Particolare della copertina: “Immagini una pianura, si contraddice” di Adelio Fusé, Francesco Trabattoni

Dalla descrizione della casa editrice

Terzo capitolo – dopo La veglia del sonnambulo (2016) e Tempo ventriloquo (2019) – di una trilogia dell’erranza, Mosaico del viandante mette in scena un tu – il viandante, appunto – meticolosamente seguito nei suoi continui quanto imprevedibili spostamenti e incontri dall’io del poeta. Ne deriva una sorta di diario in seconda persona, nel quale l’io è tutt’altro che assente: l’io e il tu sono ognuno l’ombra dell’altro. Il ‘tu viandante’, che evita gli itinerari lineari e precostituiti a vantaggio della pluralità, procede per libere associazioni e diramazioni, sia pure con la preoccupazione di rintracciare un filo conduttore via via che gli episodi-tasselli si accumulano. La sequenza cronologica è sovvertita dalle intromissioni della memoria. Il passato, benché intermittente, una volta recuperato si reclama come presente. L’andare del viandante nello spazio (spiagge solitarie, aree extraurbane con aeroporti e scali ferroviari, città dai grattacieli spettrali, la campagna dell’infanzia, fiumi in secca e altro ancora, sino a una pianura che sconfina nel mare) coincide allora, inevitabilmente, con un nomadismo nel tempo. Passato, presente e futuro si fondono in un’unica dimensione temporale trasfigurando il reale, peraltro inscalfibile tanto nei suoi mali congeniti (il “dissesto diseguagliato del mondo”) quanto nella cronaca piú negativa – la pandemia, l’emergenza climatica, la minaccia nucleare – che si fa Storia e insieme distopia (“il pianeta azzurro a catafascio / rigattieri a raccoglierlo nessuno”). Protagonista di un viaggio in espansione costante e giocoforza incompiuto, il viandante si imbatte infine in un mosaico raffigurante un suo lontano omonimo, un “rabdomante di sentieri / nella geografia del tempo”. Lí il percorso non si conclude ma si rinnova.

Dal Backstage

[…] Mosaico del viandante si compone di poesie ‘itineranti’ nelle quali i luoghi – visitati, restituiti dai ricordi o immaginati – sono perlopiù lasciati senza nome, e neppure risultano riconoscibili. Il nome sottaciuto di un luogo non equivale a una sottrazione di identità ma, al contrario, a un accrescimento che eleva un luogo a simbolo. Qualunque luogo è un facitore instancabile di storie. I luoghi – osservarli significa anche ascoltarne la voce – sono i primi narratori di sé stessi e oltre a contenere storie ne ispirano di innumerevoli. Senza contare che l’attraversamento di un luogo può risvegliare nella memoria storie avvenute non lì dove si è ma altrove. Tuttavia il simbolismo dei luoghi sta soprattutto nelle storie che sono ancora da raccontare. Il tragitto del tu viandante è alquanto zigzagante e prevede dei ritorni. Anche i luoghi vanno e vengono. Finalmente nominandoli, si procede, in ordine sparso, dalla Liguria alle isole greche di Naxos e Kos alla Sardegna alle Fiandre; si passa da una Parigi di memoria (Montmartre) a una sortita nella New York del crollo di Wall Street; dalla Milano degli aeroporti e degli scali ferroviari a quella dei grattacieli o del lockdown alla campagna della Valle Olona (Varese); dalla Palestina alla Costa Azzurra alla Normandia; da Cabo Fisterra (Galizia, Spagna) al Ponte della Becca (Broni, provincia di Pavia, dove il Ticino confluisce nel Po); dal Delta del Po a Saintes-Maries-de-la-Mer e la Camargue. […]

 

Da Mosaico del viandante (Book Editore 2023)

(11)

tu che ovunque conficchi come un chiodo lo sguardo
ora insisti sui riflessi mobili nel vetro
e scruti la vita in anestesia:
il reale è l’al di là che nell’al di qua si specchia

sfilano incorporei i migratori dell’hub
ma gli uccelli non hanno trolley
il loro brusio è il tuo silenzio:
unico ospite di un magico cubicolo
lo trasfiguri in acquario
e rinchiuso assisti almeno al prodigio
di nuvole sott’acqua fumo arabescato

circuito dell’aria in ricambio filtrato:
il mondo si riforgia
un sistema di aerazione espansivo
e tu che immerso con la bocca simuli un pesce

(32)

e gli alberi sono ancóra sguarniti
di una primavera qualunque
nell’azzurro sciapo dopo un’alba tradita
una delle tante ormai

la borsa a tracolla che lo strangola
sulla pedonale qualcuno svelto di gambe
gareggia con un fulmineo treno
verso la soglia di un record
e una metamorfosi:
l’aereo che si solleva e si libra
è il vertice di un istante

concentra vita arruffata il parcheggio h24
e il maratoneta delle ere lí s’infiltra
ma nella tua visione va a ritroso
vicino e lontano ominide nella savana

che tu infine raggiungi

(53)

siamo esposti all’erosione evento inesorabile
pur acquattati nella tana piú sicura:
vedi bene quanto sei comodo e prossimo
tanto ti coincidi

lo zelo ti consegna alle tue stesse mani
e sono le mani dei pensieri – non ti stupire –
sempre variati eppure identici
nella spirale organica che si avviluppa
e ti attorce

perché non sgusci via nella notte
sotto un cielo vero
al brillio di stelle folli e randagie
fuori costellazione?

(68)

è la mia erranza condivisa
questa tiritera che non si cassa
e addosso ti riverso

procedi e saltabecchi
ti anteponi ti posponi:
quando appagato ti assesti
un punto compensa
ogni non toccato punto,
un luogo i luoghi tutti
che mai saranno approdo

ma ti frulla pur sempre nelle orecchie
il richiamo di un ultrasonico silenzio:
oceanico orizzonte dove acqua e cielo
naufragando si accoppiano

 

Adelio Fusé (1958) vive a Milano, dove ha lavorato nell’editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno (Materiali Sonori-Auditorium, 1999), i romanzi North Rocks (Campanotto, 2001), L’astrazione non è la mia passione principale e Le direzioni dell’attesa (Manni, 2018 e 2020). Per Book Editore, dal 2003 al 2019, sono usciti i libri di poesia Il boomerang non torna, Orizzonti della clessidra distesa, Canti dello specchio bifronte, L’obliqua scacchiera, La veglia del sonnambulo (candidato al Premio “Camaiore” e finalista al Premio “Lorenzo Montano”, 2016), Tempo ventriloquo. Collabora con artisti, fotografi e musicisti. Cura una rubrica di musica e poesia sul sito altremusiche.it e scrive per varie riviste. Ha ottenuto un riconoscimento al Premio “Riccione per il teatro” (1981).

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