Immagine di Rahul Pandit

 

Intervento tenuto per la II ed. (2022) del Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo – San Mauro Castelverde nell’ambito del convegno: La poesia e la sconfitta. Ripensare i margini

 

Ogni tanto uso una lingua mia
la invento impastandola al passato
la riconsegno solo in traduzione
Antonella Anedda

 

La scrittura poetica contemporanea nelle parlate locali, nei dialetti e nelle cosiddette lingue minoritarie, sembra essere segnata, assai più di quella che fiorisce in lingua italiana, da un destino di sconfitta e marginalità, apparendo, forse più di ogni altra forma espressiva, inattuale, inessenziale: se, come è sotto gli occhi di tutti, la Poesia tout court abita inascoltata un margine, esiliata come ozioso deraglio dalla logica dell’utile, quale considerazione potrà mai aversi per una lirica che trovi voce tra quelle lingue non ufficialmente riconosciute, tarate da molti e diversi pregiudizi (uno tra tutti, quello di non essere lingua di poesia ma della realtà), quale posizione le si potrà riservare, se non nell’estremità più distale, appena visibile, nella periferia ulteriore di quel margine?
Malgrado la poesia dialettale costituisca una presenza piuttosto consistente nella produzione letteraria italiana, il dialetto viene percepito come una sorta di corpo estraneo, straniero in casa propria, (Zuccato, 2022), senza diritto di cittadinanza: un patrimonio latamente culturale, non solo linguistico, poco attraente e da cui prendere distanza. Esula dallo scopo e soprattutto dalla misura di queste brevi note introduttive entrare nel merito delle ragioni storiche di un tale atteggiamento che, a grandi linee, si può ricondurre al sogno romantico-risorgimentale di fare l’Italia «una di lingua» e di diffondere, attraverso quest’ultima, un mezzo di elevazione culturale.
Oggi, osteggiati dai loro stessi parlanti, e incalzati anche dalla cosiddetta lingua globale, i dialetti e le parlate locali sopravvivono esclusivamente nell’oralità dei ceti popolari e nella scrittura estetica, a sua volta oggetto polimorfo, tutt’altro che monolitico. La loro estinzione, sovente e variamente annunciata, anche se puntualmente rimandata, appare ai più un futuro ineludibile contro la cui spietatezza solo lotta il poeta, il quale appare consapevole, da una parte, del proprio compito, del «dovere dei vivi»(Aglieco, 2013) di custodia di tutte le cose, e della lingua matria in particolare, impasto di sangue e parola, “pane dei morti/ ancora caldo per promessa” (ibidem), così come è conscio, dall’altra, della potenzialità del proprio strumento, «lingua non bassa ma profonda», come chiosava Meneghello, e dell’incandescenza creativa del proprio particolarissimo bilinguismo.
Nel perimetro che, dunque, si fa ampio a partire da questa poliedrica consapevolezza, a mio avviso diviene possibile attribuire una diversa accezione all’idea di estraneità più sopra richiamata e, piuttosto che mera scaturigine di un gesto esiliante che può essere solo subìto, guardare al dialetto come a un’opzione lucidamente praticata, «scelta», come si legge, per esempio, nella Prefazione di Consolo a Cutusìu di Nino De Vita, di una «lingua altra, come lingua alta, e dovuta al saccheggio e alla consunzione dell’italiano»; una lingua scelta come si sceglie la strada di un ritorno mai interamente compiuto e concluso (né che può concludersi) o ancora, se si vuole, come spazio abitabile liberamente eletto e percorso: ma non, nostalgicamente, lungo il periplo invisibile di un margine, quanto, piuttosto, nella obliquità fertile di un limine, di un posizionamento che è – e vuole essere – insieme resistenza e innesco di squilibri, una extraterritorialità che possiamo leggere con categorie interpretative diverse – non luogo, eterotopia, terzo spazio, terzo mondo – e che tuttavia è sempre generativa di temi, forme, significati nuovi, di nuovi centri mai definitivi, mobili, soprattutto estranei alla logica della contrapposizione, e inimmaginabili a partire dalle premesse.
A proposito di ritorno, Gadamer sosteneva che la poesia è sempre ritorno, un ritorno alla lingua. Lo affermava, in particolare, a proposito della scrittura di Hilde Domin, un’autrice forse ancora troppo poco nota in Italia e che invece ha davvero molto da insegnare in fatto di esilio, plurilinguismo e posizionamento al margine. Come altri poeti che hanno conosciuto l’esilio, la questione della lingua in Domin è centrale e assume valenza politica: nel suo caso il tedesco, lingua dell’oppressore, lingua del trauma, diviene lingua di poesia dopo una «odissea linguistica» che, come è facile intuire, non è soltanto corollario di un concreto spostarsi per il mondo in cerca di un luogo in cui vivere ma peregrinazione psicologica, poetica e poetologica, nel profondo delle proprie matrici identitarie in cerca di un territorio, di un mondo abitabile che la poetessa di cultura ebraica, così come altri autori che hanno vissuto le stesse, terribili esperienze, rinviene innanzitutto nella lingua e nella poesia. La lingua della poesia diviene per lei la più impensabile – dunque il tedesco – e l’autotraduzione nel suo “nuovo” first language – lo spagnolo, attraverso il quale appurare se “una poesia si regge in piedi” – capovolgendo il senso dell’esilio, trascinando il ritorno su un piano poetico e anticipandolo sul terreno linguistico, diviene rivoluzionaria «ricreazione di sé».
Analogamente, a mio modo di vedere, la scelta del dialetto in poesia, oggi, è consapevolezza di un bilinguismo assai fecondo, possiede un valore politico, e l’atto del tradurre se stessi, come procedimento traduttivo dotato di una propria specificità (e che per inciso inizia ad avere una sua tradizione di studi cui poter attingere riflessioni utilissime anche per quella particolare forma di bilinguismo che è il dialetto), configura un vero e proprio “atto di creatività seconda” (Paola Del Zoppo), una nuova poiesi di sé e del mondo. È da questo punto di vista che la poesia dialettale appare come laboratorio di libertà, ricerca e officina di strumenti di accesso al reale e a una sua più decentrata nominazione; e l’autotraduzione, aprendo spazi di ermeneutica continua, offre potenti e illuminanti sguardi sulla lingua d’uso e sull’uso della lingua, realizzando un circolare riattraversamento critico delle proprie istanze e delle parole davvero capaci di dirle, trasformando uno spazio residuale (scorci, bucce) in un varco di visibilità.
Possibile, allora, oltre che suggestivo, grazie anche all’esempio di Hilde Domin, ridefinire deleuzianamente, quell’essere estranei in casa propria, come un essere straniero nella propria lingua (Deleuze, 2010): e, situandosi sul suo limite, riuscire in quell’impresa utopica, inimmaginabile, che è il vedere il fuori del linguaggio, scoprendo scorci di libertà dai quali cogliere «in trasparenza ciò che l’italiano non ha saputo essere», come per esempio afferma Anedda a proposito della poesia di Franco Scataglini o, richiamando quanto scrive Contini sulle poesie in friulano di Pasolini, «per il gusto di operare, con temi anche modernissimi, in una materia verbale che come tale sia inedita».
Collocandosi di fatto al di fuori delle tradizioni dialettali, non ponendosi affatto come “continuatori”, coloro che oggi scrivono in dialetto non intendono esprimere una cultura legata a quel particolare strumento espressivo ma muovono dall’esigenza, analoga a quella dei poeti in lingua, di ricerca di un linguaggio che sfugga alla banalità, di una parola pura, del tutto diversa da quella svilita dall’uso quotidiano. Pasolini, per esempio, affermava che «scrivere in dialetto risponde a un bisogno profondo di diversità e che per il poeta dialettale che avverta nel suo dialetto una dignità inattesa, quasi una immeritata grazia, si tratta di pensare in un solo momento il dialetto come lingua-poesia». A supporto di queste brevi riflessioni, e rilanciandone il senso come premessa a uno studio necessariamente più ampio, trasversale alle diverse poetiche dei diversi poeti dialettali contemporanei, basterà qui segnalare come una ricognizione anche sommaria dei loro testi rivela come le questioni inerenti la ricerca e l’opzione linguistica, la marginalità, l’extraterritorialità, entrino sempre non soltanto nella testualità, attraverso una significativa occorrenza di immagini, ma siano, a mio avviso, chiaramente rinvenibili nella ibridazione tra i temi della contemporaneità e l’utilizzo di una lingua arcaica avvertita come “pura”, “autentica”, persino, talora, non più intaccata dall’uso (penso, per esempio, a quei poeti che recuperano parlate e dialetti già scomparsi), «usando il proprio dialetto» cito ancora Pasolini «come una traduzione ideale dell’italiano» o, come ci rivela Anedda, inventando una lingua – una lingua-poesia – che viene offerta soltanto in traduzione.
Da questoterzo mondo poetico, non dentro e non fuori, dallo spazio generativo dell’autotraduzione, si riesce a far vacillare l’italiano, a scuoterlo, liberando significato, creando una lingua poetica autenticamente propria, a un tempo interna, contro e nonostante (ancora Domin!) la lingua ricevuta, omologante e offerta come unica praticabile? I poeti che scelgono il dialetto sembrano non nutrire dubbi.

 

Bibliografia minima

Chiesa M., Tesio G., Il dialetto da lingua della realtà a lingua della poesia, Paravia 1978
Ciurnelli O., Lingue allo specchio, ali&no Editrice, 2019
Del Zoppo P., Un dialogo alla fine del mondo, Del Vecchio, 2022
Fortini F., Lezioni sulla traduzione, Quodlibet, 2011
Siani C., a cura di, L’arte della traduzione poetica, Cofine, 2014
Zuccato E., Trasferimenti in loco, Mucchi Editore, 2022

Patrizia Sardisco è nata a Monreale. Laureata in Psicologia, insegna in un liceo palermitano. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano. Ha pubblicato le sillogi in dialetto Crivu, Plumelia 2016, vincitrice del 42° Premio Internazionale Città di Marineo; Sìmina ri mmernu, Cofine 2021, vincitrice del 18° Premio Ischitella; nuàra, terza classificata al Premio Pietro Carrera 2021. In lingua italiana ha dato alle stampe le sillogi “eu-nuca”, Cofine 2018; Autism Spectrum, opera vincitrice della 4°edizione del Premio “Arcipelago Itaca”; Lo spettro del visibile, Cofine 2021.

 

 

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