Beatrice Zerbini (foto di Daniele Ferroni)

Rileggendo un saggio fondamentale come Soglie (1987), di Gérard Genette, appaiono ancora vitali alcune osservazioni circa la natura e la funzione del titolo di un’opera, soprattutto riguardo alla sua capacità di rivolgersi a un pubblico ben più vasto di quelli che saranno poi gli effettivi lettori. E sembra che Beatrice Zerbini, all’attivo con due raccolte di poesia (In comode rate, 2019, e D’amore, 2022), entrambe edite da Interno Poesia, sappia bene come sfruttare al meglio questo elemento paratestuale per generare, nei lettori, un’attesa e un’aspettativa con cui giocare e con cui sorprendere. D’amore, infatti, nonostante ciò che possa suggerirci il titolo, è un libro che catapulta immediatamente chi legge in una dimensione di lutto, già a partire dai primissimi versi: «Non mi tolga tutto il lutto, dottoressa, / me ne lasci la metà». Nella prima Stanza (Sulla soglia) delle quattro che vanno a costituire la struttura della raccolta, il tema dominante è quindi quello della morte. L’incontro con un «carro funebre in autostrada» apre le porte a un parallelismo tra lo stato di non-essere proprio di chi è morto e quello di non-vita che si trova a vivere la poetessa («strane le nostre vite: / tu che muori, io che non vivo»), producendo così un continuo confronto e rispecchiamento nella somiglianza dei due stati, che si riverbera per tutti i testi della raccolta. Zerbini sembra come metterci in guardia: questo è il mondo in cui l’io agisce e questo è il modo in cui l’io si definisce, per contrasto o per mancanza, in difetto di vita. Partecipazione e insieme distacco fanno sì che l’io si trovi a pronunciare i suoi versi da una posizione mediana, come a mezza voce, in grado di toccare ora il comico, ora il tragico. Dopo aver creato – forse inconsciamente – questo microcosmo in cui agire e in cui muoversi, Zerbini va avanti senza seguire le tappe di un percorso già tracciato a priori, ma procedendo per scintille o piccole epifanie. Il dato esperienziale, a tratti aneddotico, costituisce sempre il punto di partenza per un pensiero che s’incarna in versi spesso di grande impatto, che seguono un andamento sospeso tra l’iniziale impressionismo e il successivo overthinking. Così, ad esempio, un lapsus della memoria, che fa dimenticare «il codice del bancomat, / identico / da sempre», è in grado di scatenare «un fulmine dal nulla», «terremoto» e «alluvione» che assumono la forma di un amore negato o rifiutato («come tu mi dici che mi ami, / però niente, / che mi vuoi, ma che non puoi»), davanti al quale la poetessa rimane inerte, costretta nel suo stato limbale. Zerbini applica un procedimento poetico che cerca di razionalizzare il dato emotivo puro. Le poesie assomigliano così a piccole lezioni di autocontrollo, nel tentativo di ammansire l’emozione, pur cogliendola nel suo esplodere. Non sempre si tratta di un lavoro semplice o immediato: «che lavoro disamare, / soffocare, / che cesello da artigiana / che ci vuole. / […] / Sempre un triste mestiere / seppellire». Risulta essenziale a questo fine, anche in un’ottica di stemperamento del tragico, la dimensione dell’ironia, che accomuna Zerbini ad altre poetesse della nostra contemporaneità – penso in particolare a Vivian Lamarque e Patrizia Cavalli. È un’ironia che prende vita ora nella dimensione della filastrocca, alla Gianni Rodari («un ti amo che non so / se la mia testa scorderà: / resta lì con di, a, da, / in, con, su, per, tra, fra»), ora nell’abile gioco di parole, come in Palazzeschi o in Gozzano («Io vorrei che tu / volessi bene a me / come a una cara / cara estinta»). In parte superando la dimensione del lutto, in parte mescolandosi a essa, le altre tre Stanze della raccolta (Anticamere, Dalla finestra, appena fuori e Nel cassetto) mettono a fuoco il tema cardine del libro: l’amore, di cui s’indaga una vasta e capillare fenomenologia, sempre per contrasto o per mancanza, ora con picchi di pathos ora con disincantamenti vari e talvolta sorridenti. Zerbini è ben capace di variare sul tema, con gusto ed eleganza, prendendo via via sempre più confidenza con il lettore, che diventa quasi un confessore, un amico fidato, un pronto consigliere. Talvolta, diventa anche giudice: quando l’amore è ingiusto e merita un processo. Ma è comunque un amore custodito in un «cassetto», quello di Beatrice Zerbini, al riparo da un’esposizione troppo facile e serena. È emozione dirompente e dirimente. E con il procedere dei testi, l’amore va a confondersi con le altre emozioni, s’incontra e scontra con la dimensione della morte, come a voler scavare sempre più in profondità nell’io di chi scrive come in quello di chi legge. E quando anche l’ironia viene meno, non resta che osservarsi – anche se mai compiaciuti, come davanti a uno specchio, ma sempre con il nostro «inward eye», ripensando a Wordsworth – per cercare, infine, di comprendersi. E, una volta afferrato qualcosa, sfuggirci.

Da D’amore (Interno Poesia 2022)

Non mi tolga tutto il lutto, dottoressa,
me ne lasci la metà;

io non voglio che il mio cuore
sia sgombro per intero,
mi lasci la mancanza:

faccia male di notte,
se non dormo, ma se dormo,
se possibile, vorrei
non svegliarmi nel buio,
come se
non potessi respirare.

Mi tolga
l’impossibile che è che non si possa
più ascoltare la sua voce
e lo squillo del telefono mai suo
quando compio un altro anno
e non vorrei.

Mi lasci continuare
a guardare fissamente

se qualcuno beve
il caffè nel vetro

e faccia che io pianga
sulla torta di riso;

mi tolga il grido, se può,
la testa che sbatte,
il nero che fa
la fine.

Non mi resta che
la mancanza che è:
e se è il dolore che riempie
come un corpo
il mio corpo,
me lo lasci per metà.

Non voglio perdere
che ferisca
la lama che non taglia dei suoi occhi;

tolga il lutto che inginocchia,
che non crede, che mi chiude
in casa.

Mi lasci che mi facciano
male i fiori,
ma non tutti,
solo quelli
arancioni.

*

Potrei scriverti una lunga
lettera,
per spiegarti con parole
– se lo vuoi –
di che cosa tu mi spogli,
come tu abbia fatto piccolo
questo corpo amato male.

Ma rimanevo nel cortile,
seduta sui gradini,
nei primi pomeriggi
digeriti dagli anziani
nei letti di sopra
delle case popolari:
e da lì ti scriverei
con la mano più grande,
con l’identico cuore:

io sono una che piange
una cornacchia che sguazza
nel parcheggio soleggiato
sullo svincolo.

Nel becco,
con la mia identica gioia
divora un grande pezzo
di carta stagnola.

*

                                                                           Ad Andrea Z., in ricordo di Sara

Sara, c’era
la primavera fuori, le cinciallegre
saltavano impazzite,
come ferite, e c’era
un vociare lontano, non so dirti se fosse
di risate
smosse, in fondo al vicolo più stretto
o se negli spiazzi di sole delle scuole,
quasi chiuse ormai.

E c’erano orologi appesi sui palazzi,
a indicare l’infinito del tempo
o appena un momento
e la cocciniglia da estirpare
da tutti i fiori, anche se
c’erano i fiori, lo giuro; il fresco
dei gelati
lungo la gola, quando pare
fare male,

e le panchine sgombre
di bambine, non lo sto a raccontare; non è
stato facile
vivere, non lo è per nessuno.

Te lo racconto appena,
se non puoi ora affacciarti,
questo tutto, questo troppo
che faceva paura, perché ricordi
in volo adesso
che il cielo non ci basta.

 

Beatrice Zerbini (Bologna, 17 gennaio 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli tre anni alla decima ristampa. Con la sua voce «unica, ironica e profonda» (così l’ha descritta Alba Donati, paragonandola per facilità di canto a V. Lamarque e W. Szymborska), è riuscita a trovare un nuovo e coinvolgente linguaggio per la poesia d’amore. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. A novembre 2022, pubblica D’Amore (con prefazione di Alberto Bertoni), la sua seconda opera poetica, ad oggi alla quarta ristampa, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia. A fine febbraio 2023 pubblica Padre nostro, il suo primo albo illustrato (con illustrazioni del premio Andersen Sonia Maria Luce Possentini, per Carthusia Edizioni, nella collana Grandi Storie al quadrato). Ha partecipato e partecipa a numerosi festival e rassegne in Italia (tra cui: Poesia Festival, Alzheimerfest, Festival di Poesia Civile e Contemporanea del Mediterraneo, Più libri più liberi, Condimenti Festival, Poeti al Porto…); è stata ospite, con i suoi testi e con recensioni ai suoi libri, di riviste, testate nazionali, quotidiani cartacei e online (tra cui: Poesia di Crocetti, Rai Poesia, Alias – Il Manifesto, Io Donna, 7 Corriere della sera, Atelier Poesia, Centro Culturale Tina Modotti, Poesia del Nostro tempo, La Repubblica, Bibbia d’asfalto, L’asterorosso, Inverso – Giornale di poesia, l’Estroverso, Morel – voci dall’isola, per citarne alcuni), di trasmissioni radiofoniche e televisive (Tv7 su Rai Uno, il Sabbatico su Rai News 24, Fahrenheit su Rai Radio 3). Scoperta da Alba Donati, che ha firmato la prefazione della sua prima raccolta, In comode rate (ad oggi all’undicesima ristampa). Nel 2020 In comode rate è stato tra i primi dieci libri di poesia più venduti dell’anno dalla catena di Librerie Coop.

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