Poetica more geometrico demonstrata

Scolio: Detto banalmente, qualsiasi argomento dopo Heidegger è satollo e non c’è veramente più niente di nuovo da dire. Se il punto fosse trovare nuovi argomenti alla poesia, dovremmo gettare semplicemente la spugna e non scrivere più. Allora, ciò che importa è come le parole vengano fatte aderire stilisticamente anche alle cose vecchie e tumefatte del mondo, senza censure preventive e senza manicheismi di sorta.

In questo senso, già Alfredo Giuliani, nell’Introduzione ai Novissimi, scriveva: “Io credo si debba interpretare la ‘novità’ anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei ‘contenuti’. Ciò che molta poesia di questi anni ha finito col proporci non è altro che una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella ‘realtà matrigna’ cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo”.

Ecco: un grosso malinteso odierno, tuttora ineliminato nonostante la denuncia di Giuliani, mi sembra essere questa presunta necessità di considerare la novità in poesia dal punto di vista contenutistico, determinarla in base e in nome di un inquadramento distruttivo-detrattivo del contenuto (che, in quanto tale, è in realtà il puro riempimento di senso del versificare e, in quanto tale, assolutamente indifferente, quale-che-sia); questione che, come dice Giuliani, se posta al centro del discorso poetico, non dà luogo ad altro che ad una vetusta “meccanica dei contenuti”, magari pure impegnati, politicizzati, sociologizzati, ricolmi di buone intenzioni e di rosee speranze per il futuro, in nome di un’esaustiva e nobile descrizione (che pur rimane tale) del feticcio-realtà. Di carducciani puri oggigiorno, dio ce ne scampi, non sembrano essercene: tuttavia, permane diffuso questo misunderstanding del verso impegnato che, inevitabilmente, come già veniva rilevato sul piano filosofico-estetico dagli anni Sessanta dello scorso secolo, crea facili contrapposizioni tra categorie inerti e stantie: non più gli apocalittici e gli integrati, bensì i civili e gli intrattenitori, dicotomia in cui i civili si ergerebbero a paladini dell’humanitas ultracontemporanea, di contro agli oziosi che si dedicherebbero vieppiù all’io lirico e al riporto puntuale di una dimensione privata (nel senso di non-pubblica, come se esistesse, nei fatti d’arte, qualcosa che possa essere detto tale) che si delinea come universalmente comunicabile, ma che in realtà è già stata ampiamente enucleata e tràdita nel giurassico. Questo, l’esito visibile generato dall’azione sotterranea, proseguita imperitura, dell’impostazione della critica e dell’estetica marxista che propende più per il contenuto (nobilmente e generosamente attuale) piuttosto che per la forma; come se la forma, elemento assolutamente travisato da costoro perché inteso come mera tecnica, non fosse che un vezzo, una velleità barocca da considerare come un puro abbellimento retorico: vuoi mettere i testi di Guccini su certi arrangiamenti della sua produzione autoriale, assolutamente manchevoli sul piano del mero concetto musicale? Eh, ma tanto è il testo, ovvero il contenuto, ciò che importa, risponderebbero alcuni, ignorando l’ovvia obiezione del fatto che, se sono i testi davvero ciò che solo deve interessare sul piano artistico, allora si scrivessero libri di poesia, invece di pubblicare dischi. Ma tant’è.

Se dunque, con buona ragione, il contenuto è indifferente alla poesia, nel senso che aggiunge il medesimo valore che, in un prodotto artistico musicale, ha il testo (che in una canzone non è poco, ma non è nemmeno tutto, anzi!), è chiaro che, parimenti, nemmeno l’utilizzo di formalismi deteriori e stantii, “neocrepuscolari” a dirla con Giuliani (di quelli che ancora si vedono oggi), fa l’oggetto d’arte. Per dire il nuovo, insomma, non occorrono nuovi contenuti, bensì nuove forme.

La poesia di ricerca attuale, che si muove tra videopoesia, googleism, AI-poetry, asemic writing, eavesdropping, found-poems composti da vari materiali assemblati insieme, insta-poetry e instant-poetry, spam-poetry e mail-art testuale, nuovi oggettivismi, post-poesia e “scritture fredde” (Cortellessa) di vario tipo, lavora su un piano eminentemente formale, salvandosi dal novero di coloro che ritengono, erroneamente, che debbano essere rinnovati i contenuti piuttosto che le forme e di coloro che ignorano il fatto incontestabile che il contenuto, a fronte di un rinnovamento formale che sia davvero tale, viene da sé in una sorta di adeguatio rei et intellectus. In taluni di questi casi, il contenuto viene a mancare ma solo apparentemente; nel senso che: come dire il nulla non è dire nulla, allo stesso modo tentare di scavalcare la soglia dell’indicibile non è non dire il dicibile e rimanere paghi in formalismi vuoti. Ma per comprendere appieno tale differenza, c’è bisogno di educazione estetica. E molta.

Quando Nanni Balestrini elaborò l’algoritmo che, con la collaborazione dell’ingegnere Alberto Nobis, venne poi trasformato in 1200 istruzioni di codice destinate a essere eseguite dal computer IBM 7070 del centro di elaborazione dati della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde nella sede della quale, nel dicembre del 1961, in Via Verdi a Milano, l’esperimento ebbe luogo, il risultato furono decine di metri di stampato contenenti la mescolanza random di parti testuali tratte da tre opere (Diario di Hiroshima, di Michihito Hachiya; Il mistero dell’ascensore, di Paul Godwin; Tao Te Ching, di Lao Tse) da cui poi il non-autore estrapolò le seguenti sei strofe, che ritenne particolarmente significative. Se la forma vince, svanisce anche l’autorialità? No, perché l’autore si autodetermina in quanto tale. Ad ogni modo, una cosa è certa: il contenuto può essere qualsiasi cosa. L’importante è che sia “trenta volte più luminoso del Sole”. O che ne assuma la forma. Più che radiosa, direi radiale, in senso entropico.

Nanni Balestrini, TAPE MARK I

da Almanacco Letterario Bompiani (Bompiani 1962)

La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.

I capelli tra le labbra, esse tornano tutte
alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco
io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita
lentamente, e malgrado che le cose fioriscano
assume la ben nota forma di fungo, cercando
di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.

Nell’accecante globo di fuoco io contemplo
il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine
delle cose accade, la testa premuta
sulla spalla: trenta volte più luminose del sole
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.

Giacquero immobili senza parlare, trenta volte
più luminosi del sole essi tornano tutti
alla loro radice, la testa premuta sulla spalla
assumono la ben nota forma di fungo cercando
di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano
si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.

Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante
globo di fuoco, esse tornano tutte
alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse
le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera
e giacque immobile senza parlare, trenta volte
più luminoso del sole, cercando di afferrare.

Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita
lentamente nell’accecante globo di fuoco:
esse tornano tutte alla loro radice, i capelli
tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole
giacquero immobili senza parlare, si espandono
rapidamente cercando di afferrare la sommità.

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