Immagine di Rahul Pandit

 

Intervento tenuto alla III ed. del Festival di poesia Paolo Prestigiacomo (2023) – San Mauro Castelverde

 

La tenerezza, in poesia, è lo strumento di decodificazione del reale, e il desiderio ne è l’estrinsecazione fattuale, o se vogliamo il medium espressivo di questa comunicazione che, a volte, potrebbe pure apparire fine a sé stessa ma che non lo è mai, poiché nei momenti migliori si rivela l’unica forma plausibile, l’unico strumento di indagine. Principalmente verso sé stessi. In un poeta come Dario Bellezza, ciò è lampante ed emblematico della sua certa, indiscutibile, lacerante ispirazione poetica.

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Mi è capitato di rileggere proprio in questi giorni il bel libro dì Renzo Paris su Amelia Rosselli, in cui fa cenno più volte all’amicizia sua e di Amelia Rosselli e di altri poeti del gruppo romano Beat 72, con Paolo Prestigiacomo, Paris riferisce anche della testimonianza di Gabriella Sica di una colazione tutti e tre insieme a Trastevere. Paris fa più volte cenno ai rapporti burrascosi tra il giovane Dario Bellezza e Amelia Rosselli, sicuramente per il carattere difficile di entrambi, e per i molti problemi di salute psichica di quest’ultima.

In tutto ciò, potrebbe sembrare arduo, ma invece è naturale, secondo la mia tesi, scorgere i caratteri della tenerezza poetica di cui mi accingo a spiegare.

Si tratta, secondo la mia visione, di quella particolare attitudine dell’anima per cui il poeta riesce a farsi voce univoca e direi universale degli afflati umani – riesce a sentire, percepire e descrivere attraverso la poesia e attraverso il filtro del desiderio in quanto propensione a unirsi ancora di più all’umano, la reale natura dei suoi simili, dell’umanità stessa.

La tenerezza è lo strumento di decodificazione del reale, e il desiderio ne è l’estrinsecazione fattuale, o se vogliamo il medium espressivo di questa comunicazione che, a volte, potrebbe pure apparire fine a sé stessa ma che non lo è mai, poiché nei momenti migliori si rivela l’unica forma plausibile, l’unico strumento di indagine. Principalmente se sé stessi.

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Il Poeta nativo non può fare a meno di guardare il mondo, tutta la realtà, con lo sguardo della tenerezza, perché altrimenti la realtà stessa gli scivolerebbe tra le dita come sabbia, diverrebbe ai suoi occhi incomprensibile, insopportabile.

Tenerezza che si lega al concetto squisitamente poetico dell’innocenza. Sempre perduta. Sempre rincorsa. Una specie di “sezione aurea”, impossibile da lambire compiutamente, una volta per tutte, un Eldorado vagheggiato, ambiguo, fatto di promesse d’amore, di salvazione. E così che il poeta nativo “sopporta” l’ “insostenibile leggerezza” della prosa della vita. Innocenza che regala al poeta gli occhi del fanciullo, al contempo incantati e disincantati.

“Adulto? Mai.” scrive Pasolini. Perché solo con l’occhio scevro di sovrastrutture imposte dalla velocità del consumo emozionale, e della incontrovertibile tendenza all’omologazione, il poeta può avere una qualche possibilità di “sopportare” e comprendere l’autenticità della vita – che nel suo caso significa “interpretare” la realtà, in modo totalmente soggettivo e, al contempo totalmente oggettivo.

Dell’oggettività della poesia, appunto.

L'”eterno umano” di cui parlava Benedetto Croce, a proposito della Poesia, che va oltre il tempo e la società umana che la esprime. Allora, il poeta è lo strumento umano, non il burocrate. Il poeta nativo è il solo “autorizzato” a farsi voce del mondo, e quindi voce di Dio.

Aveva ragione Moravia quando al funerale di Pasolini pianse l’amico porta urlando che “poeti ne nascono solo due o tre in un secolo. Il poeta dovrebbe essere sacro”. Al dunque, il poeta nativo è rabdomantico di sé, e attraverso sé della voce universale; e per far questo, automaticamente la sua anima si flette, si fa cassa di risonanza; ma prima ancora carta assorbente di un anelito che, da sempre, è l’umano stesso, il nostro essere interiormente partecipi della naturalità del creato e del suo mistero.

Fatta questa debita premessa, vengo al punto della mia breve dissertazione.

Il desiderio in poesia e nella letteratura in genere, è la proclamazione di un’assenza, che diviene presenza ossessiva persino nella mestizia, o nel grido scomposto che – in poesia – tende a ricomporsi. La dissoluzione è solo, quindi, il passo necessario (direi indispensabile) per ricondurre l’impulso decodificante d’una realtà/esteriore interiore a una sintesi che divenga opera, costrutto, e quindi poesia.

È il caso emblematico di un poeta come Dario Bellezza (1944-1996), di cui Pasolini scrisse, nel risvolto di copertina di Invettive licenze, “ecco il miglior poeta della sua generazione”.

Si potrebbe affermare tranquillamente che tutta la produzione poetica di Bellezza muove da un contrasto quanto mai dichiarato, inscenato, “teatralizzato” (alla Carmelo Bene, per intenderci) tra senso descrittivo della realtà e tendenza a estraniarsene attraverso la ricerca edenica di un luogo perduto, rintracciabile mediante lo strumento parossistico e a tratti ossessivo di un desiderio perennemente rivolto a una creaturalità ancora intatta, una sorta di idealità come parametro di consapevolezza ed esperienza del reale. La “fame di corpi senz’anima” (Pasolini) in Dario Bellezza assurge a un rango quasi sublime del desiderio, “So solo/la bestia che è in me è latra”), – desiderio ostentato perennemente, nella scrittura come nella vita, in una costante, appunto, dissimulazione e recitazione del proprio “io spampanato” – tradotta nel persistente compianto di sé come umanamente inserito in un consesso e in un’epoca estranei alla verità del poeta, alla sua ricerca di un’impossibile purezza: da cui l’ossimoro di questa ininterrotta fuga verso un improbabile Eldorado, ben conscio che è solo nella realtà, invece, che si può trovare una sorta di pacificazione della “bestia che latra”. Il desiderio, quindi, in Dario Bellezza diviene una sorta di frattura con sé stesso e di ricomposizione della stessa, di conscia alienazione dal reale da cui prende le mosse e di cui si nutre senza sosta, divenendo il riflesso di ciò che, vivendo, lo trafigge, lo erode. È sempre un desiderio considerato come una sorta di coazione a ripetere, che balugina come salvazione dal tedio di vivere, seppure “sono migliaia, non posso amarne uno” (Pasolini).

Vaga anima di flagelli sovrana,
che l’eterno sognare rende
di presagi infallibile e molesta
di guadagnare il porto della pace

benedetta, mescoli i fiati dei giovinetti,
i loro acerbi sessi perfettamente eretti
in una dolce perpetuità di nude forme,
carne emersa dal nulla senza attesa
a rapire le lingue vicarie
della grazia austera del male.

– –

O Narciso inesprimibile e leggero che fuggi
a me ormai dagli anni consunto, dalle ere
tutte sopra questa mia ambulante carcassa

fermati a guarire il mio cuore stanco
nella notte senza tempo del pensiero!

[da: “Libro d’amore”]

Mai indulgente con sé stesso, la denuncia di una perdita legata paradossalmente alla nascita, spinge il poeta a scoperchiare il vaso di Pandora delle sue ossessioni, in un continuo alternarsi di disincanto e teatralità, che possano rendere questo gioco a nascondersi e a disvelarsi quantomeno sopportabile. Già dal suo primo libro, l’invettiva e la licenza costituiscono quel gioco di convergenze degli opposti inscenato febbrilmente.

Lo ripetiamo: il desiderio in Dario Bellezza è sempre filtro di decodifica della realtà ma ancor più del proprio IO”, in una vertigine parossistica che sembra rappresentare per lui l’unica via verosimile, plausibile. E, al contempo, reiterata lacerazione sempre in bilico tra vagheggiamento di un’estasi quasi ancestrale e coscienza della mortalità dell’atto – fosse anche della osservazione ossessionante e ossessionata dell’oggetto d’amore.

In questo, con molti punti di contatto soprattutto con poeti come Sandro Penna, Kavafis, lo stesso Pasolini.

– Il punto di demarcazione, nella poesia di Bellezza, è riscontrabile nella sua assoluta e incontrastabile dedizione (lo ripetiamo ossessiva) verso una tipologia umana che lo coinvolge e dichiaratamente lo innamora. In questo, credo che Bellezza sia tra i pochi poeti del secondo novecento che abbia impersonato l’esatta coincidenza, senza soluzione di continuità, tra la presenza umana, l’indole del poeta in quanto tale, e la sua produzione poetica: ciò non come scelta alternabile di vita, o peggio come “mestiere”, ma come naturalità dell’esistere, come unica possibilità di “esprimersi e morire” (sempre Pasolini). Bellezza era poeta in ogni suo atto, in ogni sua scelta di vita: nel pensiero, nelle azioni, molto anche nelle sue apparenti (quindi reali) contraddizioni – già prima che nella pagina scritta.

Bellezza   amava   vivere   attorniato   da   una   sorta   di   corte   dei   miracoli, composta principalmente da ragazzi di vita e guitti di vario genere, sempre divertito da ogni sorta di stramberia cerimoniale e claunesca mista a un certo sadismo di occasione a cui   amava   abbandonarsi.   I   suoi   oggetti   del   desiderio: i   ragazzi:  angeli   e   carnefici dell’eros che diveniva poesia della carne e sinfonia creaturale dal fascino sinistro e inquietante, solari e oscuri insieme, spesso  drogati, marchettari, delinquentelli,  ma sempre   bellissimi   ai   suoi   occhi,   nel   loro   rapporto   dolente   e   controverso   con l’esistenza, nella loro fame di vita spesso lacerante e stremata. E poi, gli amati gatti, che scorrazzavano nelle stanze disadorne di Via de’ Pettinari, sui quali scrisse diverse poesie   improntate   al   ritrovamento   di   una   purezza   perduta, dal   mondo   animale all’umano tessendone il paragone, in sprazzi di lacerante tenerezza.

Rileggere   Dario   Bellezza, oggi, è   più   che   mai   un   atto   dovuto   a   un   grande   poeta, testimone   di   un   secolo, cantore   della   degradazione   del   vivere   ma   anche   della speranza di una rinascita, del sublime potere salvifico della poesia che si esprime in quella speciale condizione dell’anima e dell’intelligenza che riesce a tradurre il reale, a decifrarlo, a farne poesia.

Come era, ed è tuttora, a nostro avviso altrettanto chiaro che, dietro l’apparente copione di un poeta che amava nella vita lo sberleffo, il pettegolezzo, a volte estremamente caustico e a volte profondamente malinconico, si celasse e venisse fuori solo a tratti, come un lampeggiante (nella vita e nella produzione poetica, lo ribadiamo) la tenerezza dell’uomo-poeta il cui cuore “maciullato” fosse divenuto una sorta di mola levigante d’una personalità letteraria e umana come poche nel panorama della poesia italiana, assolutamente e perfettamente sovrapponibili, sebbene il versificare, in Bellezza, si manifestasse sempre come una singolare “dannazione sublime” a cui asservire l’esistenza stessa, perché è essa stessa dannazione, nel serbare e detenere i “parametri” poetici, i codici di decrittazione della realtà, visti attraverso la lente convessa del desiderio, per quanti se ne possano eventualmente definire ed evidenziare in un’esegesi critica generalizzata. Da intendersi, tenerezza come ordine (ancora una volta) di decodificazione, esaustiva magari solo in parte, della realtà interiore del poeta, così come del mondo circostante. In quanto, cioè, predisposizione dell’animo a “flettersi”, approntarsi a divenire permeabile, poroso, così da saper intendere nel profondo gli assunti del sentimento attraverso quella speciale lente, nitidissima e oscura, che è il desiderio stesso. Tendenza, ancora una volta, ad addentrarsi nella carne del pensiero: idea che lambisce la carnalità per poi, a sua volta, ridivenire pensiero consustanziale amplificato, esteso potenzialmente a ogni categoria del vissuto. È riuscire, con la naturalezza nativa del poeta, a mettersi a tu per tu con la natura stessa e coi i propri simili, entrando in quella speciale empatia muta e distanziata che, lo crediamo, è da sempre prerogativa e segno distintivo solo dei veri poeti.

Giovanni Comisso nel suo Diario scrive: “Io sono   l’anguilla   che   scivola   via   dalle   mani   dell’infelicità”.

Mi piace concludere con un aforisma di Paolo Prestigiacomo, tratto dal celeberrimo Il pubblico della poesia a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli: “Ora, se   dovessi   dire   come   vedo   il   poeta, lo direi   con   un’immagine: un uomo magrissimo in una grande stanza vuota che prende con molta cura le distanze dalle

quattro   pareti   e   si   colloca nel   centro   esatto   dell’ambiente e qui comincia a girare vorticosamente   attorno   a   se   stesso   come   una   trottola.   Personalmente, quando mi capita di identificarmi con questo personaggio che non saprei se definire vittima o mostro provo un urgente bisogno di fuga.”

 

 

 

Fabrizio Cavallaro, nato a Catania nel 1967, dove vive, scrive, disegna e fotografa. Ha pubblicato diverse raccolte di versi, tra cui Poesie d’amore per Clark Kent (Lietocollelibri, 2004), Di seconda virtù (Interno Poesia, 2017), Estività (Ensemble edizioni, 2018), Figure terrene (Lietocolle 2020), I silenzi (Archilibri 2021). È autore di testi teatrali, tra cui Salomè (A&B Editore – con note di Renzo Paris e Francesco Scarabicchi).

 

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