Considera poi che la bellezza
è soltanto una piccola preda
nel carniere dei loro misfatti.

Gianmario Lucini

Il Prologo de L’adatto vocabolario di ogni specie di Alessandro Silva (Pietre Vive Editore 2016) allestisce una cornice spazio-temporale in cui la sua poesia-denuncia può esporre una lenta e occultata tragedia e ripopolare col respiro le vite di un luogo e dei suoi abitanti. Di questa tragedia è urgente dipanare di fronte al lettore il mythos, il racconto («C’è destino nel racconto, e destino», Preferisco i racconti, p. 41) che è anzitutto racconto di un oikos, di una casa fatta di stanze non più comunicanti, in quanto invase dall’iperoggetto dell’inquinamento (Morton 2013) del «polo siderurgico dell’Ilva» (p. 6). Il poeta crea la sua voce perché – come sostiene Letizia Modena riferendosi a Giovanni Nadiani – «sente forte la pena per la trasformazione del suo circondario naturale e umano, sofferenza tanto più forte in proporzione alla profondità dell’amore per il luogo del suo abitare» (Modena 2013). Chi nei decenni non ha difeso il paesaggio – pur abitandolo – e lo ha invece deprivato del suo respiro, chi ha fatto di quel respiro il suo contrario («Qui il respiro toglie la vita invece di restituirla ad un altro giorno», p. 8), lo ha anche usato per creare un racconto mendace («Chi uccide Taranto ama parlare della città sui suoi cumuli di ombre e polveri», p. 22) tacendo la verità del luogo («tacendo la vergogna dei fattori di rischio», Cronoprogramma, p. 47). Donare il proprio fiato per far emergere la verità di Taranto, allora, sottende un trapianto di attenzione, un immettere di fronte al lettore, cantandole, le parole necessarie e l’avvalersi del vocabolario adatto alle specie condannate in quelle “stanze” – come rivendica già il titolo della raccolta. Il male riceve così nomi precisi («diossine», p. 8; «leucemie e patologie tumorali della tiroide», p. 10, Slopping, pp. 68-69), perché inequivocabili sono gli errori degli uomini e delle loro «immobili» istituzioni. Solo disconoscendo le colpe, il male mantiene l’indiscussa «libertà di rendere cieche le costole del fiato e chiudere il respiro» (p. 10), di «oscurare il sole» con «una colonna / alzata per trentacinque metri di cielo» (Luce dentro la terra, p. 27), di diventare parte dei corpi, come se lo stesso inquinamento, lo stesso male, fosse alle nuove generazioni inevitabilmente intrinseco («Nemmeno gli occhi di un bambino riescono più a salvare il mondo. Hanno dentro polvere di minerale. E su tutto il corpo», p. 12). I gesti più quotidiani e famigliari diventano mortali, le intenzioni perdono i loro contorni definiti cedendo a quelle dei propri carnefici.
Il silenzio, infatti, non è solo questione di fiato, ma anche di intenzioni. Il voler negare una ferita («la ferita dell’aria», Provvedimento di spegnimento I, p. 48) e il suo inscindibile legame con la causa che l’ha prodotta, porta a perpetrarla e ad ampliarla, senza possibilità di cicatrizzazione («Qualunque cosa accada / sembra scritta sull’acqua e / non lascia cicatrice», Cicatrice, p. 67). L’unico imperativo – lontano da qualsivoglia imperativo morale, ma che è, semmai, imperativo mortale – è il profitto economico, favorire un «incredibile sistema di potere» (p. 16) che dimentica la connessione inevitabile tra tutti gli esseri – presenti e futuri – che quella ferita coinvolge («Negato il gioco negli spazi verdi / [la rovina di polveri in vortice / schiaccia l’erba e gli animali del luogo»], Bella avvelenata, p. 76). Silva ricrea una mappa di responsabilità – anche grazie alle immagini di Giovanni Munari, capaci di «portare nel luogo» il lettore (Harjo 1989) – e cerca di cucire nei versi cause ed effetti, per aiutare a rimarginare tale ferita e ricostruire corrispondenze («Le proiezioni di metallo fuso fanno / anche dieci metri di fiammate e dieci / sono gli indagati per omicidio colposo», Di quello che so sull’operaio morto I, p. 30).
Il racconto – sia esso giudiziario, quello di «grammatica breve» (p. 20) delle «oltre 500 pagine del decreto di sequestro» (p. 16), o quello versificato di Silva – implica un impegno che deve esporre sia una ferita, per rimarginarla, sia il motivo per cui il respiro è venuto meno, in una dinamica continua di sutura / esposizione. Solo partendo da questo ideale poetico – che ricorda alcune tematiche operaie franziniane – il paesaggio può iniziare a riscattarsi dall’«indifferenza» e tornare ad avere la sua propria voce (p. 17; «del nostro tocco o sguardo / poco importa a qualcuno», Qualcuno che cade, p. 28).

 

da L’adatto vocabolario di ogni specie (Pietre vive Editore 2016)

 

Chi uccide Taranto ama parlare della città sui suoi cumuli di ombre e polveri. Gli altri, quelli comuni, il formicolio delle mani lo guardano con il capo chino e non sanno qua- le atto è più urgente. Il parere dell’Unione europea non si fa attendere; sebbene siano state risolte alcune carenze si registrano molte e diverse violazioni: dall’inadeguata gestione dei sottoprodotti e dei rifiuti a un controllo insufficiente di suolo e acque sotterranee. Le voci di malattia, le nuvole sotterrate, le albe della primavera: si sta dentro la città che ne muore, nel viaggio verso casa.

 

QUALCUNO CHE CADE

otto/giugno/duemilaequindici

Nel pomeriggio è accaduto
all’altoforno Due, l’incidente.
Ci sono state, dopo, ventiquattro
ore di mani alte [mani di ferro
calloso e nodi di dita nerastre].

Una babele di passi scesa in battaglia
tra rottami e mantici di aria che ustiona.
Occhi rauchi e cicatrici aperte di labbra.

C’era un morto e nessun messia
per motivi di sicurezza. Quaggiù
è la terra in fondo un sudicio
ossario e, del nostro tocco o sguardo
poco importa a qualcuno.

 

NOI SIAMO MORTI, NON SAPEVAMO NULLA II

Nel lago grigio del cielo l’aria è ruvida
si lecca, la si inghiotte e fa segni in gola.
L’operaio perse il cuore e il posto di lavoro
[125 mila tra sfaccendati e i cassintegrati].
Gli toccò di rubare quanto gli avevano sottratto.

In città tutti sono morsi da speranze diverse
quando ci si ritira dal balcone con cautela
per i fumi. Fumi che rubano il nero alla notte
e gettano inesauste cantilene. Pioviggina

polvere, l’operaio scivola nella confusione
e nemmeno gli è concesso di ricordare
dove si apriva la ferita. Cosa vuoi che si dica,
la malattia è solo una sera di solitudine smarrita
nella memoria. Lui vorrebbe morire lavorando.

 

Alessandro Silva, nato a Parma nella primavera del 1976, ha lavorato come biologo cellulare per poi abbandonare la ricerca e dedicarsi alla comunicazione: ora è creatore di contenuti per blog e profili social di aziende private. Suoi componimenti poetici sono stati selezionati più volte per comparire nella rubrica Poemata di Illustrati (Logos Edizioni) e, a maggio 2016, è stata pubblicata da Pietre Vive Editore la raccolta L’adatto vocabolario di ogni specie, un poemetto civile dedicato alla città di Taranto e al caso dell’ILVA. L’opera è stata scelta tra i venti finalisti al Premio Nazionale “Elio Pagliarani” 2017 ed ora è disponibile anche come audiolibro. Scelto assieme ad altri diciannove autori, alcuni suoi componimenti sono stai inseriti in un’antologia dei poeti oggi attivi a Parma. La raccolta è uscita a settembre 2018, per i tipi di Puntoacapo Editrice.

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