Fotografia di Dino Ignani

 

Lettera a chi leggerà To touch or not to touch (La désistance) di Enzo Campi, prefazione di Vincenzo Bagnoli (puntoacapo 2022)

Recensione di  Maria Luisa Vezzali

Caro tu che leggi, presta ora attenzione, perché questo poema è il più ambizioso disperato lamento d’amore che tu abbia mai ricevuto. Da qui – come ti accorgerai leggendo, perché solo leggendo potrai giocare la tua parte in questa rappresentazione – coglierai la sovrabbondanza della funzione fàtica nel discorso, del moltiplicarsi degli appelli «ascolta tu, adesso, ascoltami», magari a volte rafforzati dall’esortazione «prova a rispondere, se / puoi, se vuoi», tutto allo scopo to touch, di verificare un contatto con te. Ma non con te come destinatario, perché «il destinatario risulterà sempre assente, è / così che funziona, fin dalla notte dei tempi» e senza destinatario manca il dativo «con / cui condividere l’ / assenza, la presenza, l’ / essenza di un qualcosa che non / può essere dimostrato nel / suo accadimento, ma che / tuttavia esiste, persiste». Nel procedere vertiginoso del discorso non c’è una storia da raccontarti o un messaggio da inviarti e quindi neppure una lettera, ed è per questo che la scrivo io, con l’autorizzazione di chi ha letto rivolta a te che sei chiamato a leggere, nella consapevolezza che nessuno ci dirà che siamo o non siamo nel giusto. Quindi con te come referente, per te, leggente, che sei sempre esterno alla situazione linguistica e che tuttavia sei chiamato in causa solamente dalla lingua. Ma se manca il destinatario, dirai, cosa avviene della comunicazione? Sarà un lamento semmai narcisistico dove si accampa la coincidenza di A e di nonA e nella trasposizione del viaggio si tratterà sempre di un falso movimento, come il testo stesso confessa che ci sono solo due stazioni, la prima e la prima. Eppure, leggi meglio, il movimento c’è, c’è sempre l’erranza, il flusso, ed è proprio «nelle due stazioni, la / prima e la prima, che accade l’evento», ciò che ti sorprende, paradossale e inanticipabile, caduta dell’involontario e del disordine, dove è impossibile «spacciarsi come / autore». Non l’assorbimento all’uno degli opposti, quindi, piuttosto l’alternativa dell’identico, l’A in luogo di A, dove l’«autore» entra esso stesso come referente, il «lui» del testo che cerca di riversare sull’io le sue colpe finendo insieme a noi nel contesto della medesima fisicità dissestata, di un qui ed ora di carne e catastrofe, in una circolazione amorosa che si vedrà meglio in seguito.

Ma proviamo prima con una descrizione di ciò che, aprendo il libro, avrai materialmente davanti agli occhi: un poema di 120 pagine senza interruzioni marcate da titoli o numerazioni di sezione, scandito in 23 lasse che terminano tutte nello stesso modo – il termine «désistance», seguito da un’espressione esclamativa («che meraviglia!», «che dissimulazione!», «che stupefazione!»… fino a «che lampante colpevolezza!») – e cominciano tutte, tranne la prima, con una negazione (quasi sempre «non più», solo «non» nella dodicesima e nella diciannovesima). Se gli indizi linguistici hanno un senso, però, dove indicano? «Ciò che conta», ciò che segna l’inizio di tutto, è un gorgo nel tempo dove la «figura-ultima» risulta uguale alla figura che ci catapulta, tanto «estranea dal / sorgivo», quanto priva di «contatto con l’ / ultimità». Un gorgo che, innescato dalla tensione tra il taglio disforico della negazione e l’apertura euforica dell’entusiasmo, lascia spiraglio alla voce.

Lungo le parti, infatti, il discorso si muove come un flusso, un andirivieni, uno sprofondare in vortice, che non produce vero sviluppo argomentativo, ma piuttosto continua, poggiando su ricorrenze testuali come la frase del titolo e il refrain «une maille à l’ / endroit et une maille à l’ / envers, c’est ça, fatevene una / ragione, facciamone una / ragione», parole tematiche, giochi fonici paraetimologici (per es. «non più il guanto quindi, ma la guaina / ciò che procura il guaio / o il punto esatto in cui si può tentare il guado / senza il rischio di guastare la conformità del flusso») e due costanti di particolare interesse.

La prima è l’utilizzo della congiunzione «o» con valore non disgiuntivo, non grammaticale, semmai filosofico, come nei casi «catapultato in questa risibile saga / a delinquere / o a delinquere», «corpo condizionato / dal desiderio / o dal desiderio», «anche se non c’ / è nulla da / salvaguardare / o salvaguardare», ecc. Tale elemento costella i versi di un inceppo di ritorno, un’eco, che rappresenta il più preciso dispositivo linguistico della désistance in cui ci avviluppa il poema, l’espressione paradigmatica dell’individuo derridiano in ritardo sul mondo e su se stesso che fa esperienza di qualcosa che è avvenuto prima di sé e lo costituisce ad opera dell’ineluttabile consentendo la libertà del soggetto.

La seconda costante è l’alternarsi di caratteri tondi e corsivi, dove il tondo si ascolta come voce dell’«io» che pone la questione e demistifica, di cui ci si può – se si vuole – fidare, mentre il corsivo è la voce di «lui», dell’autore, mercenario colpevole infido inquisitore, «guardiano parlante del mito», «inattendibile arrangiatore di sillabe», «sciamano di una parola che non può / costituire nient’ / altro che vacue sequenze di finti / cunei e risibili cilidri». In questo vacuum precipita tutto il meraviglioso inutile repertorio della tradizione poetica, il lancio del dado mallarmeano, «torri rovesciate dalle cui mura trasudano / umori mistificanti», parole «dalle cui finestre piovono consunte / alabarde e scudi spezzati», «nella sublime inconsistenza / della candida neve», «vecchi alfabeti e / riprodotti, con un punteruolo di / rame sull’/ argilla fresca del mattino»… Tutto il meraviglioso inutile repertorio della tradizione poetica, compresa la produzione precedente di Enzo Campi, come a pagina 49 ci rivela l’insorgenza di Fuochi fatui (raccolta da lui pubblicata per Oedipus nel 2021).

Nella faglia tra tondo e corsivo, tra «io» e autore, tra la prima e la prima stazione, tra letto e leggente, si accampa un appassionato inno alla chōra, invenzione del Timeo platonico ma anche sempre derridiana, parola per cui non c’è una traduzione giusta, non è giusto nemmeno il nome, supporto e superficie, proiettile e bersaglio, che imprime il desiderio del contatto e non si lascia toccare, tertium possibile tra to touch or not to touch, che ci permette di desistere dalla volontà di potenza, di «ripudiare il sistema binario che ci / obbliga a seguire la strada maestra», matrice sempre capace di partorire nuove forme. Per questo «il poema non / può che dichiararsi ininterrotto» nonostante il continuare sia forzatura e sfacelo e l’opera si qualifichi come «anatomia del sacro disastro».
Nel poema non troverai cose, né idee da difendere o rinnegare, né princìpi su cui arroccarsi, né zimbelli su cui infierire. Solo la ricerca. La ricerca dell’Altro, per desiderio dell’Altro, nel suo inevitabile intreccio con la ricerca e il desiderio di Sé. Sarai gettato in una quête paradossale, un’impresa d’amore affine al percorso della Gnosi, dove il ricercatore si identifica con quanto ricerca e «nella misura in cui può accettare l’auto-ricerca divina della Luce, è affrancato e indossa l’abito della gloria: l’immagine di specchio che aveva dimenticato nella casa del padre» (P. Zweig, L’eresia dell’amore di sé, Feltrinelli, Milano 1984). Da questo specchio-naufragio è tesa una mano, una mano che ha il tuo stesso pallore. L’unica mano che non puoi toccare, ma che non si nega e ti è sempre davanti.

*

[dalla quinta lassa di To touch or not to touch, pp. 32-34]

non più una chiamata quindi, ma
un semplice appello in cui dichiarare
la propria assenza senza timore di
essere smentito o indicato
come mentitore, e
dal caos risale
un insieme di punti da
scollegare
o scollegare,
senza scarti a rinverdire i fasti nell’
assioma, sempre più indefinito, che
si defila dalle norme, dall’
enorme mole delle strisce che
indirizzano
il passo verso lo
schermo, verso la schermata che
decreta l’
arresto e la ripartenza, dalla
prima stazione alla
prima stazione, si direbbe
da fermo
o da fermo,
ben piantato nel punto d’
ancoraggio alla sacra chōra to touch
or not to
touch perché non parla mai delle
falde? delle faglie? anche delle
foglie se volete, e che cos’
è la foglia se non una figura che
rappresenta la caduta? la sua stessa
caduta, il suo continuo precipitare in
quel fragile sistema che egli stesso ha
contribuito a creare, e poi perché finge di
non cadere? bisognerebbe moltiplicare le
entrate e le uscite, studiare la
fenomenologia dei cardini che
permettono alle porte il movimento
che invita al dissesto, alla beffa, perché
spaiato
o spaiato
fu ed è senza essere alcunché o
magari solo disgiunto all’
inizio del viaggio, all’
incipit che richiama
la fine
o la fine,
casomai l’
ennesima ripetizione dell’
illusione che mortifica la
nostra urgenza di affiancarci al
flusso, di vanificare il ritardo
congenito che rallenta le nostre
ascese e le nostre cadute,
senza comprendere che ciò
che conta è il termine del
viaggio, mai cominciato, che
ripropone il suo ciclo
vitale
o vitale,
ma ascolta tu, adesso, ascoltami:
sradicare il vuoto dalla
voragine sorgiva può generare
euforia e godimento, ma la
pratica è insana, non restituisce il
maltolto, non edifica una nuova
figura, non ascende al sovraceleste, non
precipita oltre il fondo che le è
stato assegnato prima che le
parole avessero un senso compiuto,
e tutto ciò che ancora si racconta per
lande desolate e radure di comodo è
solo vacua fabula per
cieche guide di ciechi

 

Enzo Campi (1961). Autore e regista teatrale, videomaker, poeta, critico, saggista, filosofo. Ha curato volumi monografici su Emilio Villa, Pier Paolo Pasolini, Amelia Rosselli. Suoi scritti letterari e critici sono stati pubblicati in forma cartacea su riviste, antologie, volumi monografici (Maurice Blanchot, Gianni Toti, Emilio Villa, ecc.), cataloghi di mostre e in rete su svariati siti e blog di scrittura. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: ex tra sistole (Marco Saya Edizioni, Milano 2017), L’inarrivabile mosaico (Anterem, Verona 2017, XXXI Premio Lorenzo Montano), Artaud. Il supplizio della lingua (Marco Saya Edizioni, Milano 2018), Le nostre (de)posizioni, scritto con Sonia Caporossi (Bonanno, Acireale-Roma 2020), Fuochi Fatui (Oèdipus, Salerno 2021), To touch or not to touch (puntoacapo editrice 2022) e la curatela plurilingue BABEL stati di alterazione (Bertoni Editore 2022). È stato tradotto in inglese, francese, spagnolo, russo, polacco. È direttore artistico del Festival Multidisciplinare Internazionale “Bologna in Lettere”, giunto alla XI edizione.

Maria Luisa Vezzali (Bologna 1964), docente di Materie letterarie nella scuola superiore, è traduttrice di Adrienne Rich (Cartografie del silenzio, Crocetti 20202, e La guida nel labirinto, Crocetti 20212, premio per la traduzione dell’Università di Bologna) e Lorand Gaspar (Conoscenza della luce, Donzelli 2006). Per Raffaelli (2011) ha curato un’edizione dell’Anabasi di Saint-John Perse. In poesia ha pubblicato L’altra eternità (Edizioni del Laboratorio 1987), Eleusi marina (in “Terzo quaderno italiano” a cura di Franco Buffoni, Guerini e Associati 1992), dieci nell’uno (Eidos 2004, disegni e sculture di Mirta Carroli), lineamadre (Donzelli 2007, premio Anterem/Montano), Forme implicite(Allemandi 2011, gioielli e disegni di Mirta Carroli), Tutto questo (Puntoacapo editrice 2018, premio don Luigi Di Liegro 2020). Fa parte dell’Associazione Orlando e del collettivo di traduttrici WiT (Women in Translation), che ha prodotto Audre Lorde, D’Amore e di lotta (Le Lettere, ottobre 2018). www.marialuisavezzali.com

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