Fin dalla sua nascita, lo spazio letterario Poesia del nostro tempo si è proposto come luogo di dialogo tra poeti e autori contemporanei, in un continuo tentativo di confronto e ricerca. Questa rubrica, a cura di Adriano Cataldo e nata in collaborazione con la radio universitaria trentina Sanbaradio, ha l’obiettivo di portare avanti questa esplorazione, utilizzando i mezzi di comunicazione del contemporaneo.

Nel secondo episodio Adriano Cataldo ha intervistato Silvia Rosa, partendo da tre testi pubblicati su Tutta la terra che ci resta (Vydia 2022). Sono state affrontate soprattutto questioni di linguaggio poetico, che nel libro è associato al linguaggio scientifico. Inoltre, è stato discusso il tema della tecnologia e di come questo sia vissuto dalla generazione a cui appartiene l’autrice.

Dalla prefazione di Elio Grasso:

Silvia Rosa, accuratezza visiva alla mano e nella borsa cose difficili da descrivere, ottiche e micro-circuiti d’energia oltrepassanti la forza umana, percepisce (e, a valle, scrive) acutamente la verità e le relazioni di un ammasso estetico-tecnologico che da Ovest a Est, da Cupertino a Shenzen, ha occupato tutti i territori geografici, casalinghi e infine corporali. È la terra dopo l’onda di maremoto informatica a trovarsi addosso queste nuove quaranta poesie (numero non certo casuale), la terra che ci resta a ridosso dell’aggravamento, che né destrezza né ingegno hanno evitato s’avviasse verso un imbuto pernicioso. E d’opera si tratta, scritta custodendo le zone più remote delle biblioteche senza la pretesa di riempirle come fosse terapia chimica. Una sorta di resistenza dove l’io manca, ma non per difetto di figura e dialogo, ma perché se l’autrice strenuamente vuole opporsi all’involucro trasparente e impenetrabile, a tenuta stagna (Calasso) in cui siamo avvolti, e guardare verso l’esterno, deve farsi messaggera e meridiano della storia. Via dalla competenza di sé, dalla rovinosa auto-prodigalità. Le ottiche non hanno (per fortuna) coscienza, non quella che alcuni vorrebbero, ma Rosa ne utilizza la funzione in forma canonica poiché sente lo spazio davanti a sé come tutto tranne convenzione, e prima che lo spazio sbiadisca al limite del documentabile deve a ogni costo posare la propria verità poetica. Cos’altro aspettarsi, dunque, dal mondo? In quest’epoca dominata da trasformazione vanitosa (si sono notate le vanterie tecnologiche quando applicate ad alcune parti del corpo umano?) e illodevole, in molte delle poesie non sono rari gli accenni a voci stese fra colate di cemento come intendessero asciugare gli incubi.

da Tutta la terra che ci resta (Vydia 2022)

All’estremità della notte le occhiaie
ci confortano, piccole chiazze di lune
piene sul volto. La redenzione del tunnel,
con i suoi boati corvini e le falene-bussole,
è una strada d’alluminio che accoglie
i nostri fantasmi, a 150 km orari.
Il roseto di abbagli ed errori resta fuori
da questa griglia di Hermann: le fucilate
degli antinebbia e i rimpianti sono espunti
da un elenco di cifre binarie, o bianco o nero.

Manca profondità a questo andare,
uno sguardo d’insieme, il talento
di sopravvivere alle lesioni del buio

*

È quel gesto che resta sospeso a metà,
la dirittura d’arrivo di un progetto
per un niente mancata, il filo di capelli
appeso come un sonaglio reattivo
al primo dente del pettine,
la velatura di madreperla che omette
le evidenze familiari del corpo, precisamente
è questa la dolenza che lasciano in sorte
quelli che se ne vanno, di spalle:
si avventurano dentro un budello argenteo
di zinco e fosfeni, fino a un risucchio lattiginoso
di luce, non sentono i nostri richiami
a voltarsi, a rientrare, oltre le soglie
di vetroresina da cui li osserviamo
perdere consistenza, diventare ricordi.

Dove ritrovare le loro orme di odori,
le ragioni della distanza, i loro commiati?

*

Perforando la fibra sintetica
che oscura l’orbita del sole
scendiamo a precipizio lungo
il rivo amniotico, con la brina
degli inizi addosso e le palpebre
incollate, portiamo l’impronta artica
di monadi inscritta sulla pelle,
il freddo come una condanna

così veniamo al mondo
˗ o scompariamo? ˗
soggetti all’azzardo degli eventi
fra scorie di arenile e uranio
improvvise fluorescenze, scheletri
antropoidi e Intelligenze Artificiali,
assomigliamo alle falene Saturnia
e Cobra che infuriano le ali, confuse,
quando scambiano la luce al neon
per un destino luminoso d’astri

 

Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna. Laureata in Scienze dell’Educazione, con una specializzazione in educazione e formazione degli adulti e un master in didattica dell’italiano L2, ha frequentato il corso di storytelling della Scuola Holden. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, sono apparsi in riviste, siti e blog letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche “Tutta la terra che ci resta” (Vydia Editore 2022), “Tempo di riserva” (Giuliano Ladolfi Editore 2018), “Genealogia imperfetta” (La Vita Felice 2014), “SoloMinuscolaScrittura” (La vita Felice 2012), “Di sole voci” (LietoColle Editore 2010 – II ediz. 2012); l’antologia foto-poetica “Maternità marina” (Terra d’ulivi 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; il saggio di storia contemporanea “Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile” (1860-1960) (Ananke Edizioni 2013); il libro di racconti “Del suo essere un corpo” (Montedit Edizioni 2010). È vicedirettrice della rivista digitale “Poesia del nostro tempo”, per la quale cura le rubriche “Confine donna: poesie e storie d’emigrazione”, “Scaffale poesia: editori a confronto” e “I versi dell’allodola”, redattrice della testata online “NiedernGasse”, collabora con la rivista “Margutte”, con l’annuario di poesia «Argo» e con il quotidiano «il manifesto». Si è occupata del progetto di traduzione poetica e interviste di alcuni autori argentini, dal titolo “Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici”, pubblicato nel 2017 in e-book (edizioni Versante Ripido e La Recherche). È tra le ideatrici del progetto “Medicamenta – lingua di donna e altre scritture”, che propone una serie di letture, eventi e laboratori rivolti a donne italiane e straniere, lavorando in un’ottica psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita. Conduce laboratori utilizzando le metodologie autobiografiche, apprese nei corsi di Lucia Portis della Libera Università di Anghiari, insieme alla poesia terapia, di cui ha scritto per la rivista “Poetry Therapy Italia”. La sua attività completa si trova qui.

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