La selezione di una rosa limitata di inediti poetici tra la produzione non edita di un poeta è un lavoro sempre piuttosto rischioso, seppur stimolante, sia da parte dell’autore che del critico.

Nell’intento di riuscire a individuare le caratteristiche pregnanti di queste poesie, anche in relazione a quelle già date alle stampe, si può notare che la cifra autoriale di Mariella De Santis, nelle sue stratificazioni gnoseologiche e nelle sue trasformazioni stilistiche diacroniche (lungo tutta la produzione, si presenta in forme diverse, seppur sempre sottilmente ricollegabili fra di loro), ha dei nodi espressivi e concettuali che la rendono identificabile.

La lievità del dettato, una lievità carica di attenzione rivolta agli altri e di accuratezza del tono e del lessico, ben consistente anche nei testi più drammatici e accorati, si manifesta sin dai titoli (La cordialità, per esempio, è il titolo dell’antologia delle sue poesie pubblicata per Nomos Edizioni nel 2014, con una epistola-nota di Biagio Cepollaro, ma anche gli inediti Ospitali al dono e La cura di te, quest’ultimo scritto su richiesta di Viviana Nicodemo per il suo libro fotografico Necessità dell’anatomia, per il quale sono stati invitati a scrivere l’autrice, Milo De Angelis e Duilio De Rui).

“L’eterogeneo non viene ‘normalizzato’, ma continuamente compensato da altra dose di eterogeneo”, scrive Cepollaro per l’autrice, ponendo l’ascolto non solo sulla multiformità degli schemi che vanno dalle formule diaristico-confessionali agli approcci poematico-teatrali, dagli stream of consciousness alle brevi prose poetiche (volendo escludere La ministeriale (La vita felice, 2022) dall’alveo della produzione poetica, per un mero fatto formale), dai testi tendenti al limerick ironico-parodistici alle esegesi in versi di postulati e di speculazioni filosofiche.

Come sosteneva, fra gli altri, Giorgio Caproni, una poesia senza un dato realistico, priva di qualsiasi appiglio alla realtà, risulta sospettosa, poco credibile. E, così, nella scrittura di Mariella De Santis compare una sobria ma sempre puntuale nominazione oggettuale che darà l’incipit all’evoluzione spirituale dell’immagine nel ragionamento.

Proprio il ragionamento, in questi testi, non è mai un’alternativa al sentimento: i due poli ermeneutici si incontrano nelle scene quotidiane, nelle piccole cose di ogni giorno, nell’esperienza esistenziale che non è soltanto soggettiva e, naturalmente, convivono (perfino in modo contrastivo) nei versi in cui le immagini rappresentano uno scenario astratto e maggiormente surreale.

Se la concezione della morte interviene in modo forte a un certo punto della vita dell’autrice, in effetti è evidente come non sia mai mancata in tutto l’arco della sua produzione, rappresentando un contraltare necessario dell’ontologia umana, una musa terribile e indispensabile, l’unico elemento che rende esperibile e comunicabile l’intera possibilità di esperienza sensibile.

Vivere nel “disastro”, per Maurice Blanchot (La scrittura del disastro, Il Saggiatore, 2021), significa esistere separatamente dalla stella (dal cielo, dal caso celeste, superiore), e forse questa condizione rende vana la morte perché morire sarebbe come sfuggire allo stesso disastro, che è anche una totalità del nulla che “si prende cura di tutto”. Ecco che nelle opere in esame possiamo leggere, probabilmente, una visione opposta: un disastro che non è solo accaduto, ma perdura e compartecipa della facoltà di ristabilire equilibri, di rielaborare una sopravvivenza che non guarda al “cielo stellato sopra di noi”, bensì a tutte le costellazioni del presente e del futuro che si possono rin-tracciare nell’interiorità umana fatta anche di percezioni e di sogni.

Eros e linguaggio, quasi a riecheggiare l’antica, irrisolta dicotomia di Eros e Thanatos, si mischiano e si compenetrano nell’opera Vinerotiche e altre delizie + 8 ricette per il giorno e per la sera (Leggeredizioni, 2015) che, con una chiave misuratamente comica e irridente mette in luce come una giocosità raffinata, oscillante tra l’autobiografia e l’attenta osservazione delle relazioni umane (perfino quelle conflittuali), possa decodificare tematiche spinose, scene di intimità e quella fiducia nella bontà (moderata) del saper godere che mantiene vivo il desiderio di vivere.

Ipnos – Il poema del sonno (pubblicato, da ultimo, sulla rivista diretta da Andrea Balzola R-ESISTENZE), è uno scritto in forma lunga di grande impatto. L’incipit è una terzina rimata che suggerisce un’ambientazione da interno, intima e solitaria, in cui il soggetto parlante inizia a immaginare le cose attorno a sé ma che non sono in vista.

Avviene una compartecipazione tra la dimensione oggettuale e quella corporeo-psicologica, con una costante trasmigrazione degli oggetti in una sfera onirica che, però, non appare mai del tutto dominata dall’abbandono dei sensi e della volontà.

Seppur possa sembrare che la casa abbia una sua coscienza (motivo ripreso, con le dovute distinzioni, dalla scrivania personificata de La ministeriale), è sempre l’io che, attraverso la narrazione, anima il suo ambiente.

Sonno e veglia, nella loro tormentata alternanza (non esattamente una dicotomia, piuttosto una interdipendenza spesso dolorosa e incostante), svolgono la grande Storia dell’umanità, determinano le piccole storie individuali, anticipano il potere espressivo – e talvolta creativo – della metafora, spiegano l’oscurità originativa che inerisce l’essere umano.

Il saluto, come atto volitivo e istinto incontrollato di atavica memoria, sembra mostrarsi nel suo valore di archetipo antropologico-numinare, tra il simbolo e l’arcano, e ricorre nella poetica dell’autrice con accezioni sempre parzialmente diversificate ma in continua relazione intertestuale, ribadendo quel germe di attenzione per l’alterità che oltrepassa tradizioni e generazioni, conserva un quid di mitologico e ritrova, infine, forza nell’epica quotidiana.

Appare calzante la definizione aristotelica di sonno, riportata in un saggio di Anne Carson contenuto in Decreazione (Utopia Editore, 2023): “il sonno richiede un tipo di lettura ‘demonico ma non divino’”, a cavallo tra l’umanità e la trascendenza. Probabilmente, lo status del sonno è più vicino al lavoro dell’inconscio in cui l’individuo rielabora, spogliatosi di gran parte del fardello delle acquisizioni psichiche, la sua vita cosciente (provando a parafrasare Jacques Lacan) e, chissà, forse riesce perfino a trasformarla.

D’altronde, se il reale è un trauma della trama simbolica (sempre pensando a Lacan), è possibile che con il sonno si possa tornare a ri-simbolizzare l’esistenza concreta e quella immaginaria, soprattutto per il tramite sempre attuale della scrittura poetica.

Nei tuoi testi si passa con fluidità da calembour, allitterazioni e rime a una furente lingua del dolore. Ci parli di come la poesia riesce a sincretizzare le istanze interiori e quelle dialogiche più diverse?

Per centrare questa risposta credo di dover partire dall’evidenza di un’esperienza di lavoro creativo generato nella lingua che ha ormai più di trenta anni e quindi così come un essere umano cresce, conosce, esperisce, determina, anche il lavoro di ricerca si misura con le possibilità, con l’ardimento dell’evoluzione. Il mio primo libro (Da luoghi incerti, 1993) consegnava l’esperienza della frantumazione, di un linguaggio che  si spandeva, non accoglieva la metrica e rispondeva al mondo partendo da un’interrogazione e osservazione del sé. La mia generazione era periferica al coinvolgimento attivo nel terrorismo ma ne viveva gli effetti, ci si stava appena lasciando alle spalle la guerra fredda, si brancolava in un torbidume che era la strategia della tensione e l’inizio di uno sconquasso politico in cui molti si persero e, per me, questo diventava esperienza di una lingua scomposta anche se, oggi dico, troppo ancorata alla restituzione tramite la centralità di un IO che assumeva su di sé una delega. Il proprio smarrimento per lo smarrimento dei molti, la propria disappartenenza (mio oggetto di poetica per molti anni) come disappartenenza di quella che Giancarlo Majorino chiamava “la moltitudine poetante”. Poi il 1991 mi trasferii a Milano, città che mi dava l’opportunità sia di confronti vivaci, generativi con coetanei e maestri  che di operare con  realtà culturali di produzione (editoria, teatro, organizzazione culturale) stimolanti anzi, direi eccitanti e come tali anche destrutturanti nel senso che per poter oltrepassare i confini del  prêt-à-penser o  del prêt-à porter culturale capii che dovevo fare spazio all’incertezza della scrittura, ascoltarmi, ascoltare, rischiare e così stare esattamente lì dove la lingua chiedeva spazio. Misurandomi con le  possibilità d’uso, le trappole, le posture rassicuranti ho capito che potevo avere una mia voce ma che al contempo potevo usarne le coloriture, le estensioni, a seconda della “partitura” ovvero dell’oggetto di scrittura che intendevo indagare. Ecco perché nella mia produzione è possibile trovare una certa ( dico certa nel senso di definita) estensione formale, proprio perché il linguaggio vive di quello che lo fa. Sì, forse un po’ heideggeriana come tensione ma “la poesia come nominante chiamare, invito alle cose a farsi presso” è ancora una mia misura.

Ci spieghi la strettissima relazione che c’è nei tuoi versi tra linguaggio, eros e concettualità, a partire dalla presenza del corpo in perenne trasfigurazione etica ma pur sempre fiero testimone della sua dignità empirica?

Nel corpo facciamo le prime esperienze sensibili della nostra esistenza. Se solo potessimo parlare del parto da cui siamo nati, dello sforzo, dell’impegno ad emettere il primo grido e delle mani che per prime ci hanno toccati, tanto di noi ci sarebbe più chiaro. Ma proprio questo fa la poesia, dà voce ad alcune zone di silenzio a volte non percepibili per mancanza di nostra consuetudine, altre perché coperte dal frastuono. Dico dà voce NON fa parlare. La poesia non coincide col parlare e questo non ha a che fare con gli stili, le forme, i generi ma con una sorta di costitutività dell’atto. Non mi sto allontanando dalla domanda ma la sua costruzione è complessa e fortuna per me, permette una risposta articolata. Ecco perché nei miei testi eros, lingua, concettualità  si incontrano, confliggono, ricompongono in una sorta di triade hegeliana. Nel 2006 fui co-curatrice di una riuscita antologia di poesia erotica contemporanea[1]che peraltro costruimmo attraverso la collaborazione di curatori di riviste di poesia operanti a quel tempo e la scelta degli autori che io proposi era caratterizzata da testi che agivano una tensione  erotica non ridotta né esclusa dai corpi ma ricondotta al bisogno di toccare l’inconoscibile poiché l’altro è “l’inconosciuto” per eccellenza, pensiamo alla densità erotica della poesia mistica e questa evidenza si fa conturbante. La poesia guarda alle spalle delle cose, non solo al loro fronte. Non è verità ma eccedenza di verità, ovvero la supera perché non può limitarsi a descrivere. Nomina quello che vede ma chiama quello che esiste. Al riguardo cito spesso un verso di Paul Claudel: “Più azzurro dell’azzurro del mare/c’è solo il rosso del sangue”, il mare è indubbiamente azzurro ma perché non ci si fermi ad una estetizzazione del visibile e si colga il potente richiamo alla cruenza della vita, Claudel fa entrare il rosso del sangue quale intimo parente erotico del mare.

Nelle tue poesie, sembra che i temi civili appaiano non solo in una veste politica ma anche spiccatamente spirituale. Che ruolo ha, oggi, per te, la poesia civile “in bilico tra sapienza e violenza”?

Esattamente, nonostante io dia rispetto al corpo per essere il primo vettore sensibile dei nostri bisogni primari, sopravvivenziali, per essere misura del dolore e del piacere, non posso che considerarlo una fortezza unica di cui sono parte ragione e spirito. Nonostante la mia iniziale formazione materialista, la mia scelta professionale di stare tra coloro che entrano nella vita da una porta stretta e di questa conoscono prima i ceffoni delle carezze e le molte letture scientifiche che pratico, io credo che l’unica cosa che davvero ci permetta di toccare territori lontanissimi sia la ricerca spirituale. Che, per me, nulla a che fare con religioni (che studio ma a cui non appartengo), sette, dogmi, professioni di fede. Per me la ricerca spirituale è azzardo, salto nel vuoto. Sono una temeraria e sotto un’apparente compostezza dei miei testi lascio scorrere l’inquietudine.

In alcuni testi, i riferimenti storici sono più evidenti, altre poesie appaiono astoricizzate. Cosa rappresenta la storia nelle tue opere, argomento di accese discussioni a certe latitudini della critica, soprattutto oggi?

Sì, ho ben presente  il dibattito. Considero gli individui portatori storicizzati della propria umanità, inevitabilmente se e come poi si decida di fare della Storia oggetto poetico è scelta personale, di postura, di affinità o talora necessità. Io mi confronto più apertamente con eventi storici nella scrittura teatrale, è più consona allo spazio mentale che ho bisogno di occupare, alla lingua che posso usare ma rimane fondamentale il ritmo, che per me resta il vero distinguibile della poesia.

“è iniziato così uno stare tra noi mai interdetto”: può la poesia aiutare a sedimentare forme di continuità, anche al di là della vita e della morte, con chi amiamo?

No, se non nei termini di una restituzione al mondo di quello che già gli appartiene, peculiarità dell’arte e della poesia, naturalmente. Solo che restituiamo attraverso un passaggio e quindi una trasformazione. Torniamo all’eccedenza di verità…

Il rapporto con la terra, attraverso la toponomastica e i dettagli accennati (senza risultare mai esattamente descrittivo), rivela un’anima flâneur che non si appella al singolo genius loci ma sembra radicarsi nel passaggio, nell’esperienza del viandante che trova qualcosa di sé in ogni posto, e forse la sua interezza, pensando a Caproni, lì dove non è mai stato. Ci parli del rapporto della tua poetica con i luoghi?

Oh, sì…il mio primo libro si intitolava Da luoghi incerti, what else? Quando viaggio mi piace guardare le pietre, i marciapiedi e pensare ai passi di chi ci abita e poi collegarli alla natura del luogo e alle abitudini, alle architetture e nella mia mente si forma “la mia forma” di quel luogo rispetto al quale cerco di diventare periferica e di non colonizzare con preconcetti, pregiudizi, aspettative.  A dire il vero da quando non c’è più mio marito[2] non ho molto piacere di viaggiare proprio perché sento il peso di un diverso modo di guardare, stare nel tempo del luogo. Nella mia poesia quando entra un luogo, un numero di bus è perché ciò di cui scrivo è generato da quello e solo quello ma nello stesso tempo lo metto in comune come a dire: riguarda anche voi? Leggo ancora con emozione l’Odissea meno gli autori che fanno dei luoghi un feticcio dolente o glorioso delle proprie vite. La poesia è campo energetico. Ogni cosa è dotata di energia e quella della poesia cresce, decresce, sfinisce nel modo in cui noi organizziamo  poetica,  sintassi,  forma. A me piace la poesia  dialogica, ad alta intensità. Voglio citare autori forse poco frequentati ma alla cui lettura, per quanto appena detto, ritorno con cura e felicità: Delfina Provenzali, Giuseppe Caracausi, Rossano Onano. Inoltre una riflessione, la nuova traduzione fatta da Milo De Angelis del De rerum natura di Lucrezio ha proprio questa peculiarità, libera l’energia del testo e l’intero poema diventa luogo.

Hai nuovi progetti letterari in cantiere?

Sì, molti, a parte le consuete prefazioni, presentazioni, reading, articoli per riviste. Per primo vorrei trovare la forza di teminare UND TABU un poema che si è interrotto con la morte di Anthony John e al quale non riesco a tornare, non so perché. Il testo  dovrebbe avere quale sottotitolo “quello che non si può dire in poesia”. Mi sarò inceppata su qualcosa che non riesco a dire, non so, ma non ho neanche mai riaperto il file o la cartellina di appunti ( lavoro molto prendendo appunti sull’oggetto del mio lavoro). Ho terminato la riscrittura di tre momenti dell’Orlando furioso per l’Opera pupara Orlando- Papa e quest’anno con la preziosa Giuliana Laportella abbiamo realizzato la videopoesia  Il nero e l’oro di Roma. Dovrei ultimare un racconto per completare una raccolta di racconti erotici strettamente ambientati  e legati a Roma (eros inteso nel senso di cui abbiamo parlato in precedenza), ho tradotto alcune poesie di Anthony J. Robbins dall’inglese e l’anno prossimo saranno pubblicate mentre sto cercando un editore per dei suoi saggi splendidi sulla poesia inglese. Inoltre sono vice direttrice di Dromo, rivista per un terzo pensiero (www.dromorivista.it) in cui una ferita della contemporaneità chiama a dialogo filosofi, scienziati, poeti, psicoanalisti e lettori, sappiamo il lavoro culturale quanto tempo richieda ma per me vivere è in molta parte “assunto categoriale” come diceva il compianto Gino Gorza ( autore che pubblicai decenni orsono e che sarebbe da riscoprire) e quindi non posso sottrarmi dall’essere parte senziente, sensibile e attiva del tempo che mi spetta, qui, oggi.

[1] AA.VV., Antologia della poesia erotica contemporanea, a cura di L. Benassi, N. Cavalera, P. Corbo, M. De Santis, G. Fantato, M. Ferrari, P. Vitagliano, Atì editore, Brescia, 2006.

[2] Anthony John Robbins ( 1946-2019), anglista, poeta, saggista e traduttore.

IPNOS

il poema del sonno

Nella mia camera buia ascolto
ogni secondo d’argento tintinnare,
un suono lontano di pompa pulsare.

Immagino in alto e in basso i letti
dei vicini, i loro volti
dalle tenebre avvolti.
Li seguo col passare delle ore
sino al primo trillo di sveglia.

Il bagno, la cucina, la nebbia sul balcone
la città bocca vorace attende di succhiare
i residui gesti lenti del mattino.

Incontro nelle ante dell’armadio
la mia immagine allo specchio
dal grigio intorno agli occhi
dalla ruga alla radice del naso
e dalle labbra esangui mi accorgo
che anche stanotte ho vegliato.

Forse.

O invece ho sognato di simili
immaginati da una donna insonne
e recito Quando tu dormi io non so se m’ami
al cuscino gonfio accanto al mio.

Rigiro la casa da destra a sinistra
avanti, indietro chiedo e non risponde
come non fossi io la sua padrona
ma solo un’ospite incerta
sempre prossima al saluto.
E’ lei, è lei che ruba il mio sonno
lo respira, se ne nutre
e mi guarda vegliare.
Io continuavo ad essere insonne
mentre le notti di luna fredda,
avvolgevano di silenzio le ginestre del giardino.

Eppure da una lunga tenebra
inizia il nostro viaggio,
un’umida sosta lacerata da grida,
segno per un mare d’acque feci e sangue
che s’apre e noi in breve
trattenuta caduta
liberi tra abili mani,
con un sano pianto a salutare il mondo.
Noi siamo infinitamente persi tra l’urlo della nascita e la sua ripetizione ultima.
Ci saremo noi a salutare
l’estremo grido?
E dove siamo quando
la piccola tenebra del sonno
ci cinge senza arti e vince?

Veglio per capire ma se sono in veglia
non conosco il sonno e se la coltre
di piombo liquido m’avvolge
non sono presente a quell’altra vita.
Jesce sole, jesce sole nun m’ fa cchiù disperà.

Alfa, teta, complessi kappa
poi terzo e quarto stadio
infine sonno paradosso.
Ondulazioni armoniose
nelle zone occipitali
immagini complesse
occhi in movimenti
lenti e poi rapidi.
Cuore polso e respiro
quasi inascoltabili,
così in stato assai simile alla morte
si arriva immersi in confusione.
Erezioni incontrollate,
campi elettrici, flussi chimici
questo sa del sonno la scienza.

In tanto tumulto si fa largo il sogno.
Noi siamo fatti della stessa materia dei sogni
e il sonno conclude la nostra breve esistenza.
Alti picchi di noradrenalina e dopamina
nessun segno, nessun rumore
è la morte che nel corpo si muove
abbranca la vita alla gola
dando inizio alla lotta
o forse a un amplesso,
alterna vicenda
tra dolcezza e violenza
conclusa dal sogno.
Così noi siamo solo
spiaggia, landa desolata
terreno di confine
o ombre vaganti
in campo d’oppio.
Senza alcun potere
su corpo, mente
o quello spasmo d’apnea
che qualcuno chiama anima.

A ritroso raggiungo
prima della storia il mito:
sulla sponda di levante del mediterraneo
viveva nel vestibolo degli inferi
una famiglia scura.
Dolore, Lutto e Sonno con sua sorella Morte,
da orgia incestuale nacque la tragedia.
Nel fianco d’occidente invece
figlio della Notte, fratello di Speranza
era Sonno riposo degli esseri, il più dolce
degli dei, pace dell’anima, parente di Poesia.

E così accade che chi dorme
non pecca, non piglia pesci ma pesca….
ma pesca sogni spesso voluttuosi.

Non è più tempo – mi hai detto-
di andare, tornare.
C’è bisogno che almeno uno di noi
resti fintamente fermo, zitto
a guardia delle troppe parole.
Questo fu il sogno,
uguale te lo racconto.
Continuasti: il sonno della ragione genera mostri
e vidi i grandi molli seni di Lenòr
confusi con la spiaggia della Chiaia
a nutrire con gocce povere il sogno
di una rivoluzione mancata.
Io mi svegliai e piansi.

Meraviglie, miracoli o previste
funzioni fisiologiche accadono
a volte liberate altre controllate
da Tavor, Darkene, Roipnol.

Allora l’Eterno Iddio fece cadere un profondo sonno sull’uomo.
Al risveglio gli fu accanto Eva,
da costola a persona
la prima clonazione.
Il sonno di Adamo
fu solo anestesia?
O artificio atto a nascondere
un terribile segreto?
Quello, poniamo
della maternità di Dio?
Un dio che spalanca le cosce
contrae i muscoli della pancia
dei glutei, spinge e genera.
Un dio che dopo il parto
sfinito riposa e scivola nel sonno.
Se Dio c’è.
E se c’è, essendo eterno
lunghe eterne ore dura il suo sonno.
Così gli uomini inventarono
un disegno di moltitudine,
il canto in coro, la risata,
l’applauso per scuoterlo alla vita.
Ma lui dorme e sogna
un creatore onnipotente
che dà fiato al suono,
luce agli occhi,
materia ai corpi.
Dalle mani gli sfuggono
guerra dolore e fame.
Tardi se ne avvede
e per riparo al torto
dona la tregua del sonno.

Vorrei poter credere
a un dio dormiente
vigile come una madre,
poter sperare nel suo risveglio
al grido del figlio Padre, Padre perché mi hai abbandonato?
Dopo quel grido anche per lui
un sonno di tre giorni e noi
Gesù dorme, cosa posso sperare?
Coscienza delle tenebre è lo sbadiglio,
di resurrezione temporanea ogni risveglio.

San Nicola che vai per mare
questo bambino non vuol fare la nanna
e ninna nanna e ninna oh
questo figlio a chi lo do?
Ninna nanna, ninna oh
il lupo s’è mangiato la pecorella.
Insensatezza di nenie
per sopire neonati
spesso odiati
per l’imperterrito urlare
che terrorizza, paralizza.
Da dove tutto quel fiato,
quella smorfia d’orrore
su visi che vogliamo
specchi d’innocenza?
Ma l’innocenza è a malapena
una isola di amnesia,
nel corpo noi portiamo
i segni di millenni
assai pesanti.

Solo le parole salvano il tempo dall’oblìo
e permettono alla fine di risvegliarsi un poco.

Come il sogno dei gatti
mi dicono –
è quello dei neonati.
Cosa darei per conoscere
quello del dinosauro
o del sapiens mio antenato.
Ci accompagna dalle origini
una spasmodica fame di sapere
appagata da estroverso immaginare.
Si produsse il segno, poi la parola
col racconto tutto si affolla
sogno, mito, archetipo, ragione.
Sopra il sonno, sotto la veglia
la scrittura spartisce
origini, confini, dimore.

Se è regola sociale
il tempo del dormire
nessuno di noi in esso
è eguale.
Gli odori, le posture
visi beati o smorfie
gemiti, sospetti a fior di labbra
verità che evade.
Ah, come potrei lamentarmi,
Come, cuore mio, vederti tanto greve,
Se il sole perfino deve disperare,
Se persino il sole deve tramontare?
Al risveglio tutto pare
simile al giorno innanzi
mentre vive silente in noi
un boato d’anarchia.

Mariella De Santis è nata a Bari in un raro giorno di neve del 1962. Vive tra Roma e Milano.
Nel 1991, per la sezione inediti, viene segnalata al Premio Internazionale Eugenio Montale. Quei testi confluiranno nel 1993 nella prima raccolta di poesia, Da luoghi incerti (Book editore).
Suoi racconti sono stati trasmessi dalla Radio Nazionale Croata e dalla Radio della Svizzera Italiana con cui ha collaborato. Testi in prosa sono presenti in antologie tematiche nell’area della scrittura di ricerca. Tra le più recenti HOTtel, storie da un tanto all’ora ( Whiteflypress, 2014) e Mia Madre era (Gattomerlino, 2018). La Ministeriale, intervista impossibile ad un’onorata scrivania di potere ( La vita felice, 2022) diventerà una graphic novel.
Ha collaborato alla realizzazione di prodotti videopoetici e lavorato con musicisti classici contemporanei. Ha scritto l’opera di teatro musicale Claude e Maurice, sul rapporto tra Debussy e Maeterlinck, con la musica del maestro Claudio Simoni, rappresentata nel Festival di Novurgia ( Milano, 2009).
E’ autrice teatrale rappresentata in rassegne e festivals anche internazionali. I suoi ultimi lavori ancora in scena, sono Con queste mani (Joker ed., 2010), drammaturgia civile in versi e Merletti e baionette ( CFR ed., 2012) testo di ambientazione contemporanea, sulle donne di ingegno e azione meno note del Risorgimento italiano.
È presente nel lavoro antologico curato da Mariella Bettarini Donne e poesia. Tra le sue pubblicazioni in poesia: Porta d’ingresso (Alla pasticceria del pesce, 2005), Silenziosi Immobili Frammenti (libro d’artista di Nino Bacco in 10 esemplari, Milano,2006), La cura di te, poemetto per il libro fotografico di Viviana Nicodemo Necessità dell’anatomia (Spirali,2007), Ipnos il poema del sonno, in Gli Smerilliani ( Cattedrale, 2011), La cordialità, (Nomos, 2014) è corredato da una selezione di testi tradotti in inglese da Anthony John Robbins ed è stato recensito su carta e in web (Poesia, Il corriere della sera, Incroci, Il Domenicale del Sole 24 ore, Le reti di Dedalus, La città e le stelle, La presenza di Erato, Ruvolive, da Bitonto, lombradelleparole) e fa parte dell’Annuario di Poesia del 2015 (Puntoacapo ed.).
Numerosi gli interventi critici e saggistici. Cura rubriche su riviste cartacee e in web. Con Gilberto Finzi è curatrice di Menhir, opera omnia di Delfina Provenzali (Archivi del 900,2004). Collabora con artisti visivi, case editrici e cura progetti di animazione culturale. Ha fondato riviste ed è stata vice direttore di Smerilliana, luogo di civiltà poetiche e attualmente di Dromo, rivista per un terzo pensiero.
Vinerotiche e altre delizie volume di poesie in cui attraverso il vino si parla dell’eros e attraverso il cibo dell’agape è alla terza edizione per i tipi di Leggereedizioni ( Altamura, 2015) in una nuova edizione rivisitata. Il compositore Salvatore De Biase ha composto, Magnificatango per flauto solo ( eseguito da Luisa Sello) ispirato al Magnificat che chiude il volume.
È tradotta in inglese, arabo rumeno,spagnolo, croato, neogreco, tedesco.

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