistema capitalistico si nutre di questa convinzione.
È nota la piramide dei bisogni di Abraham Maslow. Anche se i poeti e gli scrittori, da secoli, cercano di mostrare il malessere che ci viene sistematicamente camuffato e inoculato proprio grazie alla nostra ricerca di felicità, inconsapevolmente contraddittoria, noi abbiamo il privilegio di vivere in una società di relativo benessere. La base della piramide è sostanzialmente garantita. Il business si sta spostando quindi sui gradoni più alti. Già a metà della piramide, basterà pensare alla galassia dei social network per capire come la nostra vita sia stata innestata in una serie di congegni e ingranaggi che mistificano i concetti stessi di amicizia, affetto e intimità. Abbiamo tutti esperienza delle dinamiche tipiche di ogni “bolla” a cui ci consegniamo, non mi soffermerò su questo punto. Concentriamoci sui bisogni di stima e di autorealizzazione. È qui che intercettiamo il tema del desiderio di realizzazione in ambito letterario.

Nel prologo di un romanzo (Tutte le voci di questo aldilà), proponevo un elenco emblematico di poeti celebri, ma dal destino tragico. La lista era ampia e, credo, impressionante, tanto da suggerire l’idea che davvero la vicenda poetica comporti un costante commercio, se non esplicitamente con la follia, con zone pericolose, sensibili, punti di rottura della nostra psiche. E chiudevo quel prologo esplicitando il quesito:
“Resta da capire, comunque, perché ci siano così tante persone che ancora oggi si dannano l’anima pur di diventare poeti famosi, cioè squinternati-morti-di-fame. E sarebbero anche capaci di tutto, c’è da crederci, pur di raggiungere il loro scopo.
Mah”.

Perché tanti nutrono qualche forma di ambizione letteraria? Sottolineo che non ho domandato perché molti avvertono il desiderio di scrivere. Nessuno si sognerebbe di disincentivare la scrittura, la riflessione, la cura della propria interiorità. Anche la più brutta delle poesie è sacra, all’interno del cammino esistenziale di una persona, e quindi perfetta, non criticabile letterariamente. Il problema sorge quando tutti pensano, e a un certo punto pretendono, di essere riconosciuti socialmente come poeti. Mi concentro sulla poesia, perché su questo terreno, appunto, la questione è ancora più paradossale, dal momento che nell’ambito della narrativa pare ancora sensato ipotizzare di arricchirsi, diventare celebri, insomma ottenere successo. Sarebbe comunque un altro sintomatico inganno che la nostra società ci propina, mostrandoci solo quell’uno su mille che ce la fa e imponendocelo come modello, senza prepararci alla delusione dei 999 falliti, senza educarci a pensare, anche in caso di successo, a come abbiamo ridotto la nostra relazione rispetto a tutti gli altri. Ma in poesia, appunto, tutto risulta ancora più complicato. Sappiamo che i pretendenti poeti sono legione, gli spazi editoriali infimi, il sistema di selezione dei valori in campo completamente in tilt. Dunque, perché ci si affanna ancora alla ricerca della gloria poetica?
Verrebbe da pensare al residuo, destinato a sparire nel giro di altre due-tre generazioni al massimo, di un prestigio umanistico. A scuola studiamo e veneriamo Omero, Dante e… Franco Arminio, come vertici dello spirito e della cultura. (Franco Arminio è inserito solo come esempio del tipico vezzo di molte antologie letterarie che, non essendo in grado ancora di approntare un discorso sulla poesia contemporanea, ma dovendo dimostrare di essere à la page, inseriscono qualche autore dal mucchio, scelto non si sa bene come).
Personalmente, temo che il connubio tra educazione linguistico-letteraria e adolescenza, che si compie a scuola, tenderà a mantenere viva questa aura letteraria ancora per molto tempo. Del resto, già il numero delle nuove leve poetiche, guardando a ventenni di oggi, sorprende, considerando il contesto entro cui si sono formati gli Zoomer, quelli appunto della Generazione Z. E bisognerebbe notare come, da Baudelaire in poi, persino l’idea stessa di aura letteraria si sia pervicacemente incistata nelle nostre proiezioni mentali da trovare conferma anche nel suo opposto. Non ti pubblicano, non ti apprezzano, non ti capiscono? Questo è lo stigma della tua autenticità poetica, giacché i poeti sono maledetti.
Siamo tornati al quesito di partenza, dunque. Non ci sono gratificazioni materiali e tangibili significative, eppure l’ambizione letteraria è così potente da accettare qualsiasi frustrazione.
Deve avere a che fare con qualcosa di veramente profondo. O alto. In cima alla piramide di Maslow troviamo una conferma: creatività. Come uomini, ci realizziamo quando sentiamo di essere creativi, di partecipare coscientemente all’incessante creazione (uso il termine creazione con la minuscola, in un’accezione che si può accogliere anche in senso completamente laico: l’umanità, nel caos dell’universo, si orienta, si dà un senso).
Indubbiamente, ci sono molti modi per sentirsi creativi. Vivendo per esempio pienamente la dimensione genitoriale. Realizzandoci nel lavoro. Elaborando una nostra, più o meno esplicita e formalizzata, visione del mondo. Riconoscendo insomma, come si diceva, il nostro ruolo attivo nel mondo.
Tutte queste prospettive, sono in armonia con le altre parole in cima alla piramide: moralità, accettazione. Certo, l’accettazione della nostra limitatezza, della nostra quasi insignificanza, insomma della nostra mortalità, resta il vertice drammatico che mette alla prova qualsiasi forma di autorealizzazione. Ma se ci concentriamo sull’ambizione letteraria, in rapporto a questi termini, notiamo qualcosa di interessante.
La gloria letteraria lascia presupporre, non c’è bisogno di ricordare Orazio, una qualche forma di immortalità. Le mie parole, dopo di me, rimarranno, e il mio nome verrà ripetuto. Ciò non mi farà restare giovane o tornare in vita, come nella favola di Rodari C’era due volte il barone Lamberto, ma si avverte la promessa di una, seppur minima, forma di compensazione.
In rapporto al tema della moralità, invece, credo che tutti concorderanno nel riconoscere che la narrazione dominante, rispetto al mondo letterario, dipinge uno scenario tutt’altro che positivo. Amichettismo, snobismo, presunzione, dappocaggine, ruffianeria e chi più ne ha più ne metta: sono questi i termini dominanti. E, come ogni narrazione dominante, è sommaria quando non esplicitamente falsa.
Tuttavia, i conti non tornano ugualmente. Nutriamo un profondo desiderio di realizzazione letteraria, ma per raggiungere la cima della piramide dobbiamo quanto meno preventivare di non farci troppi scrupoli morali e di autoconvincerci che in questo modo il nostro nome ci sopravviverà. Ricordiamoci anche il problema dell’uno su mille…

Da qualche parte, c’è un errore, un equivoco.
Immaginiamo un percorso tipico, rispetto alla carriera di scrittore. Normalmente, il desiderio di scrivere emerge, o si radica, durante gli anni dell’adolescenza. In quest’età caotica e meravigliosa, ci può essere un fascio di motivazioni, personalizzabile secondo l’esperienza individuale di ciascuno. Abbozziamo un elenco: necessità di comprendere e mettere ordine alle proprie emozioni, definizione della propria identità, certificazione della propria unicità, desiderio di riconoscimento da parte di coetanei e di adulti ritenuti significativi, ricerca di qualche forma di eccellenza, scoperta del potere suggestivo dell’espressione artistica, volontà di trasmettere e legare il proprio vissuto intimo a quello altrui, persuasione emotiva specie in relazione all’innamoramento…
In fondo, queste motivazioni si sintetizzano proprio con le grandi questioni che esplodono durante l’adolescenza: “Io, al di là della mia famiglia e della tradizione a cui appartengo, chi sono? E qual è la mia vocazione, il mio senso nel mondo?”. Sono le domande che stanno alla base, non a caso, del progetto di vita che nelle età successive dovrà essere sottoposto a verifica.
Ho ragioni per pensare che già qui, nel regno dell’ambiguo, il desiderio del riconoscimento letterario dia credito a una pericolosa distorsione. Si comincia a scrivere per compensare una frustrazione o disinnescarla prima ancora che ci investa, e la poesia rischia di diventare un manto, una forma di cauterizzazione, che isola il desiderio e, mentre lo esaspera idealmente, lo assolutizza, lo separa dalla realtà. Anche come insegnante, oltre che come scrittore, guardo con molta preoccupazione ai concorsi poetici per le scuole, alla scoperta di talenti letterari da lanciare prima possibile sullo scenario contemporaneo: simili gratificazioni rischiano di fissare definitivamente l’immagine distorta della gloria letteraria. E quando, all’incirca alla fine degli studi universitari, mentre si cercherà la propria, spesso frustrante, collocazione lavorativa, anche i primi probabili insuccessi (rifiuto da parte di editori, giudizi critici negativi, premi in cui vedi passarti davanti scrittori palesemente inferiori, ecc.), sarà troppo tardi, e si ripiegherà per l’immagine del poeta maledetto, come dicevamo. Forse molti, oggi, insistono a proporsi come poeti perché non sono sufficientemente adulti da concepire sé stessi oltre al proprio ombelico, perché non sanno, come uomini, accettarsi e accettare i propri limiti, e infine la morte, e restano aggrappati, in mancanza di alternative (forse un recupero di miti e di religione abbasserebbe il tasso nazionale di poeticità diffusa), a un’idea concupiscente dell’arte.
Talvolta, le contraddizioni tra la vera natura della gloria letteraria (di cui proveremo a dire subito qualcosa) e questa sua pervicace e adolescenziale idea, alterata e quindi ingannevole, generano cortocircuiti, tensioni, frustrazioni. L’ego, corroborato dall’equivoco mai realmente svelato, subisce un processo di erosione interna – se l’arte, con le sue intrinseche qualità, avrà attaccato, innescato un processo di autodifesa, il corpo del poeta. E sarebbe qui interessante aprire una parentesi per analizzare le forme di auto-sabotaggio che certi artisti compiono su di sé: rinnegare certe opere magari apprezzate, soffocare la propria creatività, sottrarsi al confronto con il pubblico anche in caso di successo… E mi fermo alle soglie dei casi estremi elencati, come dicevo, nel prologo del mio romanzo, che potrebbero aver superato la soglia della patologia.
Non abbiamo qui il tempo per una sofisticata disquisizione sul vero senso dell’arte, perciò dovremo giungere subito alle conclusioni. Farà da garante un’autorità riconosciuta: Dante Alighieri. Vediamo di imparare da lui.
Nel canto XI del Purgatorio, si confronta con tre tipologie superbia, rappresentata da un personaggio: quella che nasce per “antico sangue” (Omberto Aldobrandeschi), quella che nasce dalla fama artistica (Oderisi da Gubbio) e quella che attecchisce nella potenza politica (Provenzano Salvani). A noi interessa ovviamente la seconda figura.
Ecco, per intero, il passaggio che ci interessa:

Ascoltando chinai in giù la faccia; e
un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li ’mpaccia,

e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.

“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?”.

“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte che
pennelleggia Franco Bolognese; l’onore
è tutto or suo, e mio in parte.

Ben non sare’ io stato sì cortese mentre
ch’io vissi, per lo gran disio de
l’eccellenza ove mio core intese.

Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse che,
possendo peccar, mi volsi a Dio.

Oh vana gloria de l’umane posse! com’
poco verde in su la cima dura, se non è
giunta da l’etati grosse!

Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì
che la fama di colui è scura.

Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato chi
l’uno e l’altro caccerà del nido.

Non è il mondan romore altro ch’un fiato di
vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, e
muta nome perché muta lato.

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi da
te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ’pappo’ e ’l ’dindi’,

pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia al
cerchio che più tardi in cielo è torto.

Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta; e
ora a pena in Siena sen pispiglia,

ond’era sire quando fu distrutta la
rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.

La vostra nominanza è color d’erba, che
viene e va, e quei la discolora per cui
ella esce de la terra acerba”.

E io a lui: “Tuo vero dir m’incora bona
umiltà, e gran tumor m’appiani; ma chi è
quei di cui tu parlavi ora?”.

Oderisi è un celebre miniatore. Dante probabilmente lo conobbe a Bologna, in ogni caso, qui ha i tratti di un conoscente caro, si direbbe propriamente di un amico (“e videmi e conobbemi e chiamava”: la simultaneità delle azioni non lascia dubbi). Ciò implica coinvolgimento maggiore anche nelle questioni trattate. Sappiamo che il viaggio oltremondano, per Dante, è anche un viaggio di trasformazione: lui stesso deve espiare le sue colpe, rendersi degno della meta. Non a caso, alla fine del brano, sottolinea: “Tuo vero dir m’incora / bona umiltà, e gran tumor m’appiani”.
Il discorso di Dante sembra piuttosto semplice: non è il caso di vantarsi della propria fama, che è destinata a consumarsi presto. Lo stesso Oderisi, appena dopo la morte (si suppone nel 1299), riconosce che ormai nella sua arte il primo posto spetta a Franco Bolognese. A causa della propria superbia, Oderisi non avrebbe mai ammesso questa superiorità in vita: “Ben non sare’ io stato sì cortese / mentre ch’io vissi, per lo gran disio / de l’eccellenza ove mio core intese”.
Primo insegnamento: cerchiamo di non essere superbi e invidiosi. Quando in vita ci imbattiamo in qualcosa di superiore alle nostre opere, o in generale a qualcosa di bello, ammettiamolo. Diamo spazio e cura alla bellezza altrui, a vantaggio di tutti, anche di noi stessi. Non è solo un dovere morale, ma è l’unico modo per stabilire, tra le nostre opere e la contemporaneità un processo virtuoso di competizione che spinge all’eccellenza. Se ci consola immaginarci in un’epoca mediocre, in modo che basti poco per svettare, val la pena ricordarci che, appena terminati i maneggi in vita per dar credito a questa visione della realtà, saremo immediatamente ridimensionati.
Dunque, Oderisi è stato superato da Bolognese, come Cimabue da Giotto. Per quel che riguarda la poesia, Dante, per bocca dell’amico, mette in gioco sé stesso: “Così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato /chi l’uno e l’altro caccerà del nido”. Come Cavalcanti ha superato Guinizzelli, così è nato chi ha già superato entrambi. Dante riconosce la sua stessa superiorità. Eppure siamo in un canto che ricorda il peccato di superbia!
Secondo insegnamento. Non confondiamo l’umiltà con la sottovalutazione di sé, che tra l’altro spesso è solo una compiaciuta strategia. Apprezzare le opere altrui, non significa cedere al buonismo, che peraltro è sempre remunerativo in termini sociali, almeno a breve termine. Occorre riconoscere e difendere il valore della propria opera, con equilibrio, con oggettività (diciamo: con giusti argomenti e disponibilità di confronto con le visioni poetiche diverse dalla propria). Dante non era certamente uno che si sottovalutava: se in questo canto ricorda la “vana gloria de l’umane posse”, in tutta la sua opera ha disseminato le tracce della alta (e, possiamo ammetterlo, giusta) considerazione di sé stesso.
Proseguiamo. “Che voce avrai tu più”, si chiede, se invece che alla lunghezza di una vita umana, misuriamo la nostra gloria con i millenni? In un’epoca egocentrata come la nostra, qui l’insegnamento è particolarmente duro da apprendere. Non siamo capaci nemmeno più di interessarci al disastro globale (pensiamo ai problemi ambientali) che consegneremo direttamente ai nostri figli, figuriamoci se siamo pronti ad allungare lo sguardo di diversi secoli rispetto a noi. In termini letterari, sarà anche storicamente esatto per varie ragioni, ma sicuramente fa comodo tagliare i ponti con il passato, per i motivi che abbiamo già detto. Proust ci sembra illeggibile, e spesso, anche da persone colte, viene riconosciuto tale. La lirica è finita, la poesia in generale, anzi, è morta.
Confrontiamo pure con questi scenari, cerchiamo di ragionare senza posizionamenti preventivi intorno a simili visioni, ma non perdiamo il terzo insegnamento: dobbiamo collocare la nostra opera all’interno di una vasta tradizione, per valutarne appieno la rilevanza. Il confronto, insomma, è sempre e ancora con i classici. Quando tra noi e loro si dovranno pur inserire dei filtri, questi non diventino alibi o trucchi per evitare il confronto stesso.
Proviamo a sintetizzare questi principi e rispondere al quesito intorno alla vera natura della gloria letteraria. Sotto al monito Sic transit gloria mundi, che deve restare ben visibile ai nostri occhi, dobbiamo compiere un esercizio di distacco tra noi e le nostre opere. Lo aveva spiegato bene Croce, in un commento a questo canto, distinguendo tra gloria duratura e rinomanza: la prima è “nell’opera, nel suo effetto e nella sue efficacia, che seguita a operare, suoni o no il nome che da prima vi andò unito”. Non dobbiamo attribuire all’arte il fantomatico potere di salvarci la vita. I conti con la morte riguardano la nostra povera (e meravigliosa) natura umana. Non chiediamo all’arte un risarcimento esistenziale della nostra condizione mortale. Eppure, si dirà, da Gilgamesh al poeta che acquisterà fama domani pomeriggio, la letteratura non fa proprio questo? Le citazioni, in tal senso, si sprecherebbero. Se Orazio è scolasticamente fin troppo alla portata di mano, ricordiamo Szymborska e la sua Gioia di scrivere che identifica, nell’atto appunto della scrittura, la vendetta di una mano mortale. Qui occorre essere precisi: per l’artista, l’esercizio della propria arte è inevitabilmente coniugato con la sua vicenda esistenziale (che sia, questo fatto, liricamente evidente o che sia potentemente proiettato su ciò che è apparentemente “altro” rispetto al vissuto). Scrivere dunque significa evolvere. Attraverso la scrittura l’artista evolve. Ma questo accade veramente se l’arte lo trascina altrove, se durante il processo creativo si innesca una dinamica di superamento delle condizioni di partenza: se il vissuto viene insomma trasceso. L’artista che cerca il compiacimento delle proprie abilità nell’opera, troverà pure consenso intorno a lui, ma avrà impresso nella sua creazione il marchio della maniera, che è qualcosa di simile alla data di scadenza apposta ai prodotti commestibili. Ciò vale per tutto ciò che ci permette di “vincere facile”, di eludere il confronto con i classici, di essere insomma alla moda, di trattare adeguatamente i temi assegnati dalla nostra epoca, come se si trattasse di eseguire diligentemente i compiti assegnati a scuola. Sia chiaro, da insegnante, qualche compito mi tocca darlo e mi aspetto che venga eseguito, ma i veri compiti significativi sono quelli che, alla fine, ci assegniamo da soli.
Dunque, la gloria letteraria non abita nel corpo dell’artista. Non si identifica con il suo nome. Talvolta, l’artista ama anzi l’arte della scomparsa e desidera la solitudine, come abbiamo accennato. La gloria letteraria è la gloria dell’opera. Parlando di poesia potremmo dire meglio: la gloria della lingua, che è mutevole, che si aggiorna secondo i paradigmi di ogni epoca, ma che non dimentica il millenario percorso che l’ha costruita.
Guardando la propria opera, più della vanità con cui ci si compiace, dovrebbe scattare lo stupore e l’incredulità: “Ma veramente questa cosa viene da me?”. In quell’istante, abbiamo la percezione di aver preso parte, e di aver certamente dato il nostro contributo, al perpetuarsi di un meccanismo più grande di noi, che ha lasciato emergere potenzialità insite nella lingua, nelle forme, nella tensione trasformativa e per ciò davvero creativa che la tradizione imprime alle nostre spalle, o mette sotto i nostri piedi, se si preferisce questa immagine. Solo accettando le potenti correnti della tradizione, potremo surfare come ci piace, o viaggiare di bolina, andando non esattamente dove credevamo. “La tradizione”, ricordava Gustav Mahler, “non è venerazione delle ceneri, ma la salvaguardia del fuoco”. Contando solo sulle nostre forze e sulle strategie di successo da mettere in atto in vita, non ci sposteremo poi molto dalla spiaggia da cui siamo partiti.
Nella vita, molte persone hanno l’aura di intelligenti, di santoni, di maestri. Questo biglietto da visita spesso viene accolto senza alcuna verifica. Finché qualcuno non si accorge che il re è nudo. Non conta il nome, non conta il curricolo, non conta la casa editrice che ti pubblica. Contano le opere. Nella vita, diremmo, importano i gesti, i fatti concreti. Ma la poesia non è, anche etimologicamente, questo? L’opera è un manufatto. Un possibile dono. Non è un’istantanea della nostra vita, ma qualcosa di più: il fossile, il calco della nostra coscienza individuale e di specie.
Eravamo partiti da una domanda: la felicità è un diritto? Ora vale la pena chiederci: realizzare i propri desideri, conduce alla felicità? Nello specifico del nostro discorso: ottenere la gloria letteraria, ci renderà felici?
Un proverbio orientale ricorda che ci sono due vie verso l’infelicità: non realizzare i propri sogni, realizzare i propri sogni.
Abbiamo l’ambizione di rivendicare la proprietà di chissà quali capolavori, in verità siamo a noi a consegnarci e appartenere alle nostre opere.

Continuiamo a desiderare. Sentirci appagati, è un lusso che non possiamo permetterci. Continuiamo ad abitare il desiderio. Questo è il mio augurio per tutti noi.

 

Andrea Temporelli. Docente nella scuola secondaria, è poeta e saggista. Ha pubblicato anche il romanzo Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi 2015). Ha esordito in poesia con Il cielo di Marte (Einaudi, 2005); recentemente ha pubblicato L’amore e tutto il resto. Poesie 1996-2022 (Interlinea, 2023).

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