Fotografia di Dino Ignani

 

È con il corpo che si assaggia e si saggia il mondo circostante, si prendono le misure della dimensione relativa e di quella assoluta. Ed è con il corpo, è attraverso il corpo che si esprime il senso intimo dell’esperienza, si produce la parola, si elabora il simbolo nel segno. “Le cose che vedi le faccio con il corpo” dichiara la poesia che apre Vetro, l’ultima raccolta di Nicola Bultrini uscita per Interno Poesia nel 2022. Il passato incontra il presente, prima che nel verso, nella sede specifica e impalpabile del suono che ha prodotto quella determinata sequenza di minime memorie fattesi parole. E il presente, nel suo flusso psicologico e comportamentale, riecheggia in ogni frammento di tempo vissuto come una lente di ingrandimento sul dettaglio, sulle piccole cose che sfuggirebbero se non venissero immortalate nel verso. Quella di Bultrini è una poesia apparentemente placida, come parte di quella luziana (quel “contegno” sobrio e mite, luminosamente attribuito all’autore da Umberto Fiori nella prefazione a La forma di tutti, Capire Edizioni), ma la pacificazione è una conquista pressoché impossibile che l’uomo, spesso, baratta con quel valore relativo ma fortemente riempitivo che è il sapere, fosse solo quello di abitare appieno l’esistenza: “L’esercizio perfetto, stare a tempo, /la conoscenza del mondo”.

In questa e in altre raccolte di poesia, spiccano fatti e vissuti personali che si uniscono a quelli collettivi. Che pensi della poesia di situazione, oggi?

Se la poesia si ferma alla situazione, temo abbia poco da dire. Può riferire fatti magari intriganti nel loro accadere, ma che poco aggiungono alla nostra conoscenza. Credo infatti che l’arte, quindi la poesia, sia sempre un’esperienza di conoscenza. Il che quindi implica andare dentro (o oltre) le cose nel loro mero apparire. La poesia deve produrre un “turbamento”, almeno questo è quello che io mi aspetto e cerco nella lettura di un testo. Il fatto in sé può interessare, ma non necessariamente coinvolgere. Anche Leopardi nell’Infinito, ci rappresenta una “situazione”, che però (dirottando lo sguardo oltre la “siepe”) ci proietta in una dimensione di percezione profonda, che ancora oggi ci “riguarda”. Io parto sempre da un dato reale, semplicemente perché penso di poter scrivere solo di cose che conosco, e che conosco perché ho vissuto. Alcune di queste cose possono tranquillamente rimanere come appunti nella pagina di un diario intimo. Ma se qualcosa invece apre una breccia sulla realtà, non necessariamente offrendo una visione, ma anche solo ponendo un dubbio (ovvero una domanda), allora insisto e scavo. Alla fine, non c’è una rivelazione, ma l’apertura di un varco. In questo la memoria è importantissima, ma non deve costituire una rete, pena il rischio di creare una zona di sicurezza per le conferme che cerchiamo. La poesia non offre conferme, anzi, spesso soltanto incertezze, attraverso cui può vivere una esperienza inedita.

“Prima di nascere/ero in paradiso/in una pancia, poi sono cambiato”. Questo è un verso di una tua poesia. Lo stesso anno del tuo libro, è uscita la raccolta Prima di nascere (Fazi) di Claudio Damiani. Sembra, però, che le vostre riflessioni si focalizzino su aspetti diversi, benché complementari. Il senso della tua poesia è volto a una meticolosa ricognizione sul presente (perfino quando ricordi le cose andate), quella di Damiani mira, invece, a riflettere su un passato indeterminabile o su un tempo sospeso, estraniato. Che ne pensi?

Direi che l’approccio di Claudio (cui mi lega da molti anni una sincera amicizia e profonda stima) è quasi cosmogonico. Il suo sguardo è amplissimo e abbraccia tutto l’esistere nella sua complessità. La mia visione invece è più radicata in una ricognizione ontologica che deriva da un dato reale assolutamente pertinente la nostra quotidianità. Claudio si interroga sul nostro essere particelle di un universo immanente. Io prendo le mosse da una frase ascoltata per caso, e sulla cui tagliente semplicità mi interrogo. I versi che hai citato (“Prima di nascere/ero in paradiso/in una pancia”) sono la risposta che un bambino ha dato a un prete durante la messa. Il poeta è un ladro che ruba per amore; così io me ne sono appropriato, perché la spiazzante semplicità di quelle parole mi poneva di fronte a un mistero. L’incontro con il mistero è un’esperienza in sé, a prescindere dal percorso che ne può scaturire. L’importante è abbandonarsi al mistero e non rimanere sulla soglia dell’apparizione.

Quanto e come incide il peso della storia – vissuta o appresa in racconto – nei tuoi versi?

Tantissimo. Fin da bambino ero curioso di conoscere la storia dei miei nonni, ad esempio. E infatti quello che mi interessa sono le vicende minime che appartengono alla moltitudine anonima che popola la grande storia. Quelle esperienze, apparentemente ordinarie e banali, sono la trama su cui si intreccia la Storia con la maiuscola. Ma non potremmo mai capire la grande Storia senza conoscere i fili sottili di quel complesso tessuto. Con ciò non voglio affatto svolgere un discorso populista e men che meno ideologico. Ma è un fatto che nell’arco breve della nostra vita terrena, quelle microstorie sono la forma della nostra esistenza. Ovviamente penso alla storia individuale, familiare, ma anche alla storia collettiva. Di quelle comunità di anime che hanno condiviso una medesima sorte (anche declinandone il profilo in maniere diverse). Nei fatti che abbiamo davanti agli occhi c’è sempre una radice (peraltro assai complessa) che viene da lontano, dal profondo. Anche pensando alla vita in una prospettiva, io penso che il destino abbia poco a che fare con il nostro futuro, piuttosto trova ragione nel passato.

Nella raccolta La forma di tutti, ogni essere umano è caratterizzato da quell’operosità che lo rende membro attivo della società e, insieme, consente di evidenziare le peculiarità dell’individuo singolo. Come si trasfigura un dato mnemonico in un testo poetico?

Siamo tutti fatti della stessa forma, ma tutti insieme assumiamo una data forma (collettiva). Da cosa dipende questo? Da quello che facciamo con il nostro corpo. A volte penso che sarebbe affascinante (ma molto laborioso) fare una specie di collezione dei gesti individuali. La casistica sarebbe infinita, anche se apparentemente siamo sempre la stessa pasta che si agita per le stesse emozioni e in maniere simili. Tuttavia, qualcosa possiamo mettere in luce. Ma l’approccio non può essere quello di un razionale catalogatore. Intanto perché le cose remote si impongono alla memoria in maniera inaspettata. Il nostro stesso sguardo sul mondo raccoglie e salva immagini seguendo un andamento più o meno regolare. Ma ci sono immagini che invece raccogliamo inconsciamente con “la coda dell’occhio” (che non a caso è il titolo di una mia vecchia raccolta) che, proprio perché conservate senza calcolo alcuno, possono riemergere assolutamente intatte e dare occasione a un incondizionato incontro con il reale, che si pone a quel punto come vera e propria epifania.

Nei 64 Sonetti (Fuorilinea, collana Rosso Sospeso) decidi di esprimerti in una metrica precisa, preannunciandola sin dal titolo. Cosa rappresenta il ritorno alle forme chiuse in epoca contemporanea e come conseguenza dell’avvento del versoliberismo?

Tutto quello che ho detto finora deve tradursi in una forma di scrittura. Tutte le esperienze, per chi scrive, passano attraverso il linguaggio. Ma il linguaggio parlato, come quello musicale, ha delle regole. È vero che in poesia è possibile tutto e il suo contrario, proprio per la libertà che connota la scrittura in versi. Ma la poesia è canto, quindi musica, quindi ritmo. Non dico che si debba tornare alle forme metriche classiche o convenzionali. Però, magari sottotraccia, quella pulsazione primitiva si deve sentire. Del resto, il ritmo può derivare non solo dalla metrica (pur nascosta che sia) ma anche dalla percussione delle immagini, dall’incalzo emozionale, dagli spazi, dai semplici rumori. Quando leggo mi sento davvero libero e privo di pregiudizi e posso affrontare anche una poesia sperimentale senza condizionamenti, lasciandomi coinvolgere da quella specifica esperienza. Personalmente, ho in testa sempre un andamento endecasillabico, magari zoppicante e goffo, ma in certo senso riconoscibile. Forse è un po’ una schiavitù (mi pare che Montale abbia detto che non ci si libera mai dall’endecasillabo) e infatti cerco di non farmi troppo irretire. Nel senso che non deve viziare una spontaneità musicale che deve prescindere. Un’estate di parecchi anni fa decisi di sperimentare cosa sarebbe accaduto costringendomi a quella forma: il sonetto, in quartine e terzine, in endecasillabi, con la rima alternata. Mi resi presto conto che sensazioni o pensieri amorfi e scoordinati, trovavano così un loro equilibrio. È stato una specie di ritiro, un esercizio, da cui però sono venuti fuori versi che, credo, altrimenti non avrebbero trovato dimensione.

 

Adesso ho da dire qualche cosa
i giorni disuguali, le spezie sul fondo
del vino, l’odore pomeridiano dell’erba
l’oro, una nuvola di schegge.
E dunque ricapitolando, prima
di nascere ero in paradiso
in una pancia, poi sono cambiato.
Le cose che vedi le faccio con il corpo.

*

Mi riconosci, in piedi sullo sfondo
sarà stato l’inverno dell’ottanta
la prima B al completo per la foto di classe
tutti uguali eppure differenti.
Professore lei non capisce
è una questione di identità.
Io per esempio, confesso
a voi fratelli che ho molto amato
questa periferia cortese
e una frugale educazione cattolica.

*

Abbiamo camminato interi
pomeriggi, roba da non credere
giorni e giorni la stessa strada
le vetrine che cambiavano stagione.
Abbiamo fatto una malinconia
di sguardi, senza pensare.
L’esercizio perfetto, stare a tempo,
la conoscenza del mondo.

*

Però vorrei un crepuscolo invernale
la lampada nell’angolo in penombra
una domenica, magari piove.
Vedi anche tu che bizzarrìa
in questo vostro agosto mare.
Mi arrangio come posso
devi credermi, l’estate
è un’allergia che un merlo
obliquo nel cielo va tagliando.

*

Tutti questi pensieri di te, di me
com’eri, è un tormento necessario.
Bisogna ricordare senza ritegno
per esempio un bambino sulle scale
sorride incerto se abbracciare.
Quel poco che ho imparato
dalla nostra prima infanzia
è fare prospettiva in uno slancio.

Nicola Bultrini (1965) è nato a Civitanova Marche, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi: Vetro (Interno Poesia 2022), 64 Sonetti (Fuorilinea 2021), La forma di tutti (CapireEdizioni 2019), La specie dominante (Aragno 2014), La coda dell’occhio (Marietti 2011), I fatti salienti (Nordpress 2007), Occidente della sera (nell’ VIII Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea, Marcos y Marcos 2004). Con Mauro Cicarè ha pubblicato La grande adunanza (CapireEdizioni 2018), la prima graphic novel dedicata al mondo della poesia. Scrive per i quotidiani “L’Osservatore Romano” e “Il Tempo”. È presente nelle antologie: Braci, poesia italiana contemporanea (Bompiani 2021), Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli 2016), Sulla scia dei piovaschi – poeti italiani tra due millenni (Archinto 2015), Quadernario blu (Lietocolle 2012). È autore di vari saggi, tra cui Con Dante in esilio – la poesia e l’arte nei luoghi di prigionia (Ares 2020); con Lucio Fabi Pianto di pietra – la grande guerra di Giuseppe Ungaretti (Iacobelli Editore 2018). Da anni è ideatore e promotore di eventi artistico letterari.

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